Giochi, giochetti, giochini: ô çiusciuni. E come fu che con un soffio ne voltarono dodici (VIDEO)


Prima di andare avanti e per completezza di trattazione, bisognerebbe almeno mentovare un paio di giochi di mero diletto e trastullo, come per esempio a sampugna che non è la nota zampogna natalizia la quale, invece, quasi ovunque nel meridione si chiama ciarameddra.

Non era difficile quando da bambini si andava quotidianamente campagni-campagni a fare razzia di minniliddri, piriddra, ggirasi e cose del genere, procurarsi uno stelo verde di fieno o di avena o di altra graminacea, purché internamente cavo, praticarvi un taglio diametrale in una estremità, soffiarvi con decisione e potere godere così della produzione del caratteristico suono, acuto o grave in base alla grossezza dello stelo, che ricordava quello di una trombetta.

Dal momento che un taglio non netto avrebbe pregiudicato la perfetta sonorità, era necessaria una certa attenzione affinché a sampugna arriniscìeva, in altri termini perché avesse un timbro sonoro inappuntabile. Per questo ragione, quando qualcuno, contro ogni aspettativa, combinava una malefatta, solitamente gli si diceva: certu c’arriniscisti comi na sampugna, cioè ‘sei venuto su alla perfezione’, ma anche ‘hai dato grande prova delle tue capacità’, ‘complimenti, da te non me lo sarei aspettato’, con quella carica di ironia, che è struttura e spirito del dire castelbuonese.

E poi c’era anche u suca suca che, ovviamente, non era una fellatio a go go, come qualcuno con la testa irreversibilmente al cacio potrebbe essere portato a pensare, ma un innocente e rudimentale strumento musicale costruito dai bambini col nocciolo di un’albicocca, lùossû braccocu.

Strofinando energicamente su una superficie scabra le due parti più convesse del nocciolo, queste si assottigliavano fino a far intravvedere il seme, u civu, che si estraeva con un chiodino, per lasciare la cavità vuota. Stretto lo strumento fra i denti, soffiando ed aspirando, si produceva un suono che, alla lontana, potrebbe essere assimilato a quello di un’ocarina costituita da due soli fori.

Costruire rudimentali strumenti musicali ha costituito sempre una attrazione per i bambini. Ne ha dato una eloquente testimonianza il sommo Camilleri alla presentazione della carta dei giochi dell’ALS (→ puntata 11 luglio 2018), riferendo che a Porto Empedocle negli anni trenta i ragazzini, utilizzando strumenti a percussione e a fiato, reperiti e costruiti alla bisogna, eseguivano u cuncirtinu. I principali strumenti a percussione erano le pietre firrigne, che venivano battute l’una contro l’altra, i ferli, bastoncini fatti con rami di ferula e u cocò, un recipiente di terracotta pieno d’acqua che veniva chiuso con un pezzo di pelle mantenuta in tensione per mezzo di un laccio legato: una sorta di bongos. Fra i fiati c’era a pàmpina, cioè la nostra sampugna, che si suonava o appoggiandola di taglio alle labbra socchiuse, o arrotolandola e soffiandovi dentro. Naturalmente non mancava u suca suca, che lì, con una denominazione decisamente più castigata, chiamavano u frischettu e, infine, lo zufolo e u bbùmmulu.

Precisò testualmente Camilleri: «Naturalmente nessun pezzo eseguito nel corso del cuncirtinu era replicabile. Il miracolo accadde, a mia memoria, una sola volta con un pezzo che s’intitolava, manco a dirlo, a minchia».

In quei tempi ogni ragazzino avrebbe passato l’intera giornata in strada, non avendo in casa niente che determinasse distrazioni: né televisioni, né videogiochi né smartphone che con il loro terribile apparato di app costituiscono degli strumenti di distrazione di massa. O forse di distruzione di massa, avendo i poteri forti deciso che le masse devono essere occupate a pensare a niente. Diciamo che siamo al prologo di una dittatura invisibile e indolore, forse la più terribile e la più ineluttabile di tutti i tempi. Negli anni sessanta, Herbert Marcuse aveva filosofato sul fatto che l’ideologia di una società industriale avanzata portasse inevitabilmente all’uomo a una dimensione. Oggi, per ciò che stiamo vivendo, siamo quasi di fronte all’uomo a dimensione zero.

Dunque allora c’era la casa per dormire e senza alcun comfort, poche stanze e molti figli e, di conseguenza, densità – numero di persone al metro quadrato – tipicamente vietnamite. Oops! Il Vietnam, arrivammu. A ppùostu sìemu. Ma guardate un po’ voi come si combinano le cose, ma senza volerlo, poi. Ritorniamo al nostro discorso, va’.

