In controluce, nel passato castelbuonese | Caleidoscopio Natalizio (parte 3)

In controluce, nel passato castelbuonese
CALEIDOSCOPIO NATALIZIO
di Giuseppe De Luca

Da chi era stata composta la «novena»? Un vecchio contadino, che reggeva sul groppone ben oltre quattro «ventine» di anni, che asseriva di essere nato all’incirca verso la metà del secolo scorso, dall’espressione molto intelligente, ebbe a rispondermi una volta, meravigliandosi della mia curiosità, che ricordava di aver sentito ripetere ad un fraticello dei nostri Cappuccini che ne era autore un certo Nittu (Benedetto) Annaluoru (ho poi letto che in qualche studio di tradizioni popolari si parla di «Annuleru»). Alle mie infantili insistenze per saperne di più continuò spiegandomi che Annaluoru non era la deformazione popolare del cognome Andaloro, un po’ diffuso nelle Madonie, ma specificava il mestiere esercitato da colui che, impiegato con i familiari nella coltivazione della terra, risiedeva tutto l’anno in campagna e rarissimamente si avvicinava al centro abitato, proprio in casi di estremi ed urgenti bisogni. Ebbe ad aggiungere, infine, che il seguace del Serafico Poverello d’Assisi, che gliene aveva parlato, era oriundo dei dintorni di Palermo, forse di Monreale e che quando aveva conosciuto quell’autore, vecchio ed accasciato, egli stesso ne aveva trascritto i versi memorizzabili, che diffondeva metodicamente dovunque il suo Provinciale ordinasse «famiglia» e residenza conventuale. Questo canto, comune nei paesi della nostra zona, e per il motivetto orecchiabile e per i versi facilmente ritmabili, in quei lontani giorni, era conosciuto interamente solo da pochi volenterosi appassionati.

Quando la scolarizzazione, imposta dalla legge Casati (1859), venne estesa, con il Regno d’Italia, anche in Sicilia e l’uso della letteratura e della scrittura si generalizzò pure a Castelbuono, si cominciarono a trascriverne i versi in minuscoli preziosi bisunti quadernetti: ricordo di averne intravisto uno nella casa di un panciuto suprastanti. Finalmente, nel 1926, – anno della mia nascita –, detta novena venne stampata, senza indicazione dell’autore, a Castelbuono dalla Tipografia «Le Madonie» del benemerito concittadino Giovanni Lupo con il titolo di Viaggiu dulurusu di Maria Santissima e lu Patriarca San Giuseppi.

Nella pagina interna, per ultimo chiudeva una scritta: «Si vende in Castelbuono presso i signori Silvestro Coco e Figli – commercianti». Parecchie, in questa edizione, le imperfezioni. In quest’ultimo dopoguerra, riveduta e corretta non si sa come e da chi, venne ristampata una seconda edizione senza deformazioni di rilievo. Recava il titolo «Laudi a Gesù Bambino» sempre per i tipi de «Le Madonie» di Castelbuono e riportava l’aggiunta di preghiere e nenie popolari.

Questa novena si effondeva per le strade e nelle chiese: risuonava destando sempre irrefrenabili emozioni, poiché rievocava, anche, i più bei momenti del passato. Al termine delle preghiere e dei canti, in quelle fredde sere, stentate alla luce dei lampioni, o nelle anguste sacrestie, c’erano sistematicamente le comari di turno che offrivano a tutti un pugno di castagne al forno, qualche fico secco, mandorle abbrustolite, calia (fave e ceci) mustazzuoli di vin cotto, pizzichintì di fichidindia, muscardini di melecotogne: chiudeva un mezzo bicchiere di vino genuino, che girava di bocca in bocca senza difficoltà o schifiltoserie.

E tutti si sentivano buoni, tutti socializzavano nella comunità cristiana di preghiera, tutti sorridevano da buoni «paciocconi», forse perché erano rari i pensieri assillanti e nessuno pretendeva più di quanto disponesse. Tutti subivano commossi la forza predominante del fascino religioso della Natività, lungi da ogni bilioso sogno di opulento consumismo!

E fra canti e preghiere si arrivava così alla vigilia del Santo Natale. Iniziavano i preparativi per il pranzo natalizio: si approntavano cosi chini, susameli (dolcini di mandorla), turruncini; si tirava il collo alla gallina più vecchia del pollaio familiare, la si spennava accuratamente per farne, l’indomani, il buon brodo dove far bollire scumidda (capelli d’angelo) e scagliddi (quadrucci) di confezione casalinga, si procedeva all’acquisto straordinario di una sostanziosa corda di salsiccia, si staccava dai chiodi dell’affumicata trave maestra della cucina una piennula di pira azzuoli, si tiravano fuori dal paniere sospeso alla crucchera d’amolleo, che dal tetto penzolava sulla botte del vino, quattru scucchiteddri di puma ‘i nviernu, si riempiva u cannatinu di viecchiu sucu di sarmenta e ci si rallegrava pensando che il pranzo del giorno del Santo Natale, sarebbe riuscito veramente imponente ed eccezionale, poiché le pance di quell’epoca non erano affatto abituate a tutto quel ben di Dio.

In mezzo a tutti questi preparativi, non ci si dimenticava, però, della Santa Messa di mezzanotte.

Dopo la chiusura della novena, in attesa di questa sacra funzione liturgica, si trascorreva infreddoliti e sonnolenti la serata in famiglia, chiacchierando in cerca di un alito di caldo, stretti fra la siepe di sedie intorno â cunculina: niente fragranti panettoni farciti di creme e frutta candita, niente elaborati torroni al cioccolato, niente entusiastiche sturate di spumanti di marca, niente tombola per via dell’anabachismo, niente, proprio niente, assolutamente niente! Qualche dolcino preparato in casa ed un po’ di frutta secca tenevano svegli i familiari: l’unico passatempo era costituito dal gioco dell’oca – l’alaloca – , dove per colpa di rudimentali dadi di legno o di argilla o, in qualche raro aristocratico caso, di osso, si sperperavano fra parenti, affini e vicini, pochi centesimi di lira.

Ci si recava, quindi, in folto corteo alla Santa Messa, a vidiri nasciri ‘u Bamminieddu: la Madrice Nuova, unica Parrocchia di quel tempo, procurava, per via del sovraffollamento in quella nottata, anche un mediocre rimedio di lotta al gelo, che dimostrava, fra l’altro, come con il fiato dell’asinello e del bue si fosse potuta riscaldare concretamente la grotta.

Davanti all’altare maggiore, ricco di file di splendidi lavureddra, officiavano i numerosi sacerdoti di quei tempi; suonava all’organo u maistru Vicienzu o qualche altro musicista della rinomata famiglia Ippolito.

Ed alla mezzanotte in punto, quando l’intonazione del «Tu scendi dalle stelle» di Sant’Alfonso de’ Liguori ed una bianca nube di odoroso incenso avvisavano che stava per essere allontanato ilvelo che, fino a quel momento, aveva coperto Gesù, il curioso mormorìo della gente denunciava che l’intensa commozione era all’apice: ognuno pregava per se stesso, per la famiglia, per le bestie, per la buona annata e, mentre seguiva l’altro canto… e nascìu lu Bammineddu mmienzu u voi e u sciccarieddru …, ciascuno affogava, in quel momento solenne, sinceramente ed integralmente la sua devota personalità, dimenticando per un istante tutti gli affanni quotidiani.

E, rientrando a casa, intirizziti e barcollanti, ci si addormentava… sognando, quasi quasi ad occhi aperti, un meraviglioso mondo migliore …

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