I chiàmpari, la cer-bottana, u zzùmparu e perché Tumminello non poteva vincere le elezioni | VIDEO

E se il gioco dei mazzùocculi (vedi puntata precedente) era il baseball senza ball, i chiàmpari costituivano a tutti gli effetti l’equivalente del gioco delle bocce… senza bocce (e anche qui senza alcuna allusione), sostituite da pietre accuratamente selezionate fra le più piatte e lisce o, ancora meglio, da frammenti di mattoni rossi per pavimenti – da noi detti parmarischi e maruna a mmitra – storicamente prodotti nnê stazzuna, le fornaci per la produzione di laterizi.

Gli ultimi stazzuna in attività erano ubicati ai margini del paese. Ve ne era uno nei pressi della via che porta alla Rametta, nelle adiacenze del Parco delle rimembranze, un altro più in basso, ô Chian’i san Pàulu nei pressi delle case popolari, poi ancora a valle del rettifilo della Centrale gestito da Pinsino e ancora, ultimo ma non per questo il meno importante, a san Leonardo nnô Stizzusu, che se avesse impiantato quell’azienda, per esempio, a Sondrio come nciùria, certo, avrebbe avuto ‘il fastidioso’ o se preferite ‘il cavilloso’, con tutto il depauperamento di sfumature significanti che ogni termine, subisce allorquando deve passare attraverso il micidiale crivello della traduzione.

Non c’erano, dunque, bocce e – di conseguenza – non c’era neppure il pallino. In sua sostituzione si usava un inerte più o meno regolare, che qui tutti chiamavamo u zzùmparu, sotto il quale si depositava la posta, in genere figurine, bottoni (famigerata posta di tanti giochi di fanciulli di cui si dirà in altro momento) e, nonostante la cronica mancanza di liquidità di allora, anche soldi.

Il depositare la posta in gioco sotto il sasso era detto parari u zzùmparu. Dove ‘parare’ non deve essere inteso in termini calcistici ma nel senso di apprestare qualcosa per renderla pronta all’uso. Quindi si para a scupetta, cioè si carica lo schioppo, in senso lato si para u chiaccu, ossia si predispone il cappio per catturare la preda che, nel caso del cacciatore, è la selvaggina, mentre nel caso dell’insaturabile donnaiolo su i fìmmini. Fermo restando che nulla ostava affinché, a volte, ma non tanto raramente, anche la donna, potesse parari u chiaccu al grullo, facendo in modo che nel momento culminante della tenzone travolgente costui, assolutamente mpapalunutu, rimanesse aggrippatu, e quindi impreparato a ingranare una certa marcia, la sola che avesse assoluta efficacia in simili frangenti. Inoltre, si para a cciàppula, vale a dire si arma la tagliola o la trappola per i topi e, da qualche tempo, a quanto dicono, si paranu anche le fototrappole, per incastrare tutti quei lerci che, abbandonando ovunque sacchetti dell’immondizia e rifiuti vari, dimostrano di essere rimasti ‘allo stato ebraico’, anzi di essere dei veri e propri ebbrei, cioè di disconoscere consolidate norme di comportamento civile.

Ma visto che i bordi delle strade extraurbane di Castelbuono pullulano come non mai di rifiuti di ogni genere, auspichiamo fortemente che le fototrappole installate producano, a parte il solito ispirato comunicato stampa dell’amministrazione, un gettito di svariate decine di migliaia di euro nelle casse del comune. Certo, se ci si limitasse a udire il silenzio calato sull’argomento e a leggere i social, l’emergenza strade lerce sembrerebbe passata, visto che quello stuolo di strilloni, tanto attivi nel corso della campagna elettorale del 2017, una volta conquistato il Palazzo d’Inverno, ha abbandonato megafoni, tastiere e infuocati post e oggi non trova più ragioni per cui strillare. Come dire, dopo la rivoluzione, la restaurazione.

Ma ritorniamo al gioco dî chiàmpari che, non essendo stato inventato ô Cùozzû Rrusàriu, si pratica a tutte le latitudini e, per dirne una, in italiano si chiama sussi, così come la pietra sotto la quale si pone la posta.

