Giochi … di corpo, giochi… di spirito. Giochi di carte e a tombola nni Cìcciu


Non potevamo chiudere questa rassegna decisamente parziale sui giochi tradizionali, senza operare un doveroso e forse indebito sconfinamento in altri giochi che, a prima vista, potrebbero sembrare estranei a quelli praticati in strada dai ragazzi ma che, a ben guardare, risiedono sotto il cielo dello stesso universo ludico.

Tutti sappiamo che ancora piccoli, senza nnàsciri, il gioco era già una copertura dato che, non appena ci si metteva al riparo da occhi indiscreti, il discorso subito deviava verso una direzione obbligatoria, privilegiata. E in casi del genere il transito da teoria a pratica avveniva senza soluzione di continuità. Basti pensare al trasporto con cui i masculiddri giocavano al dottore e ciò non certamente per spirito di emulazione nei confronti del dottore Cangelosi o del dottore Turrisi ma, a dirla tutta, neanche per prepararsi ai test di medicina.

Ricordo perfettamente che una volta, eravamo in diversi e di sesso diverso, finimmo all’interno di un capanno dietro l’angolo per partecipare, a titolo puramente osservativo, a un innocente seminario di anatomia. Se non che lo strano tracchiggio insospettì il corpulento babbo di una delle bimbette tirocinanti che, piombato all’interno dell’anfratto, ghermì per un braccio la figlia la librò in aria e la fece ruotare di moto circolare, esattamente come avviene nella disciplina olimpica del lancio del martello. Noi, come i conigli che avvertono addosso il fucile puntato, con gli occhi chiusi e stretti nelle spalle, aspettavamo che la poveretta partisse per la tangente schiantandosi da qualche parte in quei pressi. Fortunatamente ciò che temevamo non accadde ma, purtroppo, non accadde neppure di ripetere quegli istruttivi seminari, rigorosamente a titolo osservativo.

Un po’ meno innocente, anche se sostanzialmente a fin di burla, era la pratica, tutta mascolina, di fare gruppo con lo scopo di immobilizzare un malcapitato compagno e salariccilla. Si trattava di questo. Alcuni accerchiavano e afferravano il poveretto, il quale ovviamente si dimenava come un ossesso nel tentativo di divincolarsi, qualche altro gli sbottonava i pantaloni, glieli abbassava, e a quel punto nel pube, che tutti chiamavano a parti, a mo’ di cataplasma, gli si strofinava ogni cosa, generalmente terreno, erbe e ddia-nni-scanza se fra queste vi erano delle ortiche. Non è difficile immaginare la grande sensazione di ristoro. Altro che stricàrisi u culu nn’ârdichi!!! Finita l’applicazione, si procedeva a mmùrdilu, a rivestirlo per mantenere l’impacco ben assestato al suo posto. Svariati erano i materiali usati per salariccilla; una volta, i giovani apprendisti di mastro Nicolino, agguantarono Peppi Sciloccu e lo condussero nella segheria di masci Mattia, dove cci a salaru con la segatura e a circiddrina. La cosa curiosa è che il sale in tutto ciò c’entrava poco, anzi niente. Proprio per questo, la nota esclamazione té, salatilla, per dire ‘quella cosa tientela ben stretta, tanto è di nessun valore’ non è da connettere col processo di salatura delle ricotte o di altri alimenti, ma a questa canagliesca pratica fanciullesca.

Poi si cresceva, si dismettevano i càvisi curti, in viso cominciava a spuntare la prima lanugine, u pilu caninu, per cui era naturale che si passasse alla pratica di ben altri giochi che, per quanto non d’azzardo, erano decisamente più interessanti, diciamo le cose come stanno. Non appena si mpinnava (non con la bicicletta ma nel senso che si mettevano le piume, come gli uccelli) era procedura diffusa fra i màsculi disfare la cucitura al fine di praticare un comodo buco nella tasca laterale dei pantaloni, allora veramente capienti, non come quelle dei bbru-gginz, e cosa si faceva passare attraverso questo buco è cosa ovvia e la ragione di ciò lo è ancora di più. Chiaro, no? Poi accadeva che a seguito del lavaggio e dello stiro dei pantaloni mamma li ispezionava e, notando che la tasca era scusuta, con assassina solerzia la rammendava interrogandosi: ma chi tràficu avi nna sta sacchetta, u lazzaruni, ca cci l’a cusutu tri voti e l’avi sempri scusuta?????

