Ypsigrock 2012 ha lasciato il segno: ancora una splendida recensione

(Recensione tratta da Rubric.it – testo di  foto di Roberto Panucci )Internazionale: che si estende ad altre nazioni, che oltrepassa i confini del proprio Stato. Questo è il monito, lanciato nel cyber-spazio dal breve teaser  diretto da Stefano Poletti, a qualche settimana dall’inizio della sedicesima edizione di Ypsigrock .
 Che proprio questa fosse la natura del festival, nato dall’ambizione di poche decine di volontari e forte dell’attaccamento degli autoctoni sempre pronti nel dare accoglienza ai nuovi e ai vecchi fan del “rock”, come lo si definisce per le strade di Castelbuono, non vi era alcun dubbio, in virtù, anche, di una proposta artistica che ogni anno, da sé, spinge migliaia di supporters a godere della quiete del borgo dell’entroterra siciliano e dell’atmosfera, intima e immaginifica, della venue utilizzata per l’esecuzione dei live della rassegna: la piazza, all’interno delle fortificazioni, del Castello dei Ventimiglia.

Sthephen Malkmus and The Jicks

Se la nostra sistemazione in camping è solo questione di abitudine, tra picchetti, torce e utensili vari in compagnia dei quali passiamo gran parte della serata di apertura, lo stesso non può dirsi del black-out, per tratti tattico, che interrompe il dj-set di Fabio Nirta e Robert Eno nel duo Shirt vs T-Shirt, regalandoci, benché a sorpresa, una serata di scoperta all’interno dello spazio allestito dai volontari nella località di San Focà.

 Il giorno successivo è quello dell’inizio dei concerti e un po’ dappertutto, per le vie del borgo, si respira aria di festa.  Un po’ stonati dalle tante birre – indispensabili per combattere il caldo estivo – conquistiamo il Castello quando sul palco ci sono già gli Of Montreal guidati dal carismatico leader Kevin Barnes, col loro carico glam e allo stesso tempo scanzonato che al primo round ci spedisce al tappeto con i pezzi di “Hissing Fauna”.
Al secondo round Stephen Malkmus and The Jicks, che, per restare in tema di festa, confeziona una torta farcita di indie-rock americano anni ‘90 dal gusto un po’ autocelebrativo ma sublime, con tanto di ciliegina sopra. “Summer Babe”, ed è KO tecnico.

Fuck Buttons

Nella seconda serata, ancora gonfi per i live e il dj-set, raggiungiamo il Castello mentre sta per iniziare l’esibizione dei DID. Nella grinta di Savini e soci ci trovo fin da subito l’orgoglio dell’intera scena indipendente italiana, quella sfrontata e fiera, e il set dei torinesi finisce per riportare in auge il tema dell’internazionalità, come se in poco più di mezz’ora quei cinque o sei pezzi tiratissimi, forti di tribalismi figli del punk-funk newyorkese, abbiano messo in luce un filo, una strada, dettata anni orsono dai Disco Drive e ripresa da gruppi come Father Muphy, Drink to me, Casa del Mirto e bella compagnia, oltre che riscaldato la piazza intera facendo rinsavire il mio piedino assopito in perfetto metronomo. Sarà per l’inglese. Indubbiamente anche i suoni e la ricerca contano parecchio. Voi provateci a far ascoltare un pezzo dei Marlene Kuntz a un georgiano, vi dirà “Sonic Youth?”, fate lo stesso con uno dei DID e la risposta sarà probabilmente “F*cking huge”. Questione di cultura, anche. La luccicanza vera, comunque, arriva più tardi, quando sul palco salgono gliShabazz Palaces. Congas, altre percussioni e campionamenti a tappeto. Il loro live, in controtendenza con la proposta artistica degli scorsi anni che non prevedeva in line-up alcun progetto hip hop, è in assoluto uno dei migliori dell’anno, tanto che l’impressione da sotto il palco è che i due arrivino da un mondo futuribile, avveniristico, evoluto. L’unica pecca da segnalare è che per motivi di orario, di scaletta, Palaceer Lazaro e socio vengono bloccati giusto mentre stavano per sparare il singolone “Black Up”; peccato ma capita anche questo, saluti e baci, ci si rivede nel 2020.
Mi allontano per un drink, l’ennesimo, e al ritorno trovo sul palco i We Were Promised Jetpacks: il suono solido e compatto del gruppo s’incastra alla perfezione con la voce decisa di Adam Thompson, rendendo il live della band scozzese una delle sorprese più gradite del festival. Dopo di loro, a completare un cartello di per sé al di sopra di ogni critica possibile, i Fuck Buttons, la cui esibizione mi riporta, col senno di poi, all’immaginario di mondi su livelli sovrapposti descritti dai miei amici lungo la strada del ritorno a casa, lo stesso, forse, raccontato da McCartney dopo l’incontro con Bob Dylan nel lontano 1964.