Quando la posta era costituita da soldi, il gioco era praticato quasi esclusivamente dai più grandi e dagli adulti, ma non era escluso che qualche figliu di rruminata ancora in erba – senza nnàsciri – già giocasse a denari. I malacunnutta, si sa, ci sono sempre stati, diversamente da quanto oggi si possa essere indotti a credere. Ma, a parte rare eccezioni, con la pila in palio, erano i giocatori più incalliti che si facevano sotto, dandosi appuntamento tassativo, specialmente nei dì di festa, in quella striscia di terreno compresa fra lo stradone e il convento dei domenicani al Rosario, che nell’immaginario collettivo degli anni trenta e quaranta del Novecento assurse a sito consacrato al gioco delle chiàmpare. Così come u chianu â bbaddra, la piazza Castello, lo fu per il gioco del pallone.

Il gioco delle chiàmpare, chiaramente, si focalizza attorno ô zzùmparu. Non so voi, ma personalmente trovo che zzùmparu sia una parola fonologicamente seducente anche se la sua etimologia non è di immediata risoluzione, né certa. Intanto, a complicare le cose, ci si mette pure la congiuntura sfavorevole che è solo a Castelbuono che il sussi assume la bizzarra denominazione di zzùmparu. Altrove si chiama u scanneddu, u bbuccinu, u brigliu. Quest’ultimo termine da noi, invece, viene riferito a persona intrigante, impicciona. èssiri misu comi u bbrìgliu si dice di uno che ostinatamente cerca di guadagnare il centro dell’attenzione, dando l’impressione che senza di esso, ma molto spesso anche senza di essa, il mondo debba esaurire da un momento all’altro la sua diuturna rotazione. Un tridicinu, insomma.

Ai fini del nostro frivolo discorso non è superfluo ricordare che, quando u zzùmparu viene colpito in pieno dalla chiàmpara, salta in aria con tutta la posta, sparpagliandosi in un raggio incalcolabilmente ampio.

Ciò induce a ritenere che il nostro vocabolo possa essersi formato sul calco del termine zzumpàri, letteralmente ‘zompare, saltare’, mutandosi in sostantivo come accade per es. con ‘lasciare’ che forma ‘il lascito’, prestare → il prestito, scartariu scartitu, ittariu ìettitu, cunzulariu cùonzulu che attiene sì ad un evento luttuoso, ma che si muta di colpo in evento tragicamente comico non appena la mente corre ô cùonzulu, in quanto console referente. Come quelli che già da qualche mese, vanno a propalare in giro per l’Europa, e a breve anche per il mondo, le meraviglie del nostro paese con ritorni favolosi per la nostra economia interna. E infatti è sotto gli occhi di tutti che, nel breve volgere di qualche settimana, la nostra situazione reddituale è formidabilmente migliorata, cioè nni vutammu dû statu a nn’atru.

Dunque zzùmparu derivato da zzumpàri risulta convincente, ed in effetti in qualche paese del messinese zzumpàri ppi l’ària significa saltare in aria, proprio come fa u zzùmparu, investito dalla chiàmpara. Proprio come l’undici giugno 2017 accadde a Tumminello, che saltò in aria con tutti i suoi mali persuaduti sodali, sotto i colpi veementi delle chiàmpare scagliate dagli assatanati Democratici per Castelbuono. Ma anche dai polizzottiani, un babbiamu. Perché forse non sembrerà, anzi non sembra per niente, ma u sapi Ddìa cchi cci vosi, quanti viaggi si resero necessari, per trasbordare da Tummy a Cicero quella enormità di consensi elettorali custoditi dai polizzottiani a llùocu i ddepòsitu.

Non al cimitero, si capisce, ma in una sorta di sala del commiato. E una volta che l’oceanico consenso fuoriuscì dalla sala del commiato accomiatandosi da Tummy e riversandosi nel caveau del Cicero (col quale, Polizzotto, ma soprattutto il di lui zio, da sempre, si spartìevanu u sùonnu a notti), Tummy, solingo comi agliastru da Culìa ed vulnerabile per la mancanza di furtilizzu offertogli dalla tetragona compagine Campanell-Allegra-Polizzo-Naselliana, venne sbalzato per aria, né più né meno come accade ô zzùmparu.

