La banda (armata), a strùmmula e… u strummuluni. Gira, furrìa e….. voti (picca)

Certo, i giochi d’acqua alla Strata longa erano roba da collegiali rispetto alle chiàmpare contro i tacchi delle scarpe delle ragazze e agli spilli lanciati con la cerbottana che, a loro volta, facevano tenerezza al confronto con le cosiddette bande che, nate non si sa bene quando, imperversarono per lungo tempo, per estinguersi, con grande sollievo dell’intero paese, con la fine degli anni ’60.

A dire il vero, annoverare le bande fra i giochi è una forzatura bella e buona, visto che si trattava di vere e proprie pratiche tribali finalizzate alla delimitazione del territorio. Il segnale d’attacco era scandito dall’imperativo iàmucci a fari a bbanda. Partivano a squadre dai Cappuccini o dai Benedettini o dalla Vetriera o dû Rrusàriu e con la controparte ci si dava appuntamento in un prefissato luogo, anche all’interno del paese. I loro esercizi, non esattamente da ristoro dello spirito, consistevano nell’affrontarsi a puntalati, lanciando sassi a mano libera o con la fionda o, cosa ancor più terrificante, tenendo conto delle conseguenze, scoccando frecce, ricavate dalle stecche dei parapioggia, attraverso gli archi fatti con spago e rami flessibili. Diciamo pure delinquenti, volendo usare un eufemismo.

Oscar Wilde osservò che le partite di rugby sono “una occasione per tenere trenta energumeni lontani dal centro della città”. La stessa cosa, a maggiore ragione, potevano sostenere gli abitanti dei quartieri di provenienza di queste bande ma non esattamente quelli della zona dove si sarebbe tenuto lo scontro. E una volta – deve essere stato il 1967 – in piena Summer of love & LSD, due bande si fronteggiarono ô chianâ matrici. Pietre, che sembravano lanciate con le catapulte, partivano dalla parte della scalinata incrociando le altre che vi arrivavano scagliate con pari violenza dalla parte opposta. Io, bimbo di età non ancora in doppia cifra, dalla salita al monumento mi appalesai ncialò ncialò sul campo di battaglia, dirigendomi verso il forno di Michilinu. Scorsi quei ghirigori litici nell’aria, ma fra me e me dissi, con aria di sufficienza, propria di chi è in grado di dominare tutte le variabili in gioco: “Vabbè, è altamente improbabile che mi prendano”. Confortato dalle mie certezze balistiche andai, non esitai, azzardai, attraversai, ahi!, gramai, cascai, sanguinai, non santiài. Mi pare di no. Una pietra mi colpì, mi mircàu, all’arcata sopraccigliare mancandomi la parte più fragile della tempia, u sùonnu, per due centimetri. La maldestra mira del tale che scagliò quella pietra, per due soli centimetri, vanificò quello che anni dopo sarebbe stato il sogno di molti. Lo so, si perse un’occasione storica ma io, credetemi, ce la misi tutta per esaudire a priori quelli che sarebbero stati i futuri desiderata di alcuni miei diletti amichetti.

Il forno di Michilinu, allora era una autentica istituzione in paese, se non altro per la figura… càvira del titolare, a prescindere dalle stagioni e dalla quantità di calore diffusa dai refrattari materiali di quell’ambiente. Ciò era noto a tutti, ma certi giovincelli fra i più impertinenti della zona, talvolta, si divertivano a far diventare il titolare ancora più torrido: Don Michè, mi duna du chilê pani? Niente di male, si capisce, se non che, la canaglia, corredava l’innocente richiesta con la contemporanea agitazione dell’indice e del mignolo, la qual cosa avrebbe fatto imbestialire chiunque e quindi, a più forte ragione, don Michilinu che di suo teneva um pilu, e forse anche meno.

