Ai primi del Novecento a Castelbuono. Casalinga in quel tempo: …che passione – 2ª parte

Casalinga, in quel tempo: … che passione
di Giuseppe De Luca
[Pubblicato su Le Madonie, 1 marzo 1989] 2ª parte. 1ª parte a questo link

E quando non c’erano né panificazione né bucato la massaia restava forse disoccupata? No!… Non correva all’ufficio di collocamento, anche perché in quei tempi non era stato creato. No!… Non si erano esauriti tutti i momenti della sua vita laboriosa.

C’era la preparazione della pasta in casa: doveva confezionare tagliarini (tagliatelle), maccarrunìeddri (bucatini), brugniceddri (conchigliette), scumiddra (capelli d’angelo); doveva filare premurosamente con fuso e conocchia la lana e poi lavorarla con i ferri per approntare scialli, maglie e maglioni per tutta la famiglia; doveva tingere il filato con il mallo di noci e con il summaccu (Rhus coriaria L. – Sommacco); si dovevano lavorare le calze nuove per tutti, grandi e piccini, uomini e donne, si dovevano riparare quelle scarcagnate (rotte nel calcagno) ed anche qui bisognava incessantemente far’a quasetta con i ferri, per settimane e settimane.

Ed arrivavano i lavori agricoli stagionali: nessuna donna, se non qualche cosiddetta «civile», disdegnava di aiutare il marito. Anche se appartenente a famiglia di artigiano o operaio, la casalinga si prestava volenterosamente, con qualsiasi condizione metereologica, con il caldo o con il freddo, per qualsiasi durata, alla raccolta delle olive, della manna e delle mandorle, e nella vendemmia; e volentieri condivideva con gli uomini le punture del riccio di castagna. E, poi, le donne dei contadini e dei pastori si portavano spesso in campagna a raccogliere frutta, verdura (spontanea e coltivata), ortaggi; a zappuliari u lavuru (scerbatura, zappettare e togliere le erbe infestanti nel frumento) e le fave, a dare una mano di aiuto ccû crivu (crivello), quando sull’aia si pisava (si trebbiava) con i muli e si spagliava con la camicia al sole e al vento; e sempre le casalinghe aiutavano a riempire di paglia i rrituna e ad insaccare il frumento e le fave.

In casa erano attese da altri lavori domestici stagionali particolari: preparare la salsa per l’inverno, passando a mano ed a forza di gomito intere ceste di pomodori ccû stricaturi di zinco stagnato (in quanto non esistevano in quell’epoca i passapomodori; cuocerla in vasti padelloni, sorvegliarla mentre si asciugava al sole nell’asciucaturi di legno, nello spillùongu (vassoio ovale di ceramica) o ntô fangùottu (grande piatto rotondo di terracotta), per ottenerne, infine, u strattu (oscuro estratto concentrato), non era cosa da poco.

E c’era pure da badare alle provvigioni per l’inverno: spaccare, seccare ed «inconare» i fichi; spaccare, salare ed asciugare i pomodori; spaccare, seccare ed infilare in lunghe collane sorbe, pere e zucchine; preparare il «vino cotto» ed i pizzichintì (moscardini) di mosto e di fichidindia.

Nessuna donna, però, si lamentava nell’ordinaria amministrazione quotidiana: cucinare, rigovernare, cucire, puntiari (rammendare), arripizzari (rattoppare), e poi, anche, ricamare, far’a puntina (il merletto), tessere. Nessuno aspettava il marito per pulire la stalla con la piccola ramazza (scupunìeddru di agghiastru) di oleastro, – intorno agli anni ‘20 si contavano a Castelbuono quasi duemila quadrupedi, fra asini, muli e cavalli usati da contadini, pastori, vurdunari (mulattieri) e carrettieri -. E se doveva mpastari alle galline mescolando crusca con foglie di verdura sminuzzata, badare alla chioccia ed ai pulcini (il pollaio casalingo si spense intorno agli anni sessanta con lo scorrazzare delle automobili, che si moltiplicarono per le vie del paese), se, ancora, doveva mungere a crapuzza (capretta) e badare ai capretti, lo faceva con tanta gioia.