Dicevamo, la casa per dormire e la strada per vivere. E tante volte per imparare a vivere. A partire dai giochi che vi si facevano, tutti con una indubbia componente educativa, non solo relativamente al corpo e alla mente ma soprattutto in ordine a quella che oggi si chiama sfera relazionale.

Il gioco sicuramente più diffuso fra quelli di pertinenza femminile era u quatratu che nell’italico idioma si chiama campana. A dispetto del nome, la figura disegnata per terra, era rigorosamente di forma non quadrata perché, si sa, c’è sempre una bella differenza tra ciò che si dice e ciò che si fa. Per esempio, Tumminello, appena eletto sindaco, disse a Piscitello che per l’affaire Liccia poteva stare tranquillo, in quanto avrebbe fatto tutto ciò che l’amico Mauro aveva pressantemente richiesto. Ma annàcati oi, annàcati dumani, annàcati sempri, alla fine Antòonio non fece… un kaiser e, comunque, tutt’altra cosa rispetto ai desiderata del dottore Piscitello. Qualche anno prima, toni a dir poco trionfali accompagnarono l’annuncio del rifacimento del municipio a immagine e somiglianza di quello storico: lo stesso prospetto di un tempo, gli stessi finisciunna ccu a panza, lo stesso cortile interno con al centro la stessa palma, e soprattutto lo stesso ufficio anagrafe degli anni cinquanta con Alfonsino di nuovo seduto alla sua scrivania.

Così dissero. Ma fecero tutt’altro, e non certo perché Alfonsino, quando gli prospettarono l’idea, dapprima ghignò, quindi li mandò a cagare. A memoria d’uomo, una volta sola accadde che si fece alla lettera quel che era stato detto. Successe l’anno scorso, allorquando si diffuse la notizia che l’ingegnere Angelo Puccia avrebbe fatto il consigliere comunale e nient’altro. E accussì fu.

Dicevamo che il quadrato aveva una forma rettangolare. I riquadri di cui era composto avevano varie forme e il gioco consisteva nel saltare a piè pari o divaricati o a piede zoppo (ma allora si diceva a zzompapè), a occhi aperti o chiusi all’interno di essi senza toccare le linee perimetrali, secondo un tragitto determinato dal lancio di una scorza di mandarino o di una piccola pietra entro questi riquadri. A volte u quatratu finiva con un semicerchio, detto u suli, su cui si sostava, una sorta di time-out, prima di iniziare la seconda parte del percorso.

In alcune fasi del gioco, passando su ogni casella tracciata per terra senza guardarla bisognava ripetere ami? e se col piede non veniva toccata alcuna linea perimetrale gli altri partecipanti al gioco rispondevano in coro: salami, per cui si poteva proseguire. In caso contrario, si diceva bbrù o bbrùciu. Detto così sembrerebbe una cosa da beoti, invece il gioco richiedeva una certa coordinazione occhio-mano ma anche di movimenti, come si può notare dalla ricostruzione di diverse tipologie di partite ô quatratu.

Fra i giochi più diffusi di allora c’era âmmucciateddra, che poi sarebbe quello che ovunque è chiamato rimpiattino o nascondino. Dopo avere determinato con la conta chi va sotto, chi appuzza, questi con la faccia rivolto alla tana (in questo caso un muro o una porta) conta a voce alta fino a un prefissato numero, mentre gli altri corrono a nascondersi. Finita la conta, chi appuzzava avrebbe urlato la poco rassicurante formula di rito ammucciàtivi c’a morti veni, quindi avrebbe iniziato a cercare ovunque nei dintorni, con l’obiettivo di scovare coloro che si erano nascosti, per correre verso la tana, cercando di toccarla prima di chi era stato scovato.

A volte ci si riusciva a nascondere così bene che era un problema farsi trovare e, poco tempo addietro, nel corso di una strana partita dove giocarono insieme màsculi e fìmmini, successe che quello che stava sotto (lo fecero appuzzari a forza, perché lui non ne voleva mancu nnô sucû cunìgliu di fare quella partita) diede inizio al gioco dicendo con voce tonante: vi putiti iri âmmucciari!!!! Al che Lia Romé, Giusy Cicero, Martino, Carmelo, Marcello D’Anna, Giuseppe Fiasconaro, Santi Leta, Pietro Mazzola, Giovanni Noce e molti altri, si nascosero così bene che, a tutt’oggi, non si è capito per niente dove siano andati a finire, dove si siano rintanati. Il capo del gioco, colui che tutto move, meravigliandosi di se stesso, li sta ancora cercando e siccome non riesce a capacitarsi di quanto avvenuto, continua a ripetere: è vero che io allora dissi loro: vi putiti iri âmmucciari. Ma chisti spirìeru pròpria!!!!