Il pane di Michilinu era eccellente: profumo che inebriava, scòrcia croccante e middricuni soffice, ma allora si diceva sfùncitu. Se poi era stato appena sfornato, era pratica comune farne fuori quasi mezzo chilo nel breve tragitto che separava il forno da casa, lasciando impietrito il passante che si trovava ad osservare, il quale riusciva a dire a stento: e ccomi si, sfunnatu? Ma la vera specialità della casa erano i biscotti ad S, quelli coi semi di anice, u cìmulu duci, che si usavano per lo svezzamento dei neonati e che i grandi, non tanto per svezzamento quanto per avvezzamento, prediligevano ammugliati nnô vinu.

Ora, poiché era noto a tutti nel circondario quanto fosse basso il selfcontrol di Michilinu, qualche ribaldo, anche in maniera diabolica, si divertiva a inquietar il can che dorme pur sapendo di correre il serio rischio di farsi subbuliari. La canagliata non durò a lungo, perché il nostro fornaio si sarebbe insospettito, e magari si insospettì pure, e, contro la sua indole, obtorto collo, dovette fare lo gnorri per non guastare rapporti di buon vicinato e di clientela. Ci fu, infatti, un periodo nel corso del quale non appena nel pomeriggio ô chianâ matrici si diffondeva nell’aria l’odore dei biscotti sfornati, sistematicamente, arrivavano al forno due fanciulli e, nello stesso tempo, una telefonata.

  • Aspè, ca prima arrispunni ô talèfoni. Pròontu

Dall’altro capo del filo:

  • Don Miché, nn’avi viscotta?
  • Se, or-ora i sfurnai. Càviri-càviri su!
  • Eh!, s’i po manciari tutti vossìa!

 

E il povero don Michilinu, facendosi in viso rosso come il nero d’Avola, snocciolava un repertorio di improperi ad ampio spettro e di inusuale ascolto, dando a intendere che, se avesse avuto fra le mani quel figliu di….rruminata, come minimo se lo sarebbe manciatu ppi pani. Intanto i due manigoldi che si godevano la scena, ovviamente d’accordo con chi aveva telefonato, se la ridevano sotto sotto e, con una scusa, tagliavano la corda per andare a sganasciarsi dalle risate appena dietro l’angolo.

Quando, durante la storica nevicata del gennaio 1981, per la mancata erogazione di energia elettrica, fra le altre cose, scarseggiò anche il pane, noi del Gruppo 2001, di cui allora faceva parte anche Pasqualino, figlio di don Michilinu, un paio di settimane dopo, in occasione del carnevale, sulle note della canzone lo shampoo di Giorgio Gaber, narrammo a modo nostro le difficoltà di quei giorni a panificare, svelando come don Michilinu fosse riuscito a ovviare al problematico inconveniente:

 

Cc’è na curê chistiani

nnê furna un c’è pani

ma o chianâ matrici

Michilinu u furnaru

senza tanti problemi:

u cucìeva a forza i bbestemii

 

Ma il gioco che più pervadeva, che entrava dentro e si impossessava dei bimbi e dei ragazzi, ma anche dei grandi di allora – esattamente come accade oggi con i videogames – era a strùmmula. Ogni frangente utile era ritenuto propizio per fare un lancio con la strùmmula. Un po’ come succede nell’epoca corrente con le frequenti e fugaci capatine su fb e su wzp di cui non si può più fare a meno, neppure mentre si guida o anche in circostanze di massima intimità quando, a rigor di termini, si dovrebbe essere in ben altre faccende affaccendati.

Una epidemia, quella degli smartphone, che non risparmia nessuno. Di recente, è capitato di scorgere un ex amministratore di lungo corso, in mano al quale sembrerebbe avveniristica anche la macchina da scrivere, immerso nel paradisiaco inferno automobilistico del tratto di strada compreso fra i due distributori di carburante, intento a spolliciare, sullo smart, al volante di una Smart, mentre cercava di farsi largo fra le automobili. In altri tempi si sarebbe detto: â facci dî miricani ca purtari u DDT.