Allora non c’era possibilità di motorizzarsi e gli imbarchi per le campagne più recondite alla ricerca di parchi dell’amore erano cose di là da venire. Per lungo periodo, palestra per il praticantato erotico e luogo consacrato alla sfrenata voluttà fu darrìa u castìeddru. Le colonne d’Ercole erano state fissate, per antico pregiudizio, in corrispondenza dell’arco dû castìeddru. Pertanto, incontrando una coppia al di qua dell’arco si aveva sempre la possibilità di concedere loro il beneficio di inventario e ipotizzare, quindi, che stessero facendo un viàggiu a sant’Anna. Attraversata la piazza, era più che chiaro quale santo si era sul punto di adorare.

Ma da quelle bande lì bazzicavano sovente anche innocenti giovanotti che, spinti dal passeggio fino al viale, già che c’erano, sfruttavano pure la possibilità, diciamo così, di cambiare l’acqua alle olive. Una consuetudine, questa, che è rimasta sempre viva nei castelbuonesi. E una volta un gruppo di amici, di cui faceva parte anche Vicìenzu Bbirra, uno dei tanti personaggi del caleidoscopico campionario della scena pubblica di Castelbuono, dopo abbondanti libagioni si portò a quella meta per un necessario versamento tecnico. Ad armeggiamenti ormai avvenuti, uno del gruppo avvertì di fare attenzione perché là dipresso, a vista, c’era gente. Al che, giustamente, ognuno in tutta fretta cercò di ricomporsi. Tutti ma non l’imperturbabile Vincenzo che, anzi, avvertì il bisogno di precisare: Eh! Ia tantu neca nni fazzu mala fuura, cusà tu ti cridi…

Naturalmente finì a fragoroso ridere. Ma qualche altra volta, da ridere ci fu ben poco. Accadde con due (a quel tempo ci si organizzava sempre in due, e per di più un lui e una lei, rigorosamente) che si erano strutturati in gruppo di lavoro. Bene. Si trovavano – diciamo così – nel loro laboratorio scientifico en plein air, intenti non proprio a studiare gli scambi di calore dal punto di vista termodinamico, ma qualcosa del genere. Forse a osservare come reagiscono i corpi sotto l’azione del calore. Quel che è certo è che l’approccio alla questione non fu affatto di tipo teorico ma decisamente sperimentale. E chiamali fissa… Perché voi, al loro posto, cosa avreste fatto?

Ora siccome l’esperimento cominciava a mostrare i risultati attesi, i due, inebriati dall’entusiasmo, si potrebbe dire che si lasciarono prendere la mano, anzi più di una. E siccome si concentrarono così tanto, con la mente si estraniarono al punto da non accorgersi che c’era qualcuno interessato al loro percorso sperimentale e forse anche ai risultati ottenuti. Purtroppo per loro, ma più che altro per lui, non si trovava nei paraggi il tipo che per tempo avvertì Vicìenzu Bbirra dell’arrivo di importuni passanti. Quando il poveretto, rinsavendo dall’esperimento, capì che nei pressi di quel ricetto non erano più in due, fece sì con prontezza ciò che l’istinto gli intimò di fare, ma nella veemenza del gesto, ahi!ahi!ahi!ahìììììììì!, l’alambicco gli rimase costretto fra i denti della zip che letteralmente correvano in duplice filar, come i cipressi di Carducci. Non so come fece a uscire… “dallo spiacevole e cupo dramma”, quello che è certo che dalla sua vita uscirono per sempre zip e chiusure lampo. Con grande sollievo, soprattutto, da parte dell’alambicco.