 

Diverse erano le varianti di ammucciateddra, qui si ricordano per esempio un-due-tre libbera me, all’incantèsimu, ma anche a mmuffa in cui chi stava sotto, durante la caccia, doveva cercare di toccare uno qualunque degli altri giocatori che, una volta toccato, ma noi dicevamo abbullatu, avrebbe preso il suo posto. Alla fine del gioco, chi rimaneva preso era muffutu e tutti gli facevano a bbàia gridandogli mu-ffu-tu!, mu-ffu-tu che alla lettera significa ‘preso dalla muffa’ ma nello slang della malavita assume il significato di ‘delatore’, ‘spia’. E qui ci sarebbe da dire a lungo su un delatore-storico. Ma lasciamo alla storia il tempo di fare il suo corso e al tempo di essere, come suo solito, galantuomo, in modo da potere stabilire anche stavolta con precisione dî stàbbuli i confini e ddî chistiani nnomi e cugnomi.

Non attestato in altri posti, almeno con la nostra denominazione, è – invece – un altro gioco di inseguimento, detto pitiloss. Il suo significato è poco chiaro, ma potrebbe risiedere fra gli americanismi di ritorno, componendo il peel (out) ‘darsela a gambe’ con is lost. ‘è perso’ o, più semplicemente, Pete is lost. Chissà, forse già allora il destino aveva decretato che il capogruppo Pete Mazzola fosse lost, perso. Non lo sapremo mai. Ma, in definitiva, che ce ne frega di conoscere l’etimologia di pitiloss?

Dopo avere determinato con la conta chi doveva appuzzari, il più veloce degli inseguitori, battendo con la propria sulla palma della mano di chi appuzzava, iniziava col dire più volte pitiloss, pitiloss tàccia per indurre chi si preparava a inseguire a commettere una falsa partenza, ma soprattutto per consentire agli altri di scappare. L’inseguimento iniziava non appena chi conduceva il gioco diceva pitiloss pitiloss càccia. Quando chi dava la caccia riusciva a toccare qualcuno degli altri, questo diventava suo alleato quindi insieme, prendendosi per mano, cercavano di toccare un altro e così via. Se la catena degli inseguitori si spezzava, gli inseguiti picchiavano questi ultimi, i quali per mettersi in salvo potevano solo toccare la tana.

Se giochi come questi contribuivano a sviluppare il fisico e l’agilità, era nei giochi fatti coi tappetti, con i gettoni e con le figurine che si forgiavano i futuri giocatori d’azzardo che, in età più matura, avrebbero fatto parlare di sé nei vari tableaux, come vedremo nella prossima puntata.

 

Con i tappi a corona delle bottiglie, soprattutto di aranciata e gazzosa, si giocava ê tappetti e, come è noto, si trattava di colpire il tappo mediante uno scatto del dito indice sul pollice o viceversa.

In ordine ai tappetti era strabiliante la capacità che avevano i bambini di personalizzarli fortemente. In un periodo in cui nascevano i primi modelli di automobili ad assetto da corsa, i ragazzi letteralmente impazziti per le modifiche ideate e proposte da Carlo Abarth, in un enfatico slancio di emulazione erano portati ad abbartiari oltre ê carruzzuna, anche i tappetti. Per dargli un assetto da competizione, nel tentativo di ridurre il coefficiente di attrito dinamico, ne lisciavano la superficie mentre per migliorarne l’aderenza col suolo, riempivano la cavità con spesse bucce d’arancia e i più zaiss addirittura con della cera pongo.

I giochi praticati erano diversi: ô truzzu si trattava di colpire con il proprio tappo quello dell’avversario e lì bisognava fare molta attenzione perché se lo si mancava di poco, l’avversario avrebbe avuto un tiro facile. Per vincere ô parmu, invece, era sufficiente far fermare il proprio tappo a distanza dall’altro inferiore a una spanna. ô muru, che si poteva giocare, oltre che coi ggettoni e con le figurine, anche a soldi, si assicurava la posta chi riusciva a far fermare il proprio tappo alla minima distanza dal muro. In maniera analoga, ô scalunìeddru, si trattava – tirando a turno – di lanciare il proprio tappetto, oltre lo scalino, alla minima distanza dalla base di esso.

Poiché molto spesso ad occhio non era possibile stabilire chi avesse vinto, bisognava misurare con le dita e qui, ben presto, veniva fuori la vera indole dû scarafuni, di colui che perpetrando soverchierie tendeva a rompere il gioco. Come si vede, anche allora, chi perdeva, cercava pretesti, cavilli, rradici pp’arruttari, intavolava dispute, tendeva a trasgredire le regole del gioco, dapprima con le buone poi con metodi sempre più bruschi, facendo la voce grossa, minacciando ritorsioni e di fare saltare tutto per aria. Esattamente come accade oggi. L’unica cosa che allora non si faceva era di raccogliere le firme.