Ma ormai è così e basta, perché lo smart è un mito. Miti d’oggi, li definì Roland Barthes. E siccome l’oggi di Barthes non è sincronico ma riferibile a qualunque periodo storico, anche a strùmmula fu un mito per un oggi di oltre un secolo fa.

La trottola fu un chiodo fisso e ogni fanciullo, e non solo, a testa l’avìeva sempri ddrà, una ludopatia, sia pure dagli effetti non devastanti come quelli derivanti da dipendenze da videopoker, da grattaevinci, slotmachines o altre amenità del genere ma costituiva pur sempre una forma di dipendenza e, per esempio, anche a scuola si avvertiva il bisogno di fare due tiri. Attenzione, niente a che vedere con altri tipi di tiri fatti di canne al vento (che, come si sa, non sono i canni di stènniri i robbi) e via andare. Innocenti tiri con la trottola fatti in assenza del maestro o, durante la lezione, l’armeggiare sotto il banco con il balocco. Ehi!, non distraetevi! Guardate che il tema è ancora la trottola, non stiamo parlando di quello che state pensando voi in questo momento.

Durante questi tracchiggi, sistematicamente accadeva che, nel solenne silenzio delle lezioni di allora, per qualche strano scherzo della fisica, la trottola sgusciava dalla mano e ballonzolando col suo trot-ttot-tot sul pavimento attirava l’attenzione del maestro che, facendosi in viso buio come un temporale e aggrottato come una maschera di cartapesta, si avvicinava al povero ragazzino e, sequestratogli il balocco, lo metteva ginocchioni, non senza avergli fiondato due bacchettate sulle nude cosce che, specialmente d’inverno, avevano lo stesso effetto di una rasoiata.

La trottola, si capisce, finiva nell’armadio del maestro che traboccava di tutte le altre che nei giorni precedenti avevano fatto la stessa fine. La visione di un’analoga costipazione si poteva godere, allora, solo all’interno del Corpo di guardia, stracolmo di palloni da calcio sequestrati ai tanti ragazzini che giocavano in tutti gli slarghi del paese. Altri tempi, altri vigili, altra solerzia. Non andava bene quell’eccesso di zelo, non va per niente bene l’inerzia di quiete che si riscontra oggi.

Il ricordo del sequestro di palloni da calcio in tutto il territorio comunale, operato dal capo dei vigili urbani in persona e dal suo attendente, si connette immediatamente alla indimenticabile figura di màsciu Pietru, sagrestano della Matrice nuova, il quale non appena sentiva scrùsciu di ragazzaglia che, dalle parti del sagrato, si stava organizzando in squadre, concedeva loro il tempo di dare quattro pedate al pallone, giusto perché si creasse quella foga agonistica che distrae, dopo di che, con una destrezza da lasciare annichiliti, piombava sul pallone con la rapidità del falco, lo faceva suo e, sguainato il tipico coltello da campagna col manico di rame, lo trafiggeva con la stessa perizia e rapidità con cui un pecoraio recide l’articolazione occipite-atlantoidea di un agnello durante la macellazione. Certo, l’intervento di màsciu Pietru sarebbe stato meno spettacolare se alla Matrice nuova, anziché al pallone, si fosse giocato â strùmmula.

Il gioco della trottola era diffusissimo al punto che una nota famiglia Ippolito si specializzò nella produzione di quel giocattolo e, di conseguenza, ai suoi componenti venne apposto l’ovvio soprannome di strummulara. Mastro Giovanni (di cui si è detto nella puntata del 25 novembre 2013) teneva bottega nella strada longa, vera e propria area artigianale del paese nel periodo a cavallo fra Otto e Novecento. Non è documentato ma si può desumere che, in illo tempore, l’assegnazione di quei lotti non deve essere stata accompagnata dagli stessi rampognosi diverbi che un secolo dopo avrebbero fatto da leit motiv all’assegnazione di altri lotti in altre aree, allora orticole, adiacenti a quella augusta meraviglia del lontano passato di Castelbuono che fu il Giardino grande dei Ventimiglia.

