La teleferica Cataggiddebbi-Castelbuono. Una storia per immagini

E’ in uscita nella collana L’Atlante Linguistico della Sicilia (ALS) per la Scuola e il Territorio del prestigioso Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani il lavoro etnolinguistico di Massimo Genchi dal titolo Bosco carbone e carbonai a Castelbuonolingua, storia, cultura.

Siamo più che lieti di accogliere in più puntate in anteprima, nella nota rubrica STORIE, una parte decisamente minima della ricchissima appendice fotografica, nell’adattamento curato dall’autore per Castelbuonolive, relativa alla teleferica impiantata negli anni trenta a Castelbuono per il trasporto di legna e carbone dalle alte Madonie alla stazione di arrivo, posta alla Madonna del Palmento, tratte dall’Archivio del Periodico LE MADONIE per gentile concessione dell’avvocato Mario Lupo, che qui ringraziamo pubblicamente.
 
 
 
 

La teleferica Cataggiddebbi-Castelbuono

 

A più riprese, specie durante i due conflitti mondiali, per il soddisfacimento della grande e costante richiesta di legna e carbone da parte dello Stato, per ricavare le traversine delle strade ferrate e l’alimentazione di treni e navi, nelle Madonie e in tutte le zone boscate d’Italia, estesi boschi se­colari furono più volte requisiti per il taglio indistinto.

Per esempio a Petralia Soprana nella zona compresa fra la Statale 120 e la contrada Savochella, subito dopo il bivio Gangi-Geraci, tra la fine dell’ottocento e i primi anni del novecento, un intero bosco di roverelle fu requisito e letteralmente cancellato dalla faccia della terra.

 

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In conseguenza di ciò, quel territorio – già subito dopo il taglio – fu interamente riconvertito in terreno seminativo. Alla fine degli anni ’80 ho potuto raccogliere dalla viva voce di alcuni arzilli novantenni petralesi la testimonianza e le espressioni di meraviglia che ancora accompagnavano i loro racconti allorché ricordavano che nel corso del primo anno di semina il grano in quel terreno abbondantissimo di humus, raggiunse altezze mai viste confrontabili con quelle della vegetazione di un canneto. Altro che fertilizzanti!

Successivamente, a partire dagli anni trenta del Novecento, e fino alla conclusione del secondo conflitto mondiale, la quasi totalità dei boschi italiani venne requisita dalla milizia forestale e sottoposta a un pesantissimo e sistematico sfruttamento. I secolari boschi di querce e di leccio di Castelbuono non sfuggirono a questa terribile devastazione e, per una parte di essi, si temette la scomparsa, dal momento che vi fu applicata la dissennata tecnica del taglio raso.

La milizia forestale, pur continuando a coordinare le operazioni di controllo e di pesatura dei prodotti estratti, aveva trasferito le operazioni di taglio e di carbonizzazione a ditte private.

Nelle alte cime delle Madonie furono costruite diverse teleferiche per rendere più age­vole e celere il trasporto di legna e carbone dai punti più impervi alle strade carrozzabili. Nel versante settentrionale delle Madonie ne vennero costruite due, entrambe gestite dalla Caruso, una società catanese specializzata nello sfruttamento dei boschi.

La prima teleferica partiva dall’estremità ovest della Valle dell’Atrigna o forse ancora più in alto, dâ Costa dû mònacu, e arrivava ô Ruccazzu, appena fuori dal centro abitato di Isnello. Qui un operaio di Castelbuono perì tragicamente sul lavoro, tranciato da un cavo di acciaio che fatalmente si spezzò durante il trasporto a valle di una partita di carbone.

 

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La seconda, montata a Castelbuono, aveva la stazione di arrivo alla Madonna del Palmento, nell’area compresa fra la chiesa omonima e la scuola media, e partiva dâ Schina dû Trippaturi, nei pressi di Cataggiddebbi.

Ora, se l’etimologia del toponimo Trippaturi è immediata, dal momento che si tratta letteralmente della radura nella quale, verso l’imbrunire e prima dell’alba, si riversano i conigli selvatici per saltellare, trastullarsi e ruzzare, quella legata a Cataggiddebbi appare un po’ più aggrovigliata.

 

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Intanto diciamo subito che negli anni trenta del novecento il bello quanto misterioso toponimo fu sostituito con l’orripilante Piano Imperiale, in segno di deferente omaggio al duce e al costituendo impero.