Per tutti gli anni sessanta e fino all’epilogo dei settanta, i paraggi retrostanti il castello, benché ristorati dalla ventilazione che si dipartiva dalle cime della vicina montagna, erano vieppiù esposti a notevolissimi surriscaldamenti, non certo addebitabili all’effetto serra. E proprio negli ultimi anni di gloria di darrìa u castìeddru, nel corso di una serata non particolarmente calda, anzi decisamente fredda, sempre in due, sempre un lui e una lei (o almeno così mi pare di ricordare), a bordo di una aerodinamica Citroën due cavalli finì che ci si appartò a parti scògniti, dell’agro castelbuonese, â Ggiammina. Ora bisogna tenere presente che le Citroën in generale, e la due cavalli in particolare, per via delle sospensioni decisamente sensibili, già molleggiavano da sé. Dunque, in una situazione a pieno regime di quel tenore dove, come ben si comprende, i cavalli complessivamente erano quattro, la Citroën, per quanto latiata, all’interdetto passante, u zzu Natali Sciabbulavecchia, che si arricampava a la tarda dalla sua tenuta a Ponti Capiddru, apparve come una lavatrice durante la fase di centrifuga, compresa la visuale che si ottiene guardando attraverso l’oblò. Insomma, non era una situazione di calma piatta, u tràficu c’era, si capisce. E il vecchio mutatieri transitando per quel tramestato sito, dopo essersi ripreso dall’iniziale trasalimento esclamo: e bbùuuonu! E ccomi siti, abbramati?

Naturalmente il tono grave del verbo del vecchio mezzadro venne appena percepito all’interno dell’abitacolo dove ben presto, per dirla con Leopardi “Ogni cor si rallegra, in ogni lato risorge il romorio torna il lavoro usato”. Ben presto però, come fu, come non fu, se fu un corto circuito, se fu per l’eccessivo surriscaldamento dei materiali, se fu che il termostato andò in tilt, sta di fatto che mentre tra i due divampava l’amore, la passione e tutto quello che volete, finì che divampò – letteralmente – anche la Citroën e i due occupanti dovettero uscire au dehors, così come si trovavano in quel momento, alquanto nature. U zzu Natali, richiamato dalle grida, ritornò sui suoi passi e, rivolto alla macchina che bruciava, a lui, ma soprattutto a lei, che s’era nascosta dietro un albero, constatò: carù, cc’è picch’ê fari. Ogni fùocu forti cìnniri addiventa.

E accanto a questi giochi che spesso sottendevano una buona dose di azzardo, ce n’erano di altri, assai sentiti dai castelbuonesi (non che questi ultimi non lo fossero), che erano di azzardo nell’accezione più letterale del termine. Azzardo, infatti, viene dal francese hasard, ‘caso’ che a sua volta è derivato dall’arabo az-zahr ‘dado’. Cosa c’è di più casuale dell’uscita di una qualsiasi delle facce di un dado? E cosa è se non un azzardo puntare un sacco di soldi sull’uscita di una certa faccia del dado? Per inciso la denominazione dei dadi a Castelbuono è l’ali che chiaramente deriva dal latino ‘alea’. Ma a Castelbuono, in fatto di azzardo, più che al gioco dei dadi e ai relativi studi condotti da Pascal, dal Cavaliere di Meré, da Fermat e da Cardano, ci si è votati primieramente al gioco della bbuffa. Forse perché, come teorizzato da un indomabile giocatore di bbuffa che non era Pascal ma il maestro Viglianti, questo gioco “consente di vincere molto e di perdere poco”. Una scuola di pensiero, questa, in grado di surclassare quella francese con i suoi quattro secoli di studi probabilistici. Peccato che i risultati sperimentali non fossero per niente in accordo con i dati teorici del maestro Viglianti. La bbuffa è una sorta di baccarà senza possibilità di chiamare, con gli stessi punteggi del baccarà, compreso lo zero che è detto, appunto, bbuffa. La grande differenza col baccarà sta nel fatto che in caso di parità vince il banco. Ciò determina una maggiore probabilità di perdita per chi non detiene il banco e quindi l’istinto di azzardare feroci puntate nella speranza del colpo giusto o, come si dice, dû cùorpu a vvìnciri. Il quale arrivava, non quando tu lo avvertivi maggiormente ma semplicemente quando ne aveva voglia. E qui, si capisce, si facìevanu i ficu, perché nell’attesa tu perdevi letteralmente la testa e tutto il resto. Come accadde una volta a un accanito, benché ancora in erba, giocatore di bbuffa che essendosi trasferito a Palermo per compiervi gli studi medi, senza mancu arrivari, si diede più che ai libri, ai cosiddetti libri di quaranta pagine, le carte siciliane, appunto. Non c’è neanche bisogno di dire che perse tutto, compresi i pantaloni e la camicia. Drammatici, o meglio drammaturgici, furono i termini usati per avvertire casa: “sono stato intercettato da una pattuglia di americani – era il ’43 – che avendo capito subito la mia incrollabile fede fascista mi hanno rincorso e catturato. Mi sono difeso come un leone, ma alla fine hanno avuto la meglio, mi hanno dato un sacco di botte e derubato dei miei vestiti per poi rilasciarmi. Venite subito e portatemene di altri”. Un paio di giorni dopo di prima mattina bussarono alla porta della sua pensione a Palermo. Il nostro aprì e gli si parò davanti il fratello, un omone come una quercia secolare, con in mano i vestiti richiesti. L’ancora ignudo ebbe a malapena il tempo di aprire la bocca, cercando di accennare la sua versione dei fatti, che un temporale di legnate di abbatté su di lui, lasciandolo riverso per terra, mezzo morto. Perse i vestiti, quella volta perse anche il pelo, ma non penso che perse mai il vizio.

