L’audizione di Gioacchino Genchi al processo per l’omicidio Agostino

PROCESSO AGOSTINO, GENCHI: “ACCERTAI CHE IL TELEFONO DI SCOTTO CHIAMAVA CASTELLO UTVEGGIO”

Gaetano Scotto, boss dell’Acquasanta, imputato per l’omicidio del poliziotto Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio, avrebbe chiamato, nei mesi precedenti alla strage di via d’Amelio, al telefono di Castello Utveggio, da dove un tempo si ipotizzava fosse stato premuto il telecomando che azionò l’autobomba che uccise Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta il 19 luglio 1992. A sostenerlo è Gioacchino Genchi, oggi avvocato, ex poliziotto ed ex esperto informatico più volte chiamato a collaborare da diverse Procure in delicate indagini. Genchi è stato sentito ieri dall’avvocato di parte civile Fabio Repici nell’ambito del processo sull’omicidio Agostino che si celebra davanti alla Corte d’Assise di Palermo, presieduta da Sergio Gulotta (a Latere Monica Sammartino). Genchi ha spiegato la pista investigativa che seguì nel 1992, al tempo in cui era vice-questore di Polizia a Palermo, assieme al capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera per individuare mandanti ed esecutori della strage Borsellino. Nell’ambito di quel filone investigativo, coordinato dalla procura di Caltanissetta guidata da Giovanni Tinebra, l’avvocato ha detto di essersi occupato di dati telefonici relativi a Castello Utveggio, situato sul Monte Pellegrino, (territorio del mandamento dell’Arenella) dove aveva sede il Cerisdi (Centro Ricerche e Studi Direzionali), e dove per un periodo si pensava avesse sede una struttura dei servizi segreti. “Che quella fosse una struttura dei servizi era un’ipotesi investigativa suggestiva ed era il motivo per cui facemmo indagini”, ha detto Genchi in aula aggiungendo che il castello “aveva un punto di osservazione privilegiato su via d’Amelio” per la realizzazione dell’attentato. In realtà, i magistrati escludono che dalla terrazza del Cerisdi possa essere stato premuto il telecomando per l’esplosivo. Ad ogni modo, Genchi rispondendo alle domande di Fabio Repici, ha raccontato quale fu la sua attività sul Castello Utveggio e come ci arrivò. L’ex consulente ha detto di essere arrivato a sospettare di Castello Utveggio non solo per le chiare ragioni geografiche che ha spiegato, ma anche per una circostanza che riguardò il fratello di Gaetano Scotto e l’utenza telefonica della casa di Borsellino-Fiore in via d’Amelio, dove abitava la madre del magistrato che quel 19 luglio 1992 le fece visita. Il punto, che Genchi aveva già affrontato in altre sedi processuali come testimone, è come Cosa Nostra seppe che quel pomeriggio il magistrato doveva andare dalla madre. La risposta è che probabilmente la mafia riuscì ad intercettare i movimenti del magistrato allacciandosi alla linea telefonica della famiglia. E da questa ipotesi si arrivò a Pietro Scotto, fratello dell’imputato.
 
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L’ex poliziotto, oggi avvocato, Gioacchino Genchi © Imagoeconomica
 
Si ipotizzò che, anche sentendo le dichiarazioni dei familiari del Borsellino che riferivano di disturbi al telefono in maniera molto circostanziata, fosse stato fatto un by-pass, quindi un’intercettazione su quell’utenza telefonica con una semplice deviazione. E quindi iniziarono delle indagini sui soggetti che avrebbero potuto attuare questa intercettazione abusiva dell’utenza di casa Fiore-Borsellino. E sulla base di una serie di circostanze l’attenzione fu incentrata su Pietro Scotto che fu oggetto di varie indagini”. Scotto è un esperto in telefonia, uno che ha sempre messo le mani nelle “centraline” esterne, uno che è stato capace di eseguire intercettazioni senza destare troppi sospetti. Venne accusato di aver intercettato abusivamente la conversazione del 18 luglio tra Maria Pia Lepanto e suo figlio Paolo Borsellino, in cui questi le disse che sarebbe passato l’indomani pomeriggio a trovarla. Su quei fatti, però, venne assolto nel primo processo sulla strage. “Scotto era un operaio della Sielte, la società palermitana che per conto di vari enti, del ministero dell’Interno e del ministero della Difesa, si occupava della realizzazione delle linee telefoniche, gestiva le centrali telefoniche”, ha ricordato Genchi. “Ebbi modo di verificare – ha aggiunto – che a Castel Utveggio c’erano esponenti della ditta Sielte. C’erano impianti del ministero dell’Interno, le antenne e strutture di ponteradio. La manutenzione della Sielte. E loro erano i Tenutari di questi impianti”.
E “il responsabile della sede della Sielte situata vicino al mio ufficio – ha continuato Genchi – mi indicò sospetti su questo Pietro Scotto. Da lì iniziarono le indagini che portarono anche all’acquisizione dei tabulati telefonici dei familiari di Scotto, incluso quelli di Gaetano Scotto”.
 
