Il ‘muro rutto’, Ncap’u ponti e la forgia di Bburrittinu

Il ‘muro rutto’, Ncap’u ponti e la forgia di Bburrittinu
#iostocomemipare
Viaggio a ritroso nel tempo nel paese come dovette essere

Transitando per le strade, nel più desolato squallore, non si può non provare a immaginare come dovette essere il paese durante il coprifuoco del 1943 e, prima ancora, allorché imperversava l’epidemia spagnola. L’avvincente percorso a ritroso ti conduce immediatamente al coprifuoco del 1893, durante la repressione dei fasci siciliani, e, quindi, al colera del 1867. In quel periodo, nella fase parossistica dell’epidemia, dovette circolare ancora meno gente di oggi, se ogni volta che per un qualche motivo non si vede anima viva in giro, si suole dire: e cchi cc’è u qualera? Se poi continui ad avvolgere il nastro del tempo, arrivi, parafrasando la bellissima canzone di Robbie Robertson, The night they drove old dixie down, alla notte che uccisero il vecchio sindaco Calascibetta, 22 febbraio 1848.

Nel tuo fugace transito, giungi Ncap’u ponti, allora ti fermi di scatto e dici: ma nel 1848 cosa c’era Ncap’u ponti? Che domande!, c’era ancora ….u ponti, il ponte in legno che permetteva di superare il fiume che si sviluppava sul tracciato della strata-longa e sbuttava proprio in corrispondenza di Emilio, il quale – sfacignu, allora come oggi – manco si prese la briga di immortalare quel ponte e quel fiume brontolante, lo sciagurato!

E dunque alla strata-longa c’era un fiume e non c’erano i marciapiedi e neppure gli oleandri e non c’era neanche il problema – anzi la camurrìa – di doverli potare, e i bottegai non gracchiavano reclamando il taglio rasoterra degli alberi perché gli facevano ombra all’interno delle botteghe. Anzi, in quel luogo e in quel periodo, a ben pensare, non c’erano neanche i bottegai e le botteghe. Sembrerà strano, ma ci fu un tempo in cui â strata-longa non c’era neanche Paparuni. E prima ancora non c’era la via Garibaldi, non solo perché Garibaldi non era ancora nato, ma perché non c’era neppure l’intero quartiere a monte del fiume. C’era, invece, alla piazzetta, un altro ponte che connettendo la parte est con la parte ovest del paese, permetteva di passare dal quartiere sant’Antonino al quartiere Fera, attraverso l’attuale via Cavour – un vialone che traversava il giardino dei Cerasi – e la via Mario Levante, lambendo u Cappilluni, che allora non era in perfetta solitudine ma in compagnia di un altro più piccolo e quasi adiacente a esso: la cappella di Vincilao, successivamente demolita.

Il paese, vale a dire dove oggi poggiamo i piedi, era insomma un saliscendi di timpe e di lavanche. Come quella che dâ stratê sant’Anna ti catapultava verso l’imbocco del corso, lungo una discesa vertiginosa che a percorrerla certamente faceva venire a bbasca. Nella cartina in basso, il profilo altimetrico mette bene in risalto quanto fosse accidentato allora il raccordo fra la via sant’Anna e a chiazza nnintra. Al netto di tutto, fra la parte più bassa della piazza e il Municipio vi erano quasi sette metri di dislivello, in confronto ai quali sembrerebbero addirittura risibili i due metri di dislivello esistenti fra il Municipio e l’arco sant’Anna.

Lungo il prospetto est del carcere sono assolutamente evidenti, ancora oggi, le quote dei piani di calpestio che la parte più a valle della stratê sant’Anna dovette avere un tempo. Emblematica, a tal proposito, è la quota della vecchia porta che si può osservare esattamente sopra l’attuale. Inoltre, osservando le marcature segnate in nero, sulle due foto in basso, nel prospetto est dell’ex carcere, ci si convince che il raccordo tra a stratê sant’Anna e la chiazza nnintra avvenisse grazie a una scalinata, successivamente eliminata, probabilmente durante i lavori di ottimizzazione, ai quali la cartina precedente – datata 1872 – si riferisce.

Andando ancora indietro nel tempo, di questo paese, ti rimane a stento quel crocchio di casupole a piano terra, umide e malsane, che si estendeva, press’a poco, dalla chiesa dell’Itria al Vicolo del Rilievo, nella striscia compresa fra il corso e la Rua Fera, che poi, se ci pensi, è l’unica zona del centro storico dove le vie sono curve e non dritte, rafforzando così l’idea che possa essere proprio quello il nucleo primigenio del paese. Insomma, si arriva a Sichro, i cui confini sono stati ipoteticamente fissati da Orazio Cancila nel suo lavoro ‘Castelbuono medievale e i Ventimiglia’.

A partire da lì, da quel fazzoletto di terra e di case, in virtù del grande incremento demografico, sostanzialmente monotòno crescente fino agli anni Cinquanta del Novecento, è cominciata la grande edificazione del paese: case – e con esse piazze – e strade. Ma anche abbattimenti e ricostruzioni.