Ma il vezzo del vizio si acutizzava in concomitanza con l’entrata del tempo liturgico dell’avvento, con l’avvicinarsi del Natale, allorché iniziava la stagione agonistica del baccarà. Oggi non si gioca quasi più, ma un tempo era più facile che si dimenticasse di fare il presepe ma non di organizzare un banco. E non era soltanto nei circoli e nelle case, fra amici, che si giocava ma soprattutto nelle case chiuse che non erano, come ben si comprende, quelle che, proprio in quegli anni, erano diventate oggetto della legge Merlin. Ho sentito tante volte raccontare di mitiche vincite, di gente che non aveva letteralmente dove infilare i soldi vinti, che camminava per strada mentre le banconote sfuggivano via dalle tasche, quasi come i sassolini lunari dalle tasche degli astronauti. Poiché naturalmente vigeva il principio di conservazione della cartamoneta, per uno che vinceva così tanto chissà quanti se ne ritornavano a casa col portafoglio leggerissimo e l’espressione non proprio giuliva.

Non c’è neanche bisogno di dire che si giocava in tutti i paesi e i professionisti dell’azzardo, non disdegnavano di andare in trasferta, anche nei pressi del capoluogo. Ora, durante una di queste incursioni forestiere, non so bene che cosa accadde. Non so se alcuni castelbuonesi vinsero adottando qualche poco simpatico stratagemma o se invece la forte vincita, per quanto legittima, indispettì i padroni di casa. Sta di fatto che una sera alcuni di questi, forse erano bagheresi o forse termitani, travestiti, penetrarono in una casa di un noto quartiere del centro di Castelbuono, dove certamente dovevano essere di casa, e dove sapevano che tipo di attività vi si stava svolgendo. Andarono insomma a colpo sicuro, anzi con la certezza di fare un colpo sicuro. Entrarono, senza perdersi in preamboli esplicitarono il quid della loro visita, quindi si fecero consegnare i soldi distribuendo in cambio un bel po’ di legnate, segnatamente ad alcuni personaggi ai quali, evidentemente, cci l’avìevanu pirmisi comi a rracina d’appènniri. Successe il parapiglia, Chi si rifugiò sotto i tavoli, chi reagì, chi cercò di mettersi in salvo. Fra questi uno, aguzzato l’ingegno, pensò di raggiungere il giardino sottostante, che gli avrebbe consentito di tagliare la corda, seguendo la via più breve: saltando dal balcone. E così fece. Non proprio con l’agilità di Nino Castelnuovo nella réclame dell’olio Cuore saltò la ringhiera, si librò in aria, già assaporava l’atterraggio, ma in quel momento accadde l’imprevedibile: la cinta che gli chiudeva l’impermeabile alla maniera dell’ispettore Marlowe, agganciò in uno dei rami più robusti di un grande albero e il nostro Icaro discendente rimase lì, per un tempo indefinito, dapprima ad oscillare e dopo a penzolare. Benché la vicenda appaia inverosimile, posso assicurare di averla ascoltata così come la riferisco.