Il macchinario necessario per la produzione delle trottole era uno spartano tornio d’aria che, azionato tramite un pedale, faceva ruotare un blocchetto di legno fissato ad un asse, al fine di poterlo sagomare per mezzo di sgorbie e bulini.

Le trottole si producevano tunni oppure a ppiru a seconda se la loro forma era perfettamente sferica o ricordava, invece, quella di una pera capovolta. In entrambi i casi erano dotate di un piccolo e sottile asse di ferro, aguzzo in punta, detto caddrùozzu (sulla cui etimologia, qallus, di origine araba, è meglio sorvolare perché possiate continuare a gustare la salsiccia con lo stesso piacere di sempre). E’ proprio il chiodo, o caddrùozzu che dir si voglia, che ne permetteva la rotazione, grazie all’impulso trasferitole dalla lazzata, la funicella preventivamente aggomitolata su di essa.

E l’immagine dello sferoide che sfrecciava avvolto nnô rrumanìeddru, ha suggerito non solo lo scherzoso appellativo di bbaddra allazzata riferito alla trottola, ma anche la significativa similitudine, usata in ambito venatorio, di cùrriri comi na bbaddra allazzata, riferita al coniglio che sfreccia davanti al caccia­tore cercando riparo fra cespugli e anfratti. E, proprio poco tempo fa, ncap’u ponti, altro tipo di coniglio (addirittura più pavido) fu visto sfrecciare proprio comi na bbaddra allazzata davanti a ben altro tipo di cacciatore, anch’esso armato di mali ntenzioni, cercando lì, nei pressi, a ppinnina, altro tipo di riparo, di custodia, di sicurezza. Quasi di massima sicurezza.

La destrezza di chi la lanciava risiedeva, ovviamente, nel riuscire a fare girare la trottola il più a lungo possibile. Durante questo lasso di tempo, la trottola, ruotando a grande velocità, produceva un caratteristico sommesso ronzio, u lapuni, proprio perché del tutto simile al ronzio del calabrone in volo, e riusciva ad apparire ferma, esattamente come qualunque oggetto che ruoti con frequenza elevata. La trottola che non finiva più di girare destava grande meraviglia fra gli astanti i quali non mancavano di commentare: talé, s’addurmiscìu a strùmmula. Questo lancio prodigioso era possibile solo con una strùmmula zzassa vale a dire eccellente, ben equilibrata e, soprattutto, con la punta affilatissima.

Il problema era, appunto, che a forza di furriari comi na strùmmula, sui selciati di allora, non proprio assimilabili al piano del bigliardo, la punta dû caddrùozzu perdeva l’affilatura, si irruvidiva e la trottola diventava bbuzza, cominciava a saltellare goffamente, a girare in maniera imperfetta e per un tempo breve. Una strùmmula bbuzza, una volta lanciata, infatti, era destinata a spegnersi immediatamente, a fari menzu ggiru, così come, nel corso dell’ultima tornata elettorale, è successo a chi fece a partenza di Masu Addrina per fermarsi quasi subito. Non è riferito a nessuno in particolare, ovviamente. Ma Andiamo Oltre. Dicevamo che l’aggettivo bbuzzu, letteralmente non sbozzato, è qualunque cosa non rifinita, rozza; così come bbuzzu si dice di un tipo grossolano nei modi, di un villanzone, di uno zotico, insomma. E’ fuori discussione che non mancherebbero gli esempi, anche mirabili, di personaggi appartenenti a simili tipologie antropiche ma non c’è tempo, andiamo di fretta e c’è d’ammulari u caddrùozzu, che non significa quello che state pensando voi, maniata di depravati, ma rifargli la punta, strofinandolo sulla pietra del selciato. Per questo rituale si sarebbero potute scegliere comodamente le belle e larghe balate della strata longa o quelle della chiazza, entrambe di pietra arenaria, quindi di consistenza vitrigna e certamente più adatta allo scopo.

Invece, chissà perché, si preferivano i marmi delle colonne del chiostro di san Francesco e quelli del portale della Matrice vecchia, dove i solchi profondi lasciati dal chiodo sono ancora più che visibili.