Cataggiddebbi è manifestamente composto dal prefisso catà, ‘che sta sotto’ e dal un non meglio determinato ggiddebbi che si riscontra soltanto nella denominazione di una grotta del palermitano, appunto u Cànnacu i Ggiddebbi. E che ci porta, è il caso di dirlo, in un vicolo cieco. Ma la consultazione di diversi rendiconti naturalistici fornisce una traccia insperata. Fino all’Ottocento, infatti, la nostra località fu puntualmente denominata Cacaciddebbi, come risulta dalle comunicazioni di ritrovamenti di specie botaniche ed entomologiche riportate da svariati naturalisti di tutta Europa.

Ora se si tiene conto che ciddebba è il palo a cui si lega la cavalla per farla coprire e che il bisillabo che lo precede non necessita di alcun seminario esplicativo, Cacaciddebbi si spiega abbastanza facilmente pensando che in quel luogo umbratile non è improbabile che, storicamente, vi siano stati allevamenti di cavalli.

Ritornando alla teleferica, nei pressi delle stazioni di partenza vennero costruite diverse capanne dove i boscaioli e i carbonai si stanziarono per lungo tempo, alcuni anche con le rispettive famiglie. Non è chiaro, ma è assai probabile, se il villaggio sia stato costruito in posizione mediana fra le due teleferiche o se, invece, ne furono costruiti due, uno sui monti di Isnello, l’altro sulle nostre montagne.

Nel libro La croce sul pane si dice che, almeno da un certo momento in poi, gli operai che, nel periodo di funzionamento della teleferica, lavorarono come carbonai nei boschi sopra Castelbuono, erano degli internati slavi. Effettivamente qualche assiduo frequentatore delle nostre montagne, sostiene di avere trovato in quelle zone una moneta “greca”. Perdoniamo senz’altro al nostro uomo dei boschi il veniale scambio dei caratteri cirillici in cui sono scritti le lingue slave con quelli dell’alfabeto greco. Cosa volete che sia, in confronto alla diuturna profanazione della grammatica italiana messa in opera da “autorevolissimi” personaggi della politica locale?

Ritornando agli slavi, la cui presenza a Castelbuono in quel periodo è più che certa, c’è da dire che non furono i soli a lavorare nel bosco dal momento che, a parte le documentazioni fotografiche, vi sono elementi diversi che permettono di concludere sulla condivisione di quella esperienza con carbonai castelbuonesi ma anche con gente venuta, con ogni probabilità, dall’Etna.

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In questo scatto fotografico (foto 4) che riprende un particolare del villaggio, infatti, si possono individuare almeno tre tipologie costruttive dei rifugi: baracche in legno, pajjara ricoperti di fronde e pajjara con la copertura di terra. Da ciò si deduce che a costruirli furono operai provenienti da posti assai lontani non solo geograficamente ma anche per culture, come dimostra la presenza delle baracche di legno, che potrebbero essere state costruite e abitate dagli slavi.

A differenza dei pajjara dei carbonai siciliani che sono quasi sempre a cono, ciascuno di quelli che si vedono nella foto è a pianta rettangolare, a nnavë, per disporre di uno spazio maggiore all’interno, e – cosa poco comune – dotato del caratteristico arsë dû pajjarë, la base in pietra, visto che sarebbero stati abitati per un tempo non breve.

Inoltre, alcune capanne presentano la copertura rifinita con uno strato di fronde – tipica della tipologia costruttiva locale – altre, invece, presentano una copertura, tipica dell’Etna (foto 5), con un abbondante strato di tufuna, sorta di grande zolla di terreno erboso, situato con la superficie erbosa sulle fronde sottostanti.

 

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La foto seguente, che ritrae la famiglia di uno dei carbonai all’esterno della capanna, è di altissimo valore etnografico. Specialmente nella bella stagione, in questo spiazzo si svolgeva gran parte della loro giornata, anche perché l’interno della capanna, per quanto spazioso, era completamente al buio.

