Michele Lupo Gentile, un castelbuonese alla Scuola Normale Superiore di Pisa – La vacanza ai Pedagni (terza e ultima parte)

Prima parte qui

Seconda parte qui

Avevo sedici anni, e mi sembrava tanto lontano quel tempo! Ero in campagna, ai Pedagni, presso Castelbuono, ai piedi delle Madonie, donde, a vista d’occhio, lo sguardo correva per grigie distese di campi e di vigneti sin quasi all’orizzonte, dove si vedevano, come delle macchie biancastre luccicanti, i paesi di Pollina, S. Mauro Castelverde e Geraci. La casetta rustica, dove io dimoravo, per la solita annuale villeggiatura settembrina, era piccola piccola, ma linda e pulita, ed isolata in mezzo a terreni aridi. Le colline però rocciose, che le facevano corona, sebbene spoglie di vegetazione, nelle ore del meriggio, producevano una grata ombra e molta frescura. Quanti sogni radiosi facevo dinanzi alla casetta, guardando l’azzurro del cielo e le nubi, che spesso vagavano come a rincorrersi fra loro! In quelle ore, battendo il sole fortemente, era più conveniente stare al vezzo, nel silenzio musicale della natura, che andare pei campi a caccia di allodole o colombi selvatici nelle forre e nelle ficaie.

La sera, mentre dai monti soffiava un piacevole venticello e un grosso carrubo vicino mormorava alla casa chi sa quali vecchie storie di fate e di maghi, si levava la luna, che copriva tutto il paesaggio d’un manto argenteo. Intanto le pecore tornavano a branche agli ovili sotto la guida dei loro pastori: si udiva in lontananza un tinnire di campane, specie quella di S. Antonino e della Madrice Vecchia, un echeggiare lontano di canti, e un abbaiare rabbioso e fastidioso di cani che se la prendevano coi viandanti, che s’attardavano per le stradicciole sassose, fischiando o cianciando storie d’amore. I contadini allora si raccoglievano a veglia sull’aia, all’aperto; ed io me ne stavo volentieri con loro. C’erano i vecchi, dai lineamenti duri ed ossuti, con volti bruciati dal sole, scuri come i profili delle monete antiche, e c’erano i vecchi e le allegre picciottelle dagli occhioni neri e luminosi, dal naso greco e dalle labbra tumide e rosse come fragole; creature magnifiche di forza e di bellezza. Tutta una razza vigorosa che sembrava raccogliesse l’agilità degli Arabi, la compostezza serena dei Greci, e la forza degli antichi conquistatori dell’isola! Discorrevano adagio e gravi, come se fossero in assemblea a discutere seriamente dei loro interessi. I giovani cantavano o a coro, o l’un dopo l’altro, canzoni ardenti e tristi. La loro poesia era ricca di immagini e pensieri profondi: la melodia soave e melanconica, con motivi somiglianti a nenie funebri da strappare le lacrime. Io mi stendevo per terra, con le mani sotto il capo, guardando il cielo dai riflessi verdi ed azzurri e la luna che mi sembrava smuovesse, in alto lenta, lenta; ed ascoltavo quelle canzoni d’amore. Qualche volta mi commuovevo e piangevo in silenzio, facendo cadere larghe lacrime sulle guance e sulle ristoppie. Com’era dolce e soave quel pianto!

I canti che io pubblico me li dettò una sera Turi Sferruzza, contadino dalle spalle quadrate, dal viso rubicondo e dagli occhi vivi e maliziosi, addetto ai servizi della piccola azienda di mio padre. Li offro ai lettori così come erano cantati, cioè in dialetto siculo, colla traduzione in prosa. Vi si sente l’eco dei magnifici canti dei lirici greci:

«Sùseti, bella, e sùseti matinu;

senti lu cantu di lu rusignolu:

sutta lu to palazzu cc’è un iardinu;

un pè d’aranciu caricatu d’oru;

d’ogni ramuzza cc’è fattu lu niru;

stira la manu e ti ‘nni piggli unu,

e ti lu metti ‘ntra ‘na gargia d’oru.

La gargia siti vui, donna d’amuri,

l’acilu sugnu iu, chi cci aju a stari».

Traduci: «Alzati bella, e alzati presto / senti il canto dell’usignolo / sotto il tuo palazzo c’è un giardino / un piede [=albero] d’arancio carico d’oro / c’è un nido per ogni ramoscello / tendi la mano e prendine uno e mettilo dentro una gabbia d’oro / La gabbia siete voi, donna d’amore / l’uccello sono io che ci debbo stare».

«Quannu nascisti tu, ninfa d’amuri,

tutti sonaru all’armi li campani;

la cresia è china di strumenti e lumi

sinu a la fonte di lu vattezzàri.

Vinninu stanchi li mastri pitturi:

Una bella com’a tia un pottenu fari!»

Traduci: «Quando nascesti, tu ninfa d’amore / suonarono tutte a stormo le campane / la chiesa era piena di suoni e lumi / insino al fonte battesimale. / Si stancarono i maestri pittori / Una bella come te non seppero fare».

«Sugnu picciottu e campu disperatu;

amu sta bella e