La teleferica sbarca alla Madonna del Palmento – una storia per immagini (continuazione e fine)

Tra la pubblicazione della prima e la seconda puntata di questa storia, l’avvocato Lupo (che qui ringraziamo per la cortese disponibilità) nello sterminato archivio del suo giornale ha scovato – casualmente, o forse no – un documento fotografico di fondamentale importanza (→ foto 1) che permette di confermare l’ipotesi avanzata nella precedente puntata, secondo la quale l’agglomerato di pagliai e baracche sorse fra le stazioni di partenza delle teleferiche di Castelbuono e Isnello, svelandone la località.

Si tratta della Valle Pilata di mezzo che parte dal Carbonara, attraversa il massiccio centrale delle Madonie e infine sbocca a 1680 m di altitudine, tra l’ingresso della la Valle dell’Atrigna e i Monticelli (→ foto 2).

Fig. 1

Foto 1

Foto 2

Foto 2

Osservando la foto panoramica del villaggio (→ foto 3) dove, per un periodo di tempo non breve, si insediarono boscaioli e carbonai con le rispettive famiglie, si può notare, tra l’altro, quanto la costruzione che sorge all’estrema sinistra sia più articolata e spaziosa delle altre, presentando un’ampia tettoia di fronde sul fianco e un’altra di dimensioni ridotte sul fronte.

Foto 3

Foto 3

La stessa costruzione, vista da un’altra inquadratura, (→ foto 4) permette di congetturare che potrebbe trattarsi della capanna destinata ad ospitare l’alloggio e gli uffici dell’amministrazione. Ciò anche per la presenza di diverse botticelle che, per la loro innaturale postura e la quanto mai sciagurata sistemazione all’ùocchi’û suli, difficilmente possono accreditarsi agli occhi di chi guarda come contenitori di vino che, in quelle condizioni, a colpo, prenderebbe la via dell’aceto anzi, diventerebbe addirittura acitu fìerru filatu.

Foto 4

Foto 4

Queste botti fanno pensare, invece, a un centro di approvvigionamento idrico nei pressi della baracca dell’amministrazione all’interno della quale era ubicato (→ foto 5) anche lo spaccio alimentare.

L’immagine, non è per niente dissimile da quelle che si sarebbero potute scattare fino a qualche tempo fa in una qualsiasi putìa di lùordi, che non significa negozio gestito da gente lurida, in perenne alterco con l’igiene, ma che la vendita avveniva a peso lordo e rigorosamente a credito.

Foto 5

Foto 5

E anche in questo bazar d’alta quota non dovevano poi girare tanti piccioli, tenuto conto che sulla bancata, a immediata portata di mano del gestore, campeggia la libretta, la più classica delle quali – al pari della moleskine – aveva la copertina nera e lo spessore colorato di rosso, ma non l’elastico. Il negoziante vi registrava la merce venduta, il relativo importo, la data di vendita e riportava gli stessi dati sulla libretta dell’acquirente, quasi sempre di piccole dimensioni, pocket diremmo oggi. Al giorno d’oggi noi pensiamo di essere tutti in versione due-punto-zero (molti dei quali, a dire il vero, più zero che due) ma, a volerla dire tutta, il pagamento tramite POS, trascurando il non secondario aspetto che la vendita avviene per contanti, funziona allo stesso modo: oggi, come allora, le parti non hanno bisogno di sporcarsi le mani maneggiando soldi.

Oggi non facciamo più caso al fatto che i soldi che maneggiamo possano essere stati toccati da chi, a sua volta, potrebbe avere toccato l’indicibile ma un tempo vi si prestava molta attenzione cercando di porvi rimedio. Una bottegaia della piazza, per esempio, incassando banconote, soleva aspergervi qualche goccia di profumo prima di riporle nel cassetto. Il celebre farmacista Pietro Lombardo, bella figura di intellettuale antifascista, ma burbero e animato di quel rigore autorevole, proprio di chi possiede una grande integrità morale, teneva sul bancone della sua farmacia alla Strada longa, angolo via degli Esperidi, un vaso di vetro pieno di alcol e senza proferire parola, col solo gesto dell’indice e lo sguardo che non ammetteva repliche, additando il vaso all’atto di pagare, invitava i suoi clienti a gettarvi le monete.