Ma Natale, per fortuna, non era solo bbaarà. In un periodo in cui i cosi chini surclassavano i panettoni, Natale, in ordine al divertimento e al gioco, era esclusivamente la tombola. E per lungo periodo la tombola per antonomasia fu quella che si organizzava da Ciccio.

La sartoria di Ciccio, la chiamavano tutti così, fu uno degli ultimi luoghi dove si poté vivere l’antico clima di una bottega artigiana: u masciu, i picciùotti e una marea di avventori che discutevano del più e del meno ma molto spesso, se non sempre, progettavano burle e facevano scurciddra ai danni di un passante, di uno di loro stessi, o di chicchessia nel paese. Non è un caso che lo storico Gruppo Poeta che allietò un imprecisato numero di veglioni di carnevale, nacque ad opera di Ciccio e di alcuni dei frequentatori più assidui della sua sartoria.

La sartoria di Ciccio, ubicata nell’angolo più bello del mondo che per ciascun castelbuonese è a chiazza nnintra era un microcosmo di umanità varia. Per quello che ideavano e realizzavano, sarebbe il caso di dire un ricettacolo di simpatiche canaglie. Se un giorno si appurava che don Vincenzino, gestore della merceria là di fronte, aveva finito, che ne so, u sapuni mùoddru, riuscivano a mandare, una dopo l’altra, duecento persone diverse a chiedere: Don Vicinzì, mû duna menzu chil’i sapuni muoddru? Ma accadeva pure che destinatario dello scherzo fosse un malcapitato avventore. Ciccio aveva un grandissimo ferro da stiro a carbone che sembrava una locomotiva. Un giorno di feroce scirocco era capitato un tipo che si era messo a sedere all’aperto su uno dei diversi sgabelli che Ciccio metteva a disposizione del composito pubblico. Passò poco e riuscirono a mettergli, senza che se accorgesse, il ferro acceso, ccû luci sbraçiatu, sotto lo sgabello. Il poveretto, che a quel punto si trovava letteralmente fra due fuochi, non solo cominciò a sudare e ad asciugarsi come uno che abbia la febbre a quaranta ma dovette subire la scòrcia di tutti: ma neca senti càviru?, ma vossìa bbùonu sta sudannu

Adiacente alla sartoria di Ciccio, più precisamente due porte sotto, c’era la rivendita dei tabacchi gestita da màsciu Sariddru il quale era un’ottima persona sebbene gli facesse difetto l’assoluta mancanza di pazienza. Questo neo del nostro tabacchino era argomento all’ordine del giorno fra i frequentatori della sartoria, alcuni dei quali avevano dei ghiribizzi davvero notevoli. Uno di questi, era particolarmente destro nell’acchiappar mosche. Per i truci scopi di Ciccio e dei suoi soci ne aveva catturate un centinaio circa. Oggi verrebbe trascinato in tribunale dagli animalisti, ma allora era pratica lecita. Non solo le catturò con pazienza pari a quella di chi suole accampari linticchi ccu i spìnguli, ma ebbe anche l’enorme sèchitu, via via che le acchiappava, di legarne le zampette col filo da cucito ponendole a una certa distanza le une dalle altre. Quando ebbero finito presero uno dei ragazzini che attorno al bancone toglieva i ncimi dagli abiti e lo indottrinarono a dovere sul da farsi. Il mascalzoncello entrò nella tabaccheria dove c’erano una decina di clienti e, senza essere visto, liberò le mosche le quali, pur puntando in direzioni diverse finirono col dirigersi, come se fossero state telecomandate, verso le sigarette e quindi a far ghirigori sopra la testa di màsciu Sariddru che istantaneamente cominciò a imprecare come un turco. Ecco, la sartoria di Ciccio era frequentata da gente così. E poi la tombola.