Ed ai figli (a volte, numerosi) chi badava? Bisognava allattarli (al seno), pulirli, crescerli con i pannolini e le fasce di tela del telaio casalingo, (senza scatole di latte in polvere e senza pannolini svedesi), e se era ed è pur vero che quando a matri addeva, a casa trema, tuttavia, in quel tempo, a quel che se ne sa, non ci fu alcuna notizia di casa crollata perché la mamma allevava e non ci furono, pertanto, neanche richieste di protezione civile (che, allora, non esisteva).

Unico svago per la casalinga, in quelle giornate, restava qualche rara festicciuola in famiglia (che, sebbene con «etichetta minuscola» era forse, però con allegria maiuscola, perché più ingenua e sincera); qualche sagra paesana e, all’imbrunire, quando non era esausta del tutto, di tanto in tanto, l’uscita, in compagnia della comare, della vicina di casa o di altra familiare per i vari viaggi (passeggiate di preghiera). Queste avvenivano generalmente fra «l’ora di notte» (un’ora dopo l’Ave Maria) e «le due ore di notte».

Il lunedì si faceva u viàggiu â Bedda Matri û Carminu (Madonna del Carmelo), alla Madrice Vecchia, ppi l’Armuzzi û Priatoriu (anime del Purgatorio); martedì u viàggiu â Matri Sant’Anna, al Castello dei Ventimiglia; mercoledì a San Giusippuzzu, alla Chiesa di S. Giuseppe, oggi chiusa al culto, in via S. Anna; giovedì u viàggiu ô Signuri» (Santissimo Sacramento), posto nel Ciborio della stessa Madrice Vecchia; venerdì si faceva u viàggiu a Gesu Crucifissu, alla Chiesa di S. Antonino e alla Santa Passioni, alla Chiesa di S. Sebastiano, (in Piazza S. Francesco), oggi non più esistente; sabato â Bedda Matri û Rusariu, all’oratorio dei Padri Domenicani, ed alla Madonna della Catena, in via A. Ventimiglia, della quale ultima erano particolarmente devote le gestanti. Ci si avviava lentamente con il capo ben coperto dallo scialle, sia d’estate che d’inverno, e, saltuariamente, anche per altre occasioni e devozioni; e si arrivava, sempre pregando, sul sagrato delle Chiese, che a quell’ora erano già chiuse. Si concludeva, e, con la coroncina del rosario ancora in mano, si rientrava in casa. Al ritorno per la strada si chiacchierava d’altro e, mentre sfumava, in mille rivoletti, l’ultima preziosa e voluttuosa occasione di diramare e di ascoltare le piu fresche notizie paesane della giornata… poteva capitare, a volte, che, dimenticando la morale e l’impegno delle recenti orazioni, ne potesse venir fuori, purtroppo, anche qualche smozzicata traina fantastica, sparrittera, pettegola, mordace, caustica … ma, d’altra parte, a ben rifletterci, c’era la consolazione che s’ignorava la bolletta… del telefono.

Tutte le «uscite» erano in paese: concentrate per eventi luttuosi, ma nessuna donna prendeva parte al corteo del funerale, limitandosi u ddoviri ô vìsitu; impegnate in occasione di matrimoni, molto sbrigativi in verità, in quanto dopo la Messa mattutina, nella migliore delle ipotesi, il trattenimento era limitato a café e taralla (una, cummà, ppi carità perché, sicuramente, due potevano riuscire indigeste!…) o in occasione di battesimi (anche questi con trattenimenti molto leggeri a base di ceci e fave caliati e qualche rara cannittìglia colorata (boglione).

Mai altri viaggi. Quando, una o due volte in tutta la vita, si arrivava a Gibilmanna, se ne conservavano i ricordi «avventurosi» che si raccontavano poi, spesso, come frutto di eroismo, (si andava a piedi), e si tramandavano di generazione in generazione come esempio di generosità e di intraprendenza. E il mare? Che cosa era? Al principio di questo secolo, donne analfabete e semianalfabete, ma molto sveglie, pur avendo maturato i quattru vintini e rutti (oltre gli ottanta anni – secondo il sistema basco) ne avevano sentito parlare, ma, quasi quasi, si vantavano di non averlo mai veduto… perché per la loro… agiatezza … non c’era stato bisogno … di andare in America …

E oggi?…

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