Ora, nessuno di voi ci crederà, ma a Catania il sussi, ossia u zzùmparu, cioè il bersaglio contro il quale si lancia la chiàmpara, insomma, la pietra che salta in aria, va’, si chiama u tummineddu. Quindi, m’u vuliti diri con un cognome così, l’undici giugno 2017, Antòòònio, come sarebbe potuto non essere scaraventato in aria? Cicero dixit: Carus Antonius, tu un ci cridìeva, sed rebus sunt consequentia nominum.

ê chiàmpari si poteva giocare in due o in quattro, a coppie. Lanciando preliminarmente le chiàmpare verso il sussi, quella che vi si fosse avvicinata maggiormente dava inizio al gioco. Il primo a giocare, lanciando la chiàmpara rasoterra, doveva avvicinarla il più possibile ô zzùmparu.

Gli altri, man mano che tiravano, dovevano avvicinarsi ancora di più, eventualmente con un tiro che spostasse la chiàmpara dell’avversario e ciò si realizzava, di solito, con un tiro a vvùolu.

Esattamente, come nel gioco delle bocce, quando si mira al volo alla boccia del punto per scostarla dal pallino. Alla fine di ogni ciclo di tiri, la posta veniva divisa in base alla vicinanza di ogni pezzo (le monete, se si giocava a soldi) dalle singole chiàmpare o dal sussi, come si può notare dalla ricostruzione di questo gioco.

Qualora qualche pezzo fosse risultato più vicino ô zzùmparu, non sarebbe stato momentaneamente attribuito e con quella posta residua si sarebbe andati avanti con altre serie di tiri. Quando accadeva che diversi pezzi, per una sorta di transitiva continuità, risultassero più vicini al sussi, si soleva dire catina e ccatineḍḍṛa tutti dû zzùmparu che si usava anche col significato figurato di ‘tutto in cassa, il banco vince’.

 

Dal momento che le misure si prendevano con i piedi (ma pur sempre con una precisione maggiore di quanto oggi riescano a fare certi pretesi capimastri con l’ausilio del metro) o con le dita, a volte bastava che u zzùmparu si toccasse in maniera impercettibile, ma mirata, per far propria l’intera posta.

E proprio questa spiccata abilità di alcuni giocatori nel riuscire cambiare la configurazione sul campo delle piastrelle o del sussi ha fatto sì che personaggi avvezzi all’imbroglio e al raggiro fossero comunemente appellati masci di zzùmparu. Non mancherebbero di certo gli esempi, anche mirabili, di masci di zzùmparu che si potrebbero portare, ma in questa sede è decisamente più bello lasciare tutto nel vago, in modo che ciascuno di voi possa pensare a un proprio masci di zzùmparu. E magari finisce che tutti pensano allo stesso.

Poi arrivò il boom economico e con esso una serie di profondi mutamenti che interessarono il gioco. In quel periodo, infatti, si diffuse l’uso del marmo e nelle case quelle belle scale, realizzate tradizionalmente con spesse balate color antracite di ggilìerfu valatizzu bocciardate, vennero sostituite da anonime lastre di marmo color bianco ghiaccio, vagamente venato. Di conseguenza, presso i marmorari abbondavano i pizzami, frammenti di lastre di marmo di varia forma, derivanti dallo sfrido, che divennero le chiàmpare di nuova e ultima generazione perché di lì a poco il gioco passò in disuso e poi dimenticato. La velocità di queste chiàmpare non era confrontabile con quella delle vecchie patacche, grazie anche alla notevole diminuzione di attrito radente tra il marmo e le superfici perfettamente lisce delle nuove pavimentazioni di alcune strade.

Tra queste, la via sant’Anna e il Corso Umberto che, nei primissimi anni cinquanta, passarono, con i rispettivi marciapiede, dalla vetusta foggia nchiacatata a una fiammante e, per l’epoca, post moderna pavimentazione con mattonelle assai lisce di asfalto compresso.

