All’inizio del novecento, con i fanciulli castelbuonesi fra giochi e trastulli…

ALL’INIZIO DEL NOVECENTO, CON I FANCIULLI CASTELBUONESI
FRA GIOCHI E TRASTULLI…
Giuseppe De Luca
[Pubblicato su Le Madonie, 15 dicembre 1988]

Nell’odierna atmosfera, mentre i genitori si arrovellano e si lambiccano il cervello per trovare ai propri figlioletti giocattoli singolari, in esclusiva, mentre i teneri pargoletti, capricciosi, esigono dal mercato, e per tutto l’anno, sempre più originali novità, sgorga spontanea una domanda: i nonni quando erano fanciulli, mezzo secolo addietro, si divertivano di più oppure si «realizzano», secondo il fresco vocabolo attuale, meglio, ora, i loro cari nipotini? In altri termini u zzu Tufàniu (Epifanio), u su Pasquali, mastru Calòriu (Calogero), a gna Prìzita (Brigida), a zza Atiddra (Agatina), allora, dai loro impegni di gioco uscivano soddisfatti? Oppure, oggi, restano più appagati i loro vezzosi discendenti Fabietto, Danieluccio, Ornella e Venanzia? In quest’epoca di sofisticatezze, fra tante statistiche, ricerche, indagini, inchieste, interviste, quasi sempre tutte divergenti, è opportuno, forse, prima di ogni cosa, rivedere taluni giochi e giocattoli dell’inizio del Novecento e riandare, nel passato storico, alla visione di quelle circostanze.

Intanto occorre premettere che, sebbene non esistessero, ieri, le attività totalizzanti della scuola a tempo pieno, pure, quei piccoli, in quei giorni, che appaiono lontanissimi, trovavano ben poca libertà per i loro svaghi. Dopo le lezioni antimeridiane, che si prolungavano poi, nel pomeriggio, con diuturni, interminabili compiti, scritti ed orali, «casalinghi», c’era da provvedere al rifornimento idrico: bisognava carriari (trasportare) l’acqua, moltissima acqua, che si andava ad attingere con le caratteristiche lanceddre (brocche) di zinco ed i capaci secchi, in ripetuti viaggi, alla fontana più vicina: fra l’altro, a volte, di conseguenza, si restava impegnati in frequenti, statiche e snervanti, attese per il turno. C’era da portare a pàsciri (pascolare) a crapuzza (la capretta) di famiglia e ci si doveva, pertanto, recare in campagna, anche con il maltempo; c’era, occasionalmente, da andare a cercare qualche ramo secco o qualche pezzo di legno per integrare il combustibile, o per la tannura a vapuri (fornacella a legna), o per la liscìa (bucato), o per panificare nel forno casalingo. C’erano da cucciari, dopo gli usuali raccolti stagionali, con o senza il permesso del padrone, le olive nei dintorni dell’abitato; c’era di iri a castagni (andare a castagne), e per fare queste cosette veniva utilizzata la celebratissima impareggiabile sacchina che, come vurza, serviva, la mattina, anche per i libri e i quaderni di scuola. Ma, soprattutto, poi, c’era la frequenza della bottega di un mastru per l’apprendistato.

Ed ecco, specialmente all’imbrunire (nessuno conosceva l’esistenza di radio e di televisori, e la luce elettrica arrivò solamente nel 1925), ecco i cari nonnini, i fanciulli di ieri, finalmente «gridando su la piazzuola in frotta, e qua e là saltando» far «un lieto rumore» oppure intrattenersi per ascoltare o riferire, seduti in crocchio con i compagni, storie, fiabe, leggende, raccontate precedentemente dai familiari, con i quali, allora, si stringevano fiduciosi, costruttivi e proficui, rapporti di educazione e di maturazione.

Ma anche di giorno, specialmente nelle feste, o prima di entrare in aula, o negli intermezzi fra un servizietto e l’altro, si cercava e si trovava l’occasione rilassante ed aggregante del gioco fra vicini di strada o fra amici di scuola.

Molti passatempi non abbisognavano di attrezzi particolari. Fra questi si ricordano abbiricavò (deformazione di: ‘Ah!, vedi che vado’!) con la variante travu lùongu (trave lunga), che vedeva saltare i ragazzi, a cavalcioni, sulla schiena di compagni che appuzzàvanu (sottostavano);

âmmucciateddra (nascondino), che, qualche volta, con la scusa del nascondiglio, nella stalla o nel pollaio dei vicini, serviva a prelevare l’uovo nella cesta, dove le galline l’avevano depositato caldo-caldo; ê latri e carrabbunera (ai ladri e carabinieri), dove i ragazzi carabinieri inseguivano e cercavano di afferrare gli svelti ladri; ê quattru pùosti (quattro cantoni), i più frequentati dei quali, quasi mai liberi, erano quelli dell’atrio della Badia, quelli del colonnato di Sant’Antonino, quelli dell’esonartece della Matrice Vecchia, quelli dell’endonartece della Chiesa di San Francesco; e, infine, l’àrvulu ‘a manna (l’albero della manna), che proponeva, fra mille arzigogoli, gli indovinelli su piante e alberi della zona.

E ce ne sarebbero da citare parecchi altri: ma c’erano anche passatempi che necessitavano di un equipaggiamento personale: il ferroso cerchione, arrugginito e sbilenco, di una botte in disarmo, che si faceva girare a via di lunghe e reiterate spinte inferte con un pezzo di legno (beato chi riusciva ad accaparrarsi il largo cerchione centrale, che tirava dritto, mentre quelli periferici,  rotolando, tendevano a curvare verso destra o verso sinistra!…); il grosso cerchio di acciaio ricavato dallo pneumatico della ruota di automobile (molto caro, raro e prezioso! – fino agli anni quaranta, in paese, circolavano solamente tre o quattro vetture –), che girava continuamente se sospinto abilmente a mezzo di un robusto fil di ferro;

il cavallo di canna con la giummarra (pennacchio o cimale di canna) o un lungo bastone, cavalcato e spronato incessantemente con una verga, mentre a tracolla pendeva il sautampizzu (schioppetto di canna autarchico, che, pressato, schizzava una scheggia di legno); a sampugna (zampogna) ricavata dal verde stelo del fieno, che principiava a maturare; u friscalìettu (zufolo di canna) che solo pochi costruivano sapientemente e solamente pochissimi sapevano suonare alla perfezione.

E chi non ricorda a strùmmula (trottola)? Questo giocattolo procurò tante soddisfazioni ai nostri nonni, da richiedere perfino la creazione di una fiorentissima industria artigianale locale; ma arrecò loro tanti dispiaceri, perché conservata e nascosta abitualmente dentro la vurza (la solita sacchina che funzionava anche da cartella per la scuola), immancabilmente cadeva a terra nel momento più inopportuno, proprio in presenza del maestro, che ruggendo ne ordinava il perentorio immediato sequestro in uno con la lazzata.

Della trottola sono rimasti immortalati alcuni segni indelebili in tante pietre e monumenti del paese. I più memorabili, visibili ed evidenti, sono scolpiti sulle colonne, fascinose e nostalgiche, del chiostro di san Francesco e sul portale dell’esonartece della Matrice Vecchia. Quivi, ammirando l’artistico lavoro quattrocentesco, i turisti, perplessi, non riescono a capire il significato di quei profondi solchi che incidono per lungo il marmo; ma ne conoscono bene le ragioni tutti coloro che, in quei rimarcati graffioni, ammulàvanu (affilavano) u caddrùozzu (chiodo) della trottola per renderla, a modo loro, più equilibrata e più agile.

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