Le vie e le piazze, al pari dei luoghi, delle contrade, degli abbeveratoi, dei giardini, per esigenze di comunicazione orale ma anche scritta, come gli atti notarili, ebbero un nome, che ab origine fu quello nato con la naturalezza propria delle convenzioni popolari. Fu così che u canali i santu Vitu prese il nome dalla chiesa ubicata nella stradina che correva a rotta di collo verso il fiume e verso i viridari di gelsi, abbondantemente coltivati allora per l’attività serica che si svolgeva nella vicina industria del mangano, segno che una piccola via della seta passava anche da qui. Segno che già allora il Mondo… Beh!, lasciamo perdere, ché c’è poco da ridere.

Allo stesso modo, nel lessico locale, a strata ranni non poteva che indicare una strada che – pur non essendo il Boulevard Saint Michel – si distinguesse dagli altri budelli viari del paese.

E ancora, uno slargo con al suo centro un pozzo per l’attingimento comune di acque per uso domestico, penetrò nel parlato come u chianû puzzu. La distruzione del pozzo, ordinata certamente da qualche avo di chi oggi preconizza teatrali abbattimenti, risale certamente alla seconda metà dell’Ottocento, dato che nello stralcio della mappa in basso, datata 1843, il pozzo Vitrera è contrassegnato con il numero 28.

Per i più curiosi, va detto che il punto 22 corrisponde al giardino compreso fra via Mariano Raimondi e sant’Antonino, il 24 a quello compreso fra la piazzetta corso Vittorio Emanuele, via del Paradiso e via Mariano Raimondi, il 25 al giardino situato a monte di via Paradiso. Il 27 è il ‘fonte san Leonardo’, non ancora nella forma odierna. I tre giardini, in origine, erano parte del grande giardino del Paradiso, all’interno del quale era la chiesetta rurale di san Leonardo.

In generale, anche per le contrade le cose sono andate allo stesso modo, per cui la denominazione don-Attàviu, sotto i Pedagni, si deve al fatto che lì si trovassero alcuni poderi di proprietà del giudice don Ottavio Abruzzo (1556-1606) e Turriggìliu, adiacente a Sant’Anastasia, non ha niente a che vedere con nessuna Torre (di) Egidio, come è stato rozzamente indicato, ma piuttosto con una famiglia Terrigilio presente in paese già dal 1596, proprietaria di quel feudo.

Ma ritorniamo pure alle strade e alla loro denominazione popolare. La prima ad avere un nome degno di nota è la cosiddetta Strata dell’inchiancato che, tradotta alla lettera, significa ‘strada del selciato’ o, forse meglio, ‘strada dei conci battuti’. Nel siciliano antico, infatti, chianca significa ceppo, ma anche base in legno. Nchiancari ha perciò il significato di battere il selciato con la mazzeranga per assestare le pietre, e non come è pratica diffusa presso certi pretesi chiacatari di oggi, di tenere saldi i conci per mezzo di colate di cemento. In questo basso modo di procedere c’è tutta l’enorme differenza fra la maestria di un tempo (e ccu pàa masci un pàa mastrìa) e la manovalanza. Al di là di queste sconsolate considerazioni, nella Strata dell’inchiancato (che dal nome appare come l’unica ad avere quelle caratteristiche), sia per i nuclei familiari che vi risiedevano che per le putìe commerciali e artigiane che vi si trovavano, con ogni probabilità vi si deve riconoscere l’attuale Corso Umberto.

Si deve notare, incidentalmente, che fino al tardo Settecento le strade, solitamente, venivano inchiancate solo nella parte centrale per favorire il transito dei carri e che la selciatura delle parti di strada antistanti le porte d’ingresso delle case non era di pertinenza della Comune ma un vero e proprio optional, quindi a completo carico del proprietario dell’immobile. Un po’ come certi proprietari di oggi adusi a circoscrivere con piante, vasi e ammennicoli vari l’area pubblica antistante la propria abitazione.

Dopo l’inchiancato, le prime strade ad avere assunto una denominazione popolare, già nel Cinquecento, furono la Ruga nova e la Ruga del muro rutto.

La Ruga nova o Strata nova costituisce una denominazione agile per indicare, anche per un tempo indeterminato, una strada di recente costruzione. Alla fine del Cinquecento, per esempio, venne riferita all’attuale via Cavour, che all’epoca si andava costruendo, e che in alcuni atti risulta registrata come Strada delle pergole nel giardino dei Cerasi.

Il giardino dei Cerasi, ricco non solo di pergolati ma di ogni ben di Dio, per dare un’idea, si può pensare ricadente nella vasta zona delimitata dal quartiere Mangano, dalla strata-longa, da via Garibaldi, fino ai Cappuccini. Una volta urbanizzato, a partire proprio da quella strada, il giardino dei Cerasi, avrebbe dato il nome al nuovo quartiere.

Nel primo dopoguerra e fino ad oggi, penso per tutti, la Strata nova è passata, invece, a indicare la via Principe Umberto che fu costruita attorno al 1925, nel grande e articolato programma di bonifica del torrente che scendeva dalla strata-longa.