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Il presidente della Corte, Sergio Gullotta © Emanuele Di Stefano 
 
Le telefonate del cellulare di Scotto a Castello Utveggio
Quindi, l’avvocato Fabio Repici ha chiesto al teste se gli capitò di accertare contatti telefonici tra utenze intestate al Castello Utveggio ed utenze intestate a Gaetano Scotto. Genchi – premettendo che “la caratteristica notoria del sistema telefonico è fatta sempre di un chiamante e un chiamato, e che pertanto la possibilità che in contesti investigativi diversi possano emergere le stesse circostanze è simmetrica se si indaga dal lato del chiamante o se dal lato del chiamato” – ha riferito che nell’indagine svolta dalla polizia sull’omicidio del faccendiere Ignazio Salvo (ucciso nel settembre 1992 a Santa Flavia), era emersa questa circostanza.
Con la procura distrettuale di Palermo svolgemmo un’accurata attività di analisi del traffico telefonico di una serie di soggetti che portò, per altro, all’individuazione, attraverso utenze clonate, a quelli che risultarono i contatti telefonici di Giovanni Scaduto, che al tempo venne indagato per l’omicidio di Salvo (poi condannato all’ergastolo, ndr)”. L’ex consulente della Polizia di Stato scoprì che il killer di Ignazio Salvo “aveva contatti telefonici con l’utenza del Castello Utveggio. E si tratta dello stesso numero, quello del Castello Utveggio, che risultava contattato da Gaetano Scotto. Noi al tempo monitoravamo questi contatti telefonici nell’ambito delle indagini sulle stragi che avevano coinvolto il fratello Pietro Scotto ma facemmo accertamenti anche su Gaetano Scotto. Quindi – ha ribadito alla Corte Genchi – nell’ambito di questi accertamenti verificammo che l’utenza contattata da Giovanni Scaduto, quella del Castello Utveggio, viene contattata anche da Gaetano Scotto”. Genchi non ha ricordato quante telefonate fece, ma in altri processi affermò che il boss dell’Acquasanta e presunto killer di Antonino Agostino telefonò (se non lui qualcuno che aveva il suo telefono) il 6 febbraio e il 2 marzo del 1992. “I tabulati sono agli atti di vari processi”, ha affermato Genchi. “Li ha anche la procura di Palermo”.
 
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L’ex capo della Mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera © Imagoeconomica
 