 

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Sullo sfondo, quelli che sembrano i palazzi di Palermo visti da lontano, da un sito a maggiore altitudine, per esempio Bellolampo, non sono che una distesa a perdita d’occhio di pietra calcarea. La pietra calcarea, almeno da questo punto di vista, stimola enormemente l’immaginazione, come quando in montagna sotto il sole cocente, ccû suli ca spacca i mazzacani – diciamo noi, cammini da quando ha fatto giorno, come un disperato, alla spasmodica ricerca di un maledetto fungo basilisco, non per procacciarti i fatidici ottanta euro vendendoli a qualcuno in paese, ma solo per farti un piatto di tagliatelle, improvvisamente ti si spalancano gli occhi: naaaa!, a duecento metri, in mezzo al basilisco già nfutu, fa capolino un pataccone di fungo di almeno venti centimetri di diametro. Ti precipiti lì col coltello pronto per recidere il citrigno gambo… un prìeu e un sùonnu e nel raggio di tre chilometri, rimbomba una raffica di improperi sulla moralità dei santi: era una petra quacinara! Un’ebbrezza che solo chi va per funghi basilischi può provare.

A parte l’allucinogena pietra calcarea, la fotografia mette nel dovuto risalto il trisavolo del gazebo: La loggia. Che però non ha niente a che vedere con l’omonimo senatore forzitalico, che tanta parte ebbe nella berlusconiana politica italiana a cavallo dei due secoli.

Maggiore attinenza sembra avere, invece, con le logge della patronale festa di sant’Anna (per quelli di una certa età le logge sono soltanto quelle attese per un intero anno rigorosamente montate in via sant’Anna) davanti alle quali si baloccarono svariate generazioni di bimbi solo alla vista di bambole e macchinette semoventi.

 

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Lo stesso baloccamento, in una delle ultime edizioni delle logge in via sant’Anna, non penso si possa riferire a una bella luggiara alla vista di un adone – si fa per dire – che, nno fil’û minziùornu, si palesò completamente nudo al balcone dirimpetto la loggia della poveretta la quale reagì con prontezza di spirito, ma anche con la malizia propria di chi è edotta in merito, minimizzando: nn’ami vistu chiù miegli!

La loggia, dunque, è questa tettoia di fronde costruita sullo spiazzo con quattro robusti palacciuna che fungono da sostegni per ripararsi dai raggi del sole che rendono quel desolato posto rovente come l’interno di una carcara, la fornace della calce appunto. E c’è da scommettere che nelle ore più calde del giorno non sarebbe stato difficile cuocere un uovo spezzandolo all’interno di una padella ed esponendolo ai raggi diretti del sole. Effettivamente, anche in un ambiente più riparato e con materiali a minore potere calorifico se c’è molto caldo si dice ordinariamente: c’è un càviru ca si cùocinu l’ova.

Ma l’interesse di questa fotografia risiede anche in una serie di altri elementi come il naturale stare e muoversi a piedi nudi delle tre donne su un suolo che, sulla pianta dei piedi, doveva produrre una sensazione non proprio carezzevole. Altri elementi degni di menzione sono la grattugia appesa al sostegno di destra della tettoia, l’antenato del barbecue, vale a dire u tribbùoru (ai piedi della ragazza) per sostenere la graticola che si scorge alla sinistra della bambina. Dalle numerose masserizie che si scorgono un po’ ovunque nella foto, con le quali oggi si potrebbe allestire un assortito museo etnoantropologico, si deduce che, a fronte di una vita maledetta, la gola e la pancia, tutto sommato, non dovevano essere duramente penalizzate. D’altra parte si sa, saccu vacantë um po stari addritta. Bisogna pur mangiare, specie se si fanno lavori pesanti. In base a questo sacrosanto principio, al giorno d’oggi molti politici, e quanti parassitano all’ombra della politica, dovrebbero saltare due pasti su tre.

Infine, ci sono due elementi che mi piace evidenziare, a suggello del decoro di questa gente costretta a vivere in condizioni estreme: il primo è la dignità con la quale vengono esibiti gli abiti indossati e l’asciugamani (con la frangia!) posto sulla porta ad asciugare, il secondo è il senso della pulizia, che prescinde dall’ambiente ostile, e che traspare dalla presenza della scopa di saggina e del ferro da stiro, alle spalle della signora. Su tutto si staglia il sorriso semplice e bonario delle tre donne, che condisce di dolcezza la terribile condizione della loro vita, e – specialmente quello della madre – diffonde una sensazione di fiducia in un futuro meno ingeneroso.

 

CONTINUA

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