D’altra parte, pur senza possedere la cultura enciclopedica del farmacista Lombardo, ma un grande sense of humour, don Mario Fiasconaro (da non confondere con l’indimenticato fondatore dell’Extrabar), di cui si è più volte detto fra le pieghe di alcune nostre storie passate, a proposito non tanto del colore, quanto dell’odore dei soldi, coniò – è proprio il caso di dire – un aforisma che arrivò fino ai nostri giorni: “Che i soldi siano fra le cose che maggiormente fanno schifo è cosa certa, ma ca ani livatu sempri un mari i cunfusioni è ancora più certo”.

Ora su aforisma mi corre l’obbligo di due divagazioni. La prima non per ricordare – perché lo sanno tutti – che è di genere maschile e quindi se è preceduto da un non si apostrofa come fece invece, con atto solenne su ricercata pergamena, un insegnante, non di educazione fisica, ma di italiano e latino. Però, niente paura ragazzi, adesso è dirigente scolastico e anche qualcosa di più. Anche questa è buona scuola, anzi ottima. La seconda riguarda l’origine di aforisma consegnata alla posterità da un mio caro amico col bernoccolo degli etimi, secondo il quale la parola deriverebbe dal proto-greco a-phoros, letteralmente senza buco. Come no!, come gli spaghetti! Così al ristorante, per dare l’ingannevole idea di essere iper-acculturati, dopo avere sfogliato svogliatamente il menu, possiamo ordinare, con la supponenza di chi è in linea con i dettami dello slowfood, un piatto di aforismi alle vongole.

Ma ritorniamo allo spaccio, senza che nessuno si allerti, sentendosi moralmente in dovere di avvertire la squadra narcotici. Guardate bene il nostro tipo e cercate di valutare la non chalance con cui tiene in mano la sigaretta senza filtro, o meglio quel che ne rimane, ossia meno di un mozzicone. Allora le sigarette si fumavano così e non erano pochi i temerari che si spingevano oltre. Quando non si riusciva a tenerla fra le dita senza bruciarsi, vi si infilzava una spìngula e così era possibile dare ancora un paio di tiri, dai quali si ricavava il massimo della soddisfazione e del piacere, che non possono essere neppure lontanamente percepiti da chi fuma sigarette col filtro, e meno che mai dai fumatori di sigarette elettroniche.

Se ora si dà un’occhiata agli scaffali, non si può non apprezzare, cosa da fare invidia al più esclusivo dei discount alimentari di oggi, l’armonico ordine che sovrintende alla mise della variegata mercanzia. Innanzitutto i barattoli di pomodori pelati e di caponata che tanta parte dovettero avere nell’insorgenza delle prime gastriti croniche, ma non scherza neanche il pricintino en plein air sottoposto più alla cortese attenzione di mosche, muschitte e nzampagliuna che a quella degli avventori e poi, a sinistra della borraccia, addirittura dei peperoni verdi, freschi di giornata. Senza scherzi, ovviamente, perché ci si serviva della teleferica per rifornirsi di ogni cosa con ritmo circadiano, volendo. Inoltre, scatole di fiammiferi di legno che ordinariamente si chiamavano marcatravi, scatole di sigari e di tabacco trinciato e pacchetti di sigarette rigorosamente senza filtro – che allora si vendevano soprattutto sfuse, Indigene o Macedonia o Serraglio che fossero. Era prassi consolidata che il tabacchino, prima di consegnartele, le battesse verticalmente con delicata cadenza sul piano del banco di vendita per far fuoriuscire qualche filo di tabacco che, con un destro colpo di mano – quasi un gioco di prestigio – arricampava, convogliandolo dentro il cassetto all’uopo lasciato aperto. Così, dopo una settimana di virtuosismi del genere, sarebbe riuscito a raccattare tabacco bastevole per agliummariàrisi non più di una sigaretta. Consuetudini di quei tempi.