Gli approfondimenti mancati e la porta sbattuta in faccia a La Barbera
L’ex consulente informatico però non riuscì a raggiungere una conclusione sulla spiegazione dei contatti fra l’utenza di Scotto e quella del Castello Utveggio perché se ne andò sbattendo la porta dal gruppo di indagine sulla strage di via d’Amelio dopo una forte discussione con il capo della Squadra Mobile Arnaldo La Barbera proprio in merito alle indagini.
Lasciai bruscamente il gruppo di indagine nei primi di maggio del 1993 quando arrivò una direttiva da parte del ministero degli Interni, dall’allora direttore della Crminalpol, di chiudere le indagini, avviare il fermo di Pietro Scotto, che era oggetto di indagini dai buoni risultati (venne condannato in Corte d’Assise nel primo processo sulla strage e poi assolto, ndr). L’indicazione era provvedere al fermo di Pietro Scotto. E’ stato, oserei dire, criminale, bloccare questa attività d’indagine accelerando questo fermo”, ha spiegato Genchi sostenendo che si sarebbero potuti fare ulteriori accertamenti su Scotto che avrebbero potuto ampliare determinati scenari. “Il dottor Arnaldo La Barbera (che era d’accordo con l’accelerazione del fermo, ndr) mi disse chiaramente ‘tu sarai promosso per merito straordinario e io pure, abbiamo la carriera assicurata’ perché si faceva forte del fatto che erano state depositate le motivazioni della sentenza del Maxi-processo, in cui si addebitava tutto a Cosa Nostra col teorema della cupola. Ci fu uno scontro durissimo con La Barbera per questo”, ha spiegato Genchi. Una lite che fece interrompere il lungo rapporto professionale e di amicizia intercorso tra i due.
Il rapporto con La Barbera non era solo professionale, era un rapporto di profonda amicizia, aveva trasferito la residenza a casa mia”, ha ricordato l’avvocato Genchi. “Io ho condiviso tutta la mia carriera, la mia esistenza per quell’indagine in cui mi sono trovato catapultato su due stragi che ho vissuto in prima persona. Questo mi portò a una riflessione durissima. Io ho avuto la percezione netta che si volessero accelerare le indagini in una certa direzione per non svolgerle nella direzione dell’effettiva individuazione dei responsabili”. Il teste ha spiegato che quella tra lui e La Barbera “non era una divergenza investigativa. La Barbera mi disse chiaramente ‘la chiudiamo qua, facciamo il sacco’”. Non a caso La Barbera, che poi si scoprirà essere appartenente ai servizi segreti (nome in codice “Rutilius”) fu una delle menti che orchestrò il depistaggio delle indagini sulla strage di via d’Amelio. Ad ogni modo, ha raccontato Genchi, “quel giorno, il 5 maggio 1993, finì la mia carriera nella Polizia di Stato”.
 
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A sinistra l’agente, Nino Agostino
 
Chiarito il mistero dell’auto di Emanuele Piazza
Nel corso dell’udienza l’avvocato Repici, con il consenso delle parti, ha infine affrontato un episodio misterioso emerso nelle scorse udienze riguardante Emanuele Piazza, collega poliziotto di Agostino ucciso il 16 marzo 1990. Lo scorso 21 ottobre il dirigente della Digos di Palermo Giovanni Pampillonia aveva detto che quando prestava servizio a Trapani aveva avuto modo di compiere alcuni accertamenti documentali, su delega della procura di Trapani, rispetto ai mezzi in possesso di Piazza. Le investigazioni accertarono che Piazza possedeva, oltre a motociclette, anche una Ford Sierra e “tramite accertamenti del CED – aveva riferito Pampillonia – emerse che Emanuele Piazza e la sua autovettura sarebbero stati fermati dai Carabinieri del Nucleo radiomobile di Bagheria, in anni successivi (nel 1995, ndr) alla dichiarazione della sua scomparsa e per giunta con un’autovettura che era stata dichiarata rubata addirittura nel 1989, cioè l’anno ancora precedente la scomparsa”. Un’anomalia che fu oggetto di annotazione di indagine e venne consegnata al procuratore della repubblica di Trapani. Sul punto, Genchi ha precisato, che ebbe delega dalla procura di Palermo di verificare la fondatezza dell’esistenza dell’autovettura intestata ad Emanuele Piazza nonché di un personaggio identificatosi come Emanuele Piazza nel controllo avvenuto a Bagheria dai carabinieri nel 1995. “Dal 1992 al 2009 ho svolto attività di consulente tecnico per varie autorità giudiziarie e svolsi accertamenti e dirigevo il portale elettronico del ministero del ministero dell’Interno e avevo ricevuto incarico dai pubblici ministeri Ingroia e Scarpinato di consulenza tecnica nel processo Sistemi Criminali di accertamento su Emanuele Piazza. Questo accertamento sull’ipotesi che faceva evincere un’esistenza in vita di Emanuele Piazza che fu registrato nella banca dati delle forze di polizia. Furono fatti degli approfondimenti sulla banca dati e fu escluso in maniera categorica, sula base di elementi oggettivi, che quel controllo potesse riguardare Emanuele Piazza. Si trattò solo di un errore nel data entry, nell’inserimento che riguardava la targa dell’autovettura. E portò all’archiviazione della vicenda. E non ci fu nessun elemento che potesse lasciare ipotizzare un’effettiva identificazione di Piazza. L’errore, banalissimo, fu solo di inserimento della targa dell’autovettura. Fu solo un errore banalissimo dei carabinieri di Bagheria o Santa Flavia”, ha ribadito il teste.
L’udienza è stata rinviata al prossimo 31 marzo.

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