La tombola era un altro dei momenti in cui prevaleva lo sberleffo e il concetto filosofico secondo cui il buon umore aiuta a vivere serenamente. Il tabellone, si capisce, era quasi sempre appannaggio di Ciccio e non c’è bisogno di dire che, se lui o qualche amico stretto sbirciando qua e là, si accorgeva che al tale particolarmente gonzo o permaloso mancava un certo numero per fare tombola, per quel numero, si sarebbe trovato il modo di non farlo uscire. La tombola di Ciccio era una libera rielaborazione sia della smorfia napoletana, sia della secolare convenzione castelbuonese che fa corrispondere a ciascuno dei novanta numeri una parola o un oggetto.

Se per esempio il 37 nella smorfia napoletana è ‘o monaco e a Castelbuono è scupetta, da Ciccio – chissà perché – era mazurka. A Castelbuono, l’uscita del 2 veniva da tutti proclamata come a cannilora, da Ciccio era, invece, ‘io e mia moglie’. Così il tre che è muçiddra, sul calco del napoletano ‘a jatta, da Ciccio veniva espresso come ‘io, mia, moglie e la vacca’. E se si può capire che ‘doppia zappa’ è il 77, cu l’avi s’u punta corrisponde al 23, u su ssantu çiascunaru (un noto e facoltoso allevatore) è il 60, un po’ meno comprensibile risulta perché al 35 si associasse proprio picicanìeddru, al 32 popolazzioni, al 18 vinu bbùonu, all’89 ‘alle porte di Makallé’, al 36 a pperi e così di seguito. Poiché non era permesso chiedere spiegazioni sul numero estratto, se tu sentivi, per esempio: u chiacchiaruni! o sapevi che si trattava del 29 o dovevi lasciarlo non registrato perché nessuno di quei facci tosta te lo avrebbe mai detto. E conoscendoli, non era escluso che talvolta, per rendere la cosa ancora più incomprensibile, qualche numero estratto lo ‘smorfiassero’ a modo loro, su due piedi, in modo che nessuno capisse. Con queste premesse era inevitabile che prima o poi qualcuno, preso per sfinimento, non reggesse più, e finiva che faceva volare cartelle e lenticchie per aria. Una scena che si vide spesso.

E si andava avanti così, di scherzo in scherzo, di giorno in giorno, con la spensieratezza di allora, non ancora schiavi del tempo né oppressi dai tenebrosi pensieri di oggi che ci rendono siddriati pp’un dumani, mettendo a punto l’acume e l’inventiva propri di chi è in grado di dominare e debellare la noia, senza aspettare che siano altri a farlo in tua vece. Si andò avanti per anni in questo modo, finché Ciccio non dovette restituire la vita e sommessamente partì, lasciando chiusa quella putìa, sutta lu rròggiu granni di la chiazza, per usare due versi della struggente poesia di Michele Sarrica, sentito omaggio al suo fraterno amico Ciccio, ma anche inno allo spirito, ormai definitivamente perduto, del nostro essere castelbuonesi.

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Ringrazio sentitamente la moglie e i figli di Ciccio Mazzola per la spontanea prontezza con cui hanno messo a mia completa disposizione le belle fotografie di Ciccio, che non ha smesso di vivere nel cuore di quanti ebbero il privilegio di conoscerlo; ringrazio Mario Gugliuzza per avere accettato il mio invito e gli sono grato per l’intensità e il trasporto con cui ha interpretato i toccanti versi di Michele Sarrica.

Ringrazio la signora Liboria Russo che con la sua cortese disponibilità mi ha dato la possibilità e l’enorme piacere di pubblicare la foto del fratello, il dottore Nino Turrisi, paterna figura di medico della mia fanciullezza e grazie al quale venni al mondo. Non lo voglio certo ricordare per questo trascurabile dettaglio ma per la sua grande umanità, la sua preparazione, la totale dedizione ai suoi assistiti e agli ammalati in generale e soprattutto per la straordinaria eleganza dei modi che ne hanno fatto un indimenticato galantuomo.

Ringrazio, infine, voi per avere avuto la pazienza di seguirmi in questi cinque intricati itinerari attraverso i giochi fanciulleschi con le inevitabili e apparentemente strampalate divagazioni. A presto MG 

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