In magnifica evidenza, sontuosa come le cassate siciliane che tanto lustro e imperitura fama diedero alla rinomata pasticceria Gulì, al Cassero a Palermo, una invitante lanna di sarde salate che sembra dire mància mància tanto fuori, abbiamo visto, c’erano diversi ettolitri di acqua nei barili per ristorare l’inaridito gargarozzo. Ma non si creda che in quel conglomerato di carbonai e boscaioli potesse mancare il vino, non importa se con un po’ di spintùozzu o vagamente acitùobbisu, purché corroborante e in grado di lenire la fatica, dal momento che anche sotto il pico del sole bisognava lavorare sodo, di accetta o di segone che fosse, (→ foto 6) per abbattere querce secolari le quali, una volta a terra, dovevano sveltamente essere private dei rami e poi tagliate senza alcuna pietà trasversalmente in tanti pezzi (→ foto 7) per farne legna da carbone, da riscaldamento o da costruzione. Il tutto in accordo con il vecchio adagio popolare secondo cui àrvulu cadutu accetta accetta cioè ‘quando si è in auge tutti sono ossequiosi e riverenti, viceversa, quando si cade in bassa fortuna, tutti si accaniscono a darti addosso quasi con sacro furore’. In altre parole, l’irriconoscenza è il midollo dell’uomo. Non a caso, una recente lettera pubblica di doléance è stata chiusa da questa perla di saggezza offerta nella versione originale latina, Arbore deiecta, quivis ligna colligit, forse per caricare di pathos quella chiusa epistolare. Ed è certamente per l’irresistibile fascino che le massime latine esercitano sull’estensore di tale lettera che ha voluto addirittura fondere (visto che, in genere, gli riescono) detta citazione con quest’altra: bene vixit qui bene latuit la quale riacquista l’originaria efficacia solo nella traduzione siciliana a facciuzza ca unn’è vista è disiata. Massima che – i cosi giusti – calza perfettamente all’estensore.

Foto 6

Foto 6

7

Foto 7

La virtù rigenerativa del vino, anche quello di qualità non sempre eccellente assunto dai boscaioli per ritemprarsi dall’immane fatica richiesta dal taglio di querce mastodontiche, trova larga applicazione anche in contesti estranei a quelli chiassosi e bettolai dei carbonai, quali sono quelli austeri e pieni di compunzione di certe processioni religiose. Il riferimento è al continuo ricorso al nettare degli Dèi, necessario ai confratelli che appùzzanu per trasportare la pesantissima vara della Madonna del Rosario che, per inciso, richiede un maggiore dispendio di energie in discesa che in salita cosa, questa, che fa cadere in difetto la validità del detto nostrano secondo cui nna pinnina tutti i santi aiutanu.

Per quanto gravoso, lo sforzo fisico prodotto da questi confratelli è sempre ben poca cosa in confronto alla fatica quasi schiavistica che sottende il lavoro degli operai ritratti nella foto 8, severamente impegnati a fare rotolare, mediante manueddri, queste lunghe pertiche con le estremità sfaccettate, un grosso pedale di faggio, na chianca, del diametro di almeno 80 cm, fino all’imbarco della teleferica.

Foto 8

Foto 8

Ma ciò che rende veramente drammatica l’immagine è ciò che essa non fa vedere e che si sostanzia nella domanda: quale distanza hanno coperto questi disperati, rivoltando le manovelle attorno al tronco per portarlo dal punto in cui si è schiantato al suolo fino alla teleferica? Tanti. E le innumerevoli volte in cui il tronco, rotolando, mostra la stessa faccia non può non fare accostare questa terribile ciclicità al mito di Sisifo o al “dolore per le sofferenze e la durezza delle vite” così come emerge nella tragica saga de “Il mondo dei vinti” di Nuto Revelli.