Dopo che alla fine dell’Ottocento fu eliminato il ponte e lo sbocco del torrente venne avanzato verso valle, fino al limitare degli orti, poco oltre la piazza, negli anni ’20 si completò la bonifica della zona, venne abbattuta la casa Palumbo, che chiudeva la piazza in basso a sinistra e demolito l’abbeveratoio attaccato al prospetto di essa. Tutti i castelbuonesi gioirono per questa miglioria, diuturna fonte di aria malsana, ma più di tutti gioì il fabbro Bburrittinu che lavorando in una putìa posta ad angolo con l’abbeveratoio, era condannato, ad ogni acquazzone che gli inondava la forgia, a doverla prosciugare. La piazza del ponte venne colmata in tutte le sue diverse depressioni e, nella sua parte più bassa, rispetto alla vecchia quota, venne sollevata di almeno un metro.

La forgia di Bburrittinu e tutti gli altri corpi terrani che corrono lungo quel lato della piazza rimasero soffocati e parzialmente sommersi da questo innalzamento e le finestrelle che ancora oggi si vedono a livello del marciapiede, non sono altro che la parte emersa delle vecchie porte d’entrata. Anche i balconcini, successivamente ridotti in larghezza, che tutti abbiamo sfiorato con la testa e qualcuno certamente vi ha anche colliso, in origine si trovavano ad una quota fuori dalla portata di qualche testa e di diverse zucche che ordinariamente vi transitano. Infine, nel 1925, il letto del torrente fu coperto fino al punto in cui interseca lo stradone per Geraci, tracciato attorno agli anni ’50 dell’Ottocento.

La Ruga del muro rutto, rintracciabile anch’essa in atti del Cinquecento, si trovava invece nei pressi della Chiazza nnintra e qui non è inutile specificare che allora con la denominazione di ‘Piazza dintro’ si intendeva anche, e forse soprattutto, la via sant’Anna. Muro rutto significa sostanzialmente apertura ricavata in un muro, quindi strada che fu aperta abbattendo una casa. Un tale modo di dire è vivo ancora oggi perché quando noi parliamo dâ vaniddruzza rrutta, cioè della traversina che collega la via Cavour con la via Belvedere, ci riferiamo a una connessione interviaria ottenuta abbattendo due case, una prospettante sulla stratê Pùrpuri e l’altra ô Bbeddri-vidiri.

La Ruga del muro rutto, ipotizzano gli storici che si sono misurati con i documenti dell’epoca, potrebbe essere rintracciata nella stradina che, correndo dietro la Chiazza nnintra mette in comunicazione la via Alduino Ventimiglia con la Rrua Fera.

Se la Ruga del muro rutto è l’ultimo tratto di Via Alduino Ventimiglia, ci sono elementi iconografici sufficienti per asserire che il muro rutto potrebbe essere stato abbattuto per creare un collegamento fra la via Alduino Ventimiglia e la via sant’Anna, che correva dietro l’ex carcere.

I segni dello sbocco sono quanto mai visibili in corrispondenza del tratto di muro adiacente all’ex carcere, sotto il terrazzino di casa Guzzio-Petagna, oggi Castrovinci. Se da via Alduino Ventimiglia si osserva nella medesima direzione, si può notare un varco che si inoltra fra il retro del palazzotto Raimondi, l’ex carcere e casa Castrovinci, lambendo un edificio a pianta ottagonale che, incastonato com’è oggi fra quegli edifici, sembra non avere alcun senso.

Una lettura plausibile è che l’edificio ottagonale sia la chiesa di santa Margherita, di cui parla diffusamente Orazio Cancila nel suo ‘Nascita di una città’, e che gli archi in mattoni siano i resti dell’abside della stessa chiesa.

In buona sostanza, si tratterebbe di uno schema architettonico identico a quello riscontrabile nella chiesa del Monte, come si vede nell’immagine in basso. Anche l’abside della chiesa di santa Margerita, al pari di quello della chiesa del Monte, per scavalcare la strada, potrebbe essere stato costruito sopra due archi al di sotto dei quali correva il vicolo che connetteva la via Alduino Ventimiglia con la via sant’Anna, sboccando sotto il terrazzino di casa Castrovinci, che – beninteso – potrebbe essere stato costruito a seguito della chiusura del sottopasso, per colmare la differenza di sporgenza su via sant’Anna di casa Guzzio-Petagna rispetto all’ex carcere.

Non so che cosa sia stato trovato scavando, durante le opere di rinnovamento degli edifici, soprattutto nel secolo scorso, nei luoghi dove sorgeva Sichro. Immagino lontanamente, perché qualcosa ho visto, sorvolando sulle leggende relative alla galleria, cosa possa nascondersi nel sottosuolo o incastonato fra le costruzioni che corrono lungo la stratê sant’Anna che, ricordiamolo, è un terrapieno, ma mi piace accarezzare l’idea che gli elementi più significativi della storia urbanistica di Castelbuono giacciano sottoterra e, di quando in quando, il caso ci faccia dono di qualcuno di questi preziosi reperti facendolo in qualche modo riaffiorare.

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