Un gioco di abilità e di estrema sveltezza fatto con le mani, niente a che vedere però con quelli – assai conosciuti e praticati – di lambire di soppiatto femminili profili sinusoidali o di fare sparire soldi dalle tasche altrui, era quello fatto con cinque pietruzze e consistente nel lanciarne una in aria e riuscire, prima che ricadesse, a prendere una delle quattro rimaste per terra, poi due per volta e così via con diverse varianti e configurazioni come si vede in questa ricostruzione.

Caratteristica della quasi totalità dei giochi era la posta in palio. Ora, bisogna ricordare che in quell’epoca non c’era grande circolazione di cash, di grana, anzi non ce n’era affatto. Per rendere l’idea, sia pur approssimativamente, si deve pensare che se allora fosse stato preso uno e messo a testa in giù, scotolandolo, un sordu di nnê sacchetti un ci nniscìeva, per dirla col poeta Giuseppe Mazzola Barreca. Per questa ragione, la posta, specialmente nei giochi di bambini, era costituita quasi esclusivamente da funneddri, che poi erano i bottoni delle camice, dei pantaloni ma anche dî cavis’i tila. Sembrerà una cosa da pazzi, ma allora i funneddri avevano un valore, contribuivano a fare patrimonio e grande era in tutti la mania di iucar’ê bbuttuna.

Si usciva di casa con un certo gruzzolo di funneddri per giocare ê chiàmpari oppure â strùmmula ma anche ô çiusciuni, che consisteva nel far propri i bottoni posati per terra e che si riuscivano a rovesciare con un energico soffio, prodotto in direzione parallela al piano di gioco. Non era una cosa facilissima riuscire a rovesciare una o più funneddri, benché ci fossero dei ragazzini con delle capacità strabilianti, in grado di rovesciarne diversi in una sola volta. Le cose si semplificavano quando si giocava ô çiusciuni con le figurine, i ritratteddra, anche se far girare un gran numero di rritratteddra non era semplicissimo. Ma conobbi un tipo, eccezionalmente destro in questi tipi di esercizi, che, in una sola volta, cc’un çiusciuni, riuscì a rovesciarne circa dodici di rritratteddra: Piscitello, Castiglia, Pitingaro, Fabio and many many more.

Cose raccapriccianti succedevano allorché un ragazzino scacava, vale a dire perdeva tutti i bottoni. In ordine al termine scacari, che è ovviamente un traslato, c’è da dire che esso trae origine dall’universo dell’economia domestica e segnatamente dall’allevamento delle galline. E ciò perché, in determinati periodi dell’anno, per esempio in estate, le galline scacàvanu, vale a dire cessavano di deporre le uova e quindi ccû l’uvicìeddru si rimaneva a secco, come quando al gioco si perdeva molto o quasi tutto.

Se giocando a figurine, colui che scacava poteva recarsi nnô Puddrinitu e comprarne di altre, rimanendo senza bottoni poteva sì favorire nnâ Tagliarina, â strata longa, che allora era il non plus ultra della merceria, ma l’istinto ludopatico suggeriva, per non perdere tempo, di cominciarsi a strappare quelli dei pantaloni che aveva indosso.

E siccome al gioco il trend si manifesta fin da subito, succedeva sempre che il geniaccio, ben presto, finiva col perdere anche quelli e così, subitaneamente, mittìeva manu a quelli della camicia. Persi anche questi, non gli rimaneva che correre a casa, frugare nnô uardarrobba e poi anche nnâ càscia per alienarne degli altri dalla bbiancherìa e dai vestiti dei genitori. Poco più avanti negli anni, diversi degli stessi ragazzi si sarebbero cimentati in analoga ricerca nel disperato tentativo di racimolare qualche soldo, frugando spasmodicamente nelle tasche dei vestiti e nei cassetti di casa, e non di rado sutta u maruni, e potere così continuare a giocare (e perdere) in svariati giochi di carte. Ma di questo e soprattutto di altre cose si parlerà nell’ultima imperdibile puntata, on line “su questi schermi”, come si diceva una volta, fra una quindicina di giorni. Non mancate.

 

 

 

I video sul gioco del quatratu e delle cinque pietregirati a Castelbuono, di proprietà dell’Archivio dell’Atlante Linguistico della Sicilia, vengono pubblicati per la cortese concessione del Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani che qui ringrazio.

 

Il video su come si costruisce e si suona na sampugna si trova all’indirizzo youtube https://www.youtube.com/watch?v=mwwqLoNGFtA , inserito da Massimo Ceraulo.

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