Castelbuono, scuola d’altri tempi | Le lezioni di don Jachinu (parte 2)

SCUOLA D’ALTRI TEMPI
LE LEZIONI DI DON JACHINU
di Giuseppe De Luca
[pubblicato su Le Madonie 15 settembre 1988]
[Parte 1 disponibile a questo link]

E come dimenticare u cicaruni di don Jachinu? Era questo un tazzone blu che, in speciali occasioni, costituiva la salvezza di don Jachinu. Colpito, per il lungo parlare o per inevitabili impeti di arrabbiatura, da violenti e ripetuti colpi di tosse, gridava allora: Giuvannina!… l’acqua càuda…E la buona sorella doveva correre a riscaldare subito l’acqua, versarla in questo più unico che raro recipiente di ceramica smaltata, aggiungendovi un cucchiaino di zucchero, ed approntarla al santo sacerdote: così si calmavano gli eccessi di tosse e sul viso del buon professore, che poco prima era diventato paonazzo, ritornava a splendere il sereno.

Ma ci sarebbero da ricordare anche giorni particolari che nessuno fra coloro che li hanno vissuti, potrà mai dimenticare. Non sarebbero pochi: per necessità ci si deve limitare a qualche momento un po’ emblematico.

Fra questi non si può tralasciare quel piovoso pomeriggio autunnale quando noi ragazzi, chiamati all’improvviso da don Jachinu, fummo costretti a salire per la lezione, senza avere avuto tempo di sgonfiare il pallone con il quale avevamo, fino a poco prima, giocato sulla strada. Era questo un vecchissimo pallone che aveva sostituito la nostra consueta palla di ogni giorno: ci era stato donato da Totò Spallino, fiduciario sportivo del «Fascio», perché ritenuto inutilizzabile per le partite fra «giallo-rossi» e «nero-azzurri»; e noi eravamo contenti perché la nostra passione per il calcio l’aveva riportato, dopo molte fatiche, in una condizione ancora sfruttabile. Vi era incorporata una rappezzatissima camera d’aria che, attraverso un corto budello, si gonfiava con una pompa da bicicletta. Salendo le scale, il pallone, ancora gonfio, era stato affidato a Michele Calì, che portava una larga mantellina nera, la quale, secondo il parere di tutti, avrebbe nascosto agli occhi di don Jachinu quel prezioso pallone, per lungo tempo agognato. Quando, rossi ed affannati sedemmo e la lezione ebbe inizio, Michele, che aveva depositato il pallone sotto il tavolo, vedendo che questo rotolava e che avrebbe potuto finire, eventualmente, anche fra i piedi di don Jachinu, ebbe l’infelice idea di tentare di sgonfiarlo, per facilitarne, pure, alla fine, il trasporto a casa. Sciolto, pertanto, il laccio che legava il budello, si sentì, ad un tratto, nel silenzio, un forte «pfff…». Era il nostro pallone ben gonfio, a tamburo, che spifferava. Michele, che non si aspettava tanto, fu subito pronto a serrare il budello fra le sue dita ed a soffocare lo sbuffo che immediatamente cessò. Ma don Jachinu, che stava correggendo le versioni e che, in tanti anni, aveva professionalmente affinato l’udito, alzò, insospettito, la testa, giusto quel tanto per guardarsi attorno e cercare di capire i motivi di quel soffio; avendo visto però tutti noi seriamente chini sui libri a ripassare la lezione, scosse il capo in atteggiamento interrogativo e continuò nelle sue correzioni. Michele, che ormai non poteva più legare il budello, avendo ora le dita indolenzite per il lungo e stretto serrare, credendo di farcela, dopo un poco volle effettuare un secondo tentativo di sgonfiamento ed ecco, improvvisamente, un nuovo fortissimo «pfffff…». Questa volta don Jachinu posò versione e matita bicolore e si guardò attentissimo attorno: noi, trattenendo le risate, stavamo scoppiando, forse più del pallone: ma eravamo severamente intenti al ripasso e don Jachinu non riusciva a pescare nessuno: però la sua curiosità e la sua perplessità crescevano a dismisura: fece una botta «Mah!» e, poco persuaso, riprese il suo lavoro: credeva che qualcuno lo volesse prendere in giro e voleva scoprire il colpevole. Nessuno, però, sapeva che le stanche dita di Michele erano ormai al limite di ogni sopportazione fisica: dopo qualche attimo si sentì un terzo, formidabile, terribile, ultimo e definitivo, «pfffffff…».