Ph: François Barreca

In più, diversi marciapiede, come quelli della Strata longa, della Rua Fera, di via Cavour, ma non solo questi, passarono dalla secolare selciatura fatta di mazzacani ammataffati con la mazzeranga alle attuali bruttissime piastrelle rosse. Se ciò, dal punto di vista estetico, faceva e fa inorridire, dal punto di vista ludico, aumentando enormemente la velocità delle chiàmpare, rendeva ora il gioco di gran lunga più spettacolare.

Siamo negli anni ’60, le bombe sono all’idrogeno e le bionde all’ossigeno. Mary Quant a Londra inventa la minigonna, Twiggy la indossa e, in meno di niente, le prime arrivano pure da noi. Chiazza-chiazza, per la prima volta nella storia del nostro paese, si ha l’opportunità di ammirare en plein air le prime cosce, sia dritte ma, soprattutto, storte (oh munnu pìersu!, commentano al circolo Combattenti e Reduci e, ancora di più, al circolo Uomini cattolici) esaltate da tacchi che per l’epoca erano, se non proprio a spillo, quanto meno vertiginosi.

E a più di uno scavezzacollo, ce n’erano tanti anche allora, u sìenziu cci camuliava: per un certo periodo, infatti, invalse la seguente pratica. All’ora del passeggio, verso le sette di sera – in quell’epoca la piazza era brulicante di gente – non appena si avvistava qualche donzella col tacco medio–alto sgambare per piazza Margherita diretta a ppinnina, verso il corso, le si dava giusto il tempo di transitare davanti al Circolo Uomini Cattolici. Quindi, da sotto la pinnata, usciva la ragazzaglia armata di chiàmpare di marmo che lanciavano con precisione da cecchini contro u zzùmparu, costituito stavolta dall’esile tacco, e la poveretta, perso il di per sé instabile punto d’appoggio, rovinava a terra producendosi in una sonora culacchiata.

Ph: François Barreca

Quel modo deviato di usare le chiàmpare era solo una delle tante forme di vessazione praticate allora. Un balocco apparentemente innocuo era a canneddra, che nella sua essenzialità consisteva in un semplice pezzo di canna reso cavo o in un piccolo tubo di plastica soffiando energicamente nel quale era possibile lanciare corpi leggeri: pietruzze, semi, ma soprattutto proiettili di carta – i cartucci – costruiti avvolgendo delle strisce di fogli di quaderno a mo’ di coni stretti e lunghi. Il trastullo, almeno alla nascita, aveva l’innocente scopo di sfida per vedere, fra i fanciulli, chi avesse il maggiore serbatoio di aria nei polmoni e i muscoli delle guance più sviluppati, così da riuscire a trasferire al proiettile la massima energia per farlo smuntari il più possibile, producendo una considerevole gittata. Ed effettivamente in un primo momento a canneddra venne usata con questi esclusivi propositi, fino a quando la teppaglia non lo addomesticò a nuovi e più truci fini. Infatti, non appena la moda sdoganò la gonna ben al di sopra del ginocchio, con conseguente esposizione di quadricipiti e di bicipiti femorali, talvolta anche piuttosto accippati, ci fu chi pensò bene di modificare i cartucci, infilzandoli in punta con uno spillo e di cambiare anche il bersaglio della canneddra, la cui denominazione in lingua, cerbottana, era però sconosciuta ai più. Non per questo più di una ragazza, colpita alla nuda coscia dalla terribile spìngula lanciata a grande velocità, per l’acuto dolore provato, dovette strillare: “ahiiii! cu fu ca mi sparò con la cer–bbottana di so mà, bbottana”.

Cerbottana, quando è scritto unito, deriva dall’arabo ‘zarbatana’, lett. ‘stretto, angusto’ che è un rimando diretto al nostro zzarbu, ossia quel buio angolo della stalla o del sottano dove venivano ammonticchiate le olive raccolte, anche per lungo tempo, in attesa di essere trasferite ô trappitu per la frangitura. Ora fate i bravi, non cominciate a smaniare, ad aviri i pruci, perché il luogo stretto, angusto e buio dove ciascuno di voi anela precipitevolissimevolmente ad azzarbari…. alivi (crasti) non è per niente ciò in cui vi siete lasciati condurre dalla vostra galoppante immaginazione.