Presi da caponate e cannoli, delizie tipiche della cultura culinaria siciliana, non arriviamo in tempo per uno soltanto degli showcase tenuti per le vie del centro, nei quali si esibiscono, tra gli altri, Niccolò Carnesi e Pocket Chestnut. Poi l’entrata al castello in concomitanza con l’inizio della performance degli Alt-J. l giovani inglesi, alla loro prima esibizione nel Belpaese, non riescono a nascondere l’emozione di trovarsi davanti un pubblico già preparato, fatto per la maggior parte di autoctoni, che li acclama e ne intona le canzoni. Nelle note timidi rimandi ai Fleet Foxes, giochi di voci di scuola wilsoniana e hipsteria, che lasciano intravedere il grande potenziale di una band, nata a Leeds, che in quanto a influenze e sonorità guarda però dall’altra parte dell’oceano. 
Altra storia, poi, quando la scena è presa dai Django Django. Nel live della band scozzese suggestioni del pop d’oltre-manica si mischiano al synth-pop, alla psichedelia e a chitarre à la “Tarantino”, a spunti surf che nemmeno i Drums e tropicalismi, celebrati dalla voce melliflua di David Maclean. Apertura perfetta nonostante le ripetute interruzioni causate da problemi tecnici, a lenire l’attesa febbrile che separa il resto del festival dall’esibizione dei Primal Scream.

Primal Scream

Su Bob Gillespie e soci, già nel pomeriggio, si erano susseguiti diversi rumours, uno dei quali vedeva il frontman presentare al figlio “Psychocandy” davanti a uno stand di t-shirt e vinili. “Your daddy played in this band”, bambino fortunato. A pensarci adesso chissà quando, negli anni, scoprirà la grandezza dei feedback dei J&MC e l’unicità di eventi come quello del North London Polytechnic. 
Movin’ on upSlip Inside This HouseSwastika Eyes,Come TogetherShine Like Stars,LoadedAcceleratorRocks. Sfido chiunque a metterli in ordine, a fronte di un live che a pochi pezzi dall’inizio mi lascia già seminudo e diviso dalla stretta dei miei amici, con la sola sensazione che ovunque si trovassero in quel momento sarebbero stati illuminati dai sorrisi dei loro stessi volti. “I wanna hear youu, m*therfuckaaas” è il rito orgiastico dei Primal Scream, in cui Gillespie è padrone della scena e maestro di cerimonie, facendosi portatore, per certi versi, dello stesso messaggio telemico tramandato da Aleister Crowley su quelle stesse colline – prima che Mussolini ne ordinasse l’espulsione per sospette attività antifasciste – quasi un secolo fa. “Do what you whilt”, “we wanna be free, to do what we wanna do. And we wanna get loaded, and we wanna have a good time”.

Sotto il palco soltanto le urla devote degli adepti, presi dal vortice dell’onda sonora e trasportati nella dimensione, autentica e parallela, dell’esistenza nuda. 

Non avevo mai visto niente del genere e chissenefrega se è il 2012 e se “Screamadelica” ha già vent’anni: in quell’agosto, a Castelbuono, io c’ero. E non c’è altro posto al mondo nel quale io sarei voluto essere.

Dopo i concerti – ancora stordito e, buon per me, in dolcissima compagnia – rimango a vagare per le vie del centro e più tardi trovo uno strappo per tornare in camping. Quando mi avvicino alla tenda i miei amici stanno ancora esplorando paradisi artificiali e in un sussulto di gioia nel vederli percorro gli ultimi venti metri saltando come una molla, mentre l’alba chiude l’Ypsigrock e i raggi del sole, filtrati dagli alberi del Parco delle Madonie, danno inizio a un giorno nuovo rinvigorendo le lisergie nei loro occhi ed innestandone alcune anche nei miei.
 Non senza sforzi riesco a convincere uno di loro a bere l’ultima birra e, tornati al bar, riusciamo a godere dell’arrampicata del capo-villaggio su “La Scala”, il totem che da anni caratterizza il festival, sostenuta dai tanti ragazzi rimasti ad ascoltare il provocatorio dj-set di Nirta e Eno dopo i live di Boxeur The Coeur e Everybody Tesla.

L’Ypsigrock, come ogni anno, spacca l’estate di ogni appassionato di musica dal vivo confermandosi una tappa imprescindibile per quanti, nella bella stagione, decidono di trascorrere le vacanze nel Sud della penisola. 
Ancora qualche riga prima di concludere per incensare Andrea, vincitore assoluto di questa avventura in terra castelbuonese. Sette jam in quattro giorni con qualche bella sorpresa e tanta generosità, sempre fedele, nella sua personalissima missione, alla tecnica dei due colpi e ciao. Have a good sfaind, amico. Anche questo è rock’n’roll. 
Tutto il resto, dalle lacrime degli Alt-J alle urla di Bobby Gillespie, è già storia.

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