Michele si era finalmente liberato, ma don Jachinu per niente convinto che si potesse trattare di una reale sbintatina naturale, questa volta scoppiò: ma, nzumma, (quando parlava in siciliano, per noi erano momenti terribili) si pò sapiri, oggi, chi succedi? Silenzio generale!… Se il pallone era sgonfio, don Jachinu, invece, era ben gonfio e, poiché si mostrava deciso ad andare fino in fondo, l’atmosfera si era caricata e su tutti noi sovrastavano imminenti enormi pericoli. Ccà un si va avanti!… Vùogliu sapiri chi aviti!… e sbatté, questa volta, foglio e matita sul tavolo… Le nostre facce erano, sì, preoccupate, ma lasciavano trasparire pure un misto di incontenibile ilarità e di furbastra conoscenza della risposta attesa dal buon professore.

Quannu siti còmmadi, parrati!… E fermò ogni successivo proseguimento di lezione. Allora qualcuno cominciò a balbettare smozzicate parole: Don Jachinu u vo sapiri?… E poiché non si decideva a continuare in quanto meditava una giustificazione meno infamante (per noi era un’infamia confermare che avevamo un pallone sotto il tavolo), continuando costui a tentennare, don Jachinu, che ormai aveva raggiunto e superato ogni limite di pazienza, calmo, troppo calmo, sentenziò: Ora fazzu veniri a to pà e a to mà!… Fu così che quello rese ampia e particolareggiata confessione, dopo di che don Jachinu facendoci impallidire, sequestrò il pallone. Ci vollero tutte le nostre scuse, le nostre solenni promesse di non ricaderci più per il futuro, le nostre sincere espressioni di impegno nello studio per riavere, dopo lunghe, pietose e laboriose trattative, agevolate anche dal benevolo intervento delle ragazze, il corpo del reato, il tanto sospirato pallone!

E non si può dimenticare quella volta, quando, poco dopo l’imbrunire, don Jachinu, che era anche cappellano assistente della Associazione Vedove ed Orfani di Guerra 1915-18 (era stato vice Podestà intorno agli anni ’30 al Comune di Castelbuono), finita la lezione, mentre c’era il salito nostro tramestio fra libri, quaderni ed indumenti, si alzò per recarsi all’interruttore elettrico della scala per farci luce. Aperta la porta della scala, al buio, guardandoci per sorvegliarci, don Jachinu fece per toccare le alette a farfalla dell’interruttore. Ma che cosa afferrò? Strinse e girò il naso di una malcapitata vedova che, avvolta nel suo scialle nero, si era perfettamente mimetizzata nell’oscurità della scala. Quella poveraccia, a sentirsi afferrare, stringere ed attorcigliare il naso, strillò un lungo «Ahi!. ..» e, a quel grido, don Jachinu, avendo pensato chissà a che cosa, facendo eco con una spaventevole ed angosciosa invocazione d’aiuto Giuvanninaaa!…, si piegò, avvilito, accasciato e disfatto, sulla sedia più vicina. E fu un duetto: cominciò don Jachinu: Ma accussì s’arriva!… â surda, â muta!… Serva di Dio!… E la vedova, toccandosi ancora il naso, replicava: Ma ia un ci curpu!… don Jachì, chiamava… chiamava e nuddru mi dava cuntu!… E don Jachinu riconoscendola e prendendo fiato, continuav: Marìcchia!… ma pirchì un trucculiasti ô purtuni? Marìcchia!… Figlia di Dio! ma comu arrivasti, ccu scuru, fin’a ccà?… Cchi scarp’û silenziu?… E poi ancora: Acqua càuda!. .. Giuvannì!… Quella sera nessuno di noi aveva fretta di scendere a rotoloni la scala: quello era spettacolo, indescrivibile ed inimmaginabile…

Ma a parte ogni possibile aneddoto storico, il paterno e bravo professore rimase per decenni un sicuro punto di riferimento negli studi di italiano e latino per i giovani studenti di Castelbuono, creandosi una meritata fama negli ambienti degli istituti secondari isolani. Il programma degli studi svolti, che, allora, doveva corredare la documentazione di rito per gli esterni che si presentavano agli esami, firmato dal sacerdote don Gioacchino Pupillo (con la penna d’oro – una stilografica – regalatagli in tempi lontani, non ricordo da chi), era una garanzia, era il biglietto da visita, era il salvacondotto per il candidato.

I migliori professionisti castelbuonesi, e sono stati tanti, spiccavano il volo partendo dalle sue abili ed espertissime mani. Allorché, nell’anno scolastico 1946/47, i professori. Lina e Giuseppe Chiarelli, Anna Coco Capuana e Nicolino Mogavero, raccogliendo istanze ed esigenze dei castelbuonesi, idearono e proposero la creazione dell’Istituto Sant’Anna, don Jachinu si associò e contribuì ad agevolarne i passi iniziali.

In un passato abbastanza recente numerosi professionisti, suoi ex allievi, hanno cercato di adoperarsi per intitolargli, con tutti i crismi, una via, onde ricordarne i meriti umani e professionali, e questa via l’hanno trovata in una traversa di Corso Vittorio Emanuele – già Via Viola – che oggi è «Via Sac. Gioacchino Pupillo – Latinista, Educatore – (1883-1952)».

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