L’arcaica pratica d’azzarbari âlivi via via che si raccoglievano e di frangerle tutte insieme era decisamente sbagliata, e fortemente sconsigliata anche dagli agronomi ottocenteschi perché le olive frante in avanzato stato di fermentazione, finivano col produrre un olio acre che tagliava la gola. Ma allora, per queste come per altre cose, non si andava tanto per il sottile e del retrogusto dell’olio, così come del suo grado di acidità e di denominazioni di origine più o meno controllate o protette, alla gente, perennemente impegnata a riempire la pancia, non gliene poteva fregare di meno. Inchi la panza e glinchilê spini, si diceva in quei tempi di pitittu ccû scrùozzu, invitando a badare alla quantità del cibo piuttosto che alla qualità. In quest’ottica, non era infrequente che spesso, per risparmiare, si comprasse l’olio dell’anno precedente o dell’anno prima, che se aveva perso un po’ di freschezza almeno aveva guadagnato in consistenza, risultando ben corroborato. Non era un dramma, insomma. Come quando, invece, si acquistava – sempre per mero fine di sparagno – quello assurciatu, vale a dire l’olio nel quale era precipitato qualche malcapitato sorcio di cui erano frequentatissimi tutti i siti destinati al deposito di derrate e non solo. Altri tempi, per fortuna.

Una applicazione, diciamo così, idrica della canneddra si realizzava ê canaleddra, alla Strata longa, in quello che è uno degli angoli più belli e meno valorizzati dell’intero paese.

Quando nel 1905 vi fu montata la fontanella in stile liberty, non si saprà mai se fu fatto di proposito, la direzione scelta per gli sgorghi d’acqua fu tale da risultare praticamente in asse con la porta a vetri della sartoria di Pietro Di Garbo, per tutti â strata longa, don Pitrinu u viddranu, persona mitissima e paciosa che nessuno ebbe il privilegio di vedere mai alterato. Insomma, una persona assolutamente fuori contesto nella torrida scena pubblica odierna. La ragazzaglia, approfittando della bontà d’animo del sarto, ogni tanto, cercando di farlo inalberare, ma sempre con scarsissimi risultati, appuzzàti nel cannello a monte, soffiavano con tutta l’aria che avevano dentro, rimanendo in apnea per un tempo da fare impressione, dirottavano incalcolabili quantità di acqua dentro la bottega del povero don Pitrinu, al quale non restava che uscire da dietro il bancone per asciugare il tutto senza profferire parola. Al massimo solo un laconico: “Eh!… a carusina…”. L’utilizzo bizzarro dell’acqua di quella fontanella si protrasse a lungo, anche quando don Pitrinu ormai da tempo era passato al mondo dei più.

Anche allora, al crepuscolo degli anni ’80, non era raro vedere dei ragazzini che si allacàvanu con le stesse modalità. In particolare, ricordo una coppia ben assortita di fanciulli: uno dei due, non so con quali argomentazioni, faceva piazzare l’altro in direzione del getto d’acqua, poi gli diceva: aspetta ddrùocu. Quell’altro si metteva in posa, immobile, quasi pietrificato, che – come si diceva allora – si passava l’àncilu arristava accussì. Il primo, allora, guadagnato il retro della fontanella, soffiava furiosamente svuotando di botto i polmoni e allagando da capo a piedi il poveretto che era rimasto lì ad aspettare non si è mai capito bene cosa. Sicuramente deve essere stata questa proficua pratica quotidiana a sviluppare il volume dei polmoni e della cavità orale del nostro briccone, tanto da farne, molti anni dopo, un indiscusso talento del sassofono.

La battuta della cer-bottana, com’è noto, fa parte di un esilarante sketch dei Cavernicoli. La ripropongo in un contesto completamente diverso, a mo’ di citazione, in ricordo dell’autore, l’amico Nico Marino.

Il video del gioco dî chiàmpari, girato a Castelbuono il 19 ottobre 1997, di proprietà dell’Archivio dell’Atlante Linguistico della Sicilia, viene pubblicato per la cortese concessione del Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani che qui ringrazio.

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