Sembrerà paradossale ma, nonostante la grande diffusione, ci sono pervenuti solo pochissimi esempi di giochi che si facevano con la strùmmula. Si sa che era un gioco di destrezza, che bisognava riuscire a farla girare il più possibile, che bisognava lanciarla per colpire al volo la trottola dell’avversario che già girava, per astutalla, cioè farla cessare di girare e mantenere la propria in rotazione, che chi perdeva, come penalità, doveva sottoporre la propria trottola ai colpi inferti dal vincitore con il chiodo della propria e che, durante questi caddruzzati, la trottola soccombente molte volte finiva con lo spaccarsi. Talvolta, dovendo esporre la propria trottola ai colpi del vincitore, si utilizzava una strùmmula di riserva, detta u strummuluni, perché più grande delle ordinarie. Ma, usato in senso figurato, strummuluni sta a indicare un tipo corpulento, impacciato e goffo nei movimenti. Ora non ci vuole grande immaginazione per creare una correlazione tra u strummuluni esibito da chi perdeva per esporlo ê caddruzzati del vincitore e l’altro strummuluni, Antonio Tumminello, con le altrettanto terribili caddruzzati che gli furono inferte ccu tutt’u cori dai suoi innumerevoli sfans all’indomani della ormai storica disfatta.

Si sono persi, invece, nel limaccioso fiume del tempo i diversi altri giochi di abilità fatti con la trottola, le modalità con cui si facevano, le partite a denari e altro ancora. Eppure, in un lontano passato, dovettero essere diffusi anche da noi, così come lo sono ancora oggi in diversi paesi siciliani. Peccato perché, guardando questi giochi fatti con la trottola ci si rende conto di tutta la loro spettacolarità e della grande abilità manuale che richiedevano.

Diversamente dai giochi fatti col nostro giocattolo, sono alquanto vivi taluni modi dire relativi alla trottola, coniati ad arte come analogie o similitudini. Tanto per gradire, strùmmula si dice a un bimbo che continua a cadere per terra, perché non ha acquisito bene la stabilità nello stare in piedi. Di conseguenza, il barcollare ma anche lo ruzzolare è detto strummuliari. L’arcinota similitudine comi na strùmmula, ben descrive diverse situazioni. per esempio, fari furriari comi na strùmmula significa ‘far girare qualcuno a proprio piacimento’; ccu na argiata u facissi furriari comi na ṣṭṛùmmula, ‘con un ceffone lo farei girare più volte su se stesso’, frase alquanto energica e d’impatto che persone ben informate hanno assicurato essere il proposito principe che ultimamente assale sempre più frequentemente (forse più delle innumerevoli farfalle sullo stomaco) l’attuale sindaco nei riguardi del past sindaco a proposito di certi esposti, eremi, invasi, fiumi, captazioni, acque, Gonato, in relazione alle quali cose Tummy è sembrato più che mai pigliatu dâ Botta. Con tutte le allusioni che ognuno di voi vi vorrà cogliere. Ma, a proposito del furriari non possiamo concludere questo itinerario ludico-linguistico e primieramente scanzonato, senza ripercorrere la vorticosa serie di giri, esattamente comi na strùmmula, effettuata nelle ultime elezioni amministrative, da una inquieta e trottolante compagine che, nel corso delle proprie entusiasmanti circonvoluzioni, ha roteato ondivaga senza possibilità alcuna di attracco, venendo respinta verso altre mete e poi ancora altre, fino a quando, finalmente, infine, il mar fu sopra lor richiuso.

I video sul gioco dâ strùmmula, girati a Calamonaci e a Castelbuono, di proprietà dell’Archivio dell’Atlante Linguistico della Sicilia, vengono pubblicati per la cortese concessione del Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani che qui ringrazio.

Iscriviti per seguire i commenti
Notificami

0 Commenti
Inline Feedbacks
View all comments
0
Cosa ne pensi? Commenta!x