 

Ora, dopo un tempo incalcolabile intercorso fra l’abbattimento dell’albero e l’arrivo alla stazione di partenza della teleferica, tra (tante) pene e guai, anche questa grossa bbaddra di faggio, questo grosso segmento di tronco di faggio, dopo essere stato imbracato mediante cavi di acciaio (→ foto 9) può viaggiare verso il fondovalle. Osservando attentamente, pare di sentire lo stridio, prima forte poi sempre più flebile, della gola della carrucola che sparisce arrotolandosi sul cavo di acciaio e ti domandi: ma come facevano?

9

Foto 9

Ma se parli con l’ultimo loner delle Madonie, che conosce le valli, le balze, i dirupi e i costoni delle alte Madonie come se fossero gli angoli delle tasche dei suoi pantaloni di fustagno, l’unico forse che sa condurti sotto vento a ridosso delle mandrie di diverse centinaia di capre selvatiche che vivono – anch’esse allo stato ebraico – sulle serre più impervie del massiccio centrale, cambi subito punto di vista e capisci che la domanda non è tanto “ma come facevano?” piuttosto, per dirla con il nostro loner: “ma comi minchia cci l’acchianaru ddrà ncapu tutti ssi cosi?” Effettivamente non deve essere stata impresa di poco conto trasportare a dorso di mulo, fin lassù, quella ingente quantità di traversine di ferro e cavi di acciaio per costruire le stazioni di partenza (→ foto 10), così come non deve esser stato per niente agevole costruire lungo tutto il percorso, spesso in fortissimo pendio, le incastellature per sostenere i cavi (→ foto 11).

Foto 10

Foto 10

Foto 11

Foto 11

Ma come fu, come non fu, la cosa si fece, la teleferica si mise in funzione. Le immagini che seguono permettono di inferire anche un altro aspetto della questione. La teleferica del versante Isnello fu utilizzata per il trasporto della legna, quella di Castelbuono per il trasporto del carbone.

Qui (→ foto 12) vediamo una partita di sacchi di carbone in arrivo al capolinea sotto lo sguardo vigile dello zelante gerarca della milizia forestale fascista che, gambe divaricate e pugni piantati nei fianchi, sembra avere assunto il controllo delle operazioni. L’immagine, inevitabilmente mossa ma assai suggestiva, richiama quella di uno sciatore sul punto di tagliare il traguardo, alla fine di una discesa libera nel cui sfondo si staglia il profilo delle case dei quartieri occidentali di Castelbuono.

Foto 12

Foto 12

Verso la fine del 1944 l’amministrazione comunale guidata dal sindaco Bonafede, seriamente preoccupata per la pesante opera di deforestazione che aveva interessato la zona compresa fra Cataggiddebbi e la Valle dell’Atrigna, che aveva fatto temere per la scomparsa del bosco in quelle zone, chiese al prefetto la sospensiva della requisizione dei boschi insistenti sul territorio di Castelbuono.

Tuttavia dai monti sopra Castelbuono non cessarono di arrivare enormi quantitativi di carbone (e mai legna, come si vede nelle foto) che, in attesa di essere smistati, continuarono ad essere ammassati nelle adiacenze della Chiesa della Madonna del Palmento (→ foto 13), nei pressi della stazione di arrivo della teleferica (→ foto 14), posta esattamente nella zona compresa fra l’edificio e la palestra della scuola media. La foto 15 restituisce alla memoria collettiva la Madonna del Palmento non ancora ostaggio di case, macchine e ingorghi che l’hanno sfregiata della primitiva bellezza, ma soprattutto permette di confrontare il volume di carbone ammassato e quello dei corpi bassi adiacenti alla chiesa.

Foto 13

Foto 13

Foto 14

Foto 14

Foto 15

Foto 15

Finita la guerra, finì anche la necessità di continuare a saccheggiare il nostro patrimonio boschivo e, come si vede in questo scatto di Peppino Puccia del 1946 (→ foto 16), ben presto alla Madonna del Palmento non rimase traccia né delle montagne di carbone né della stazione di arrivo. Della teleferica oggi rimane soltanto uno sbiadito ricordo presso alcuni anziani, tracce di ancoraggi e qualche cavo di acciaio che serpeggia fra il basilisco, i cespugli di rrizzitìeddru e le pietre calcaree sopra i Monticelli.

Foto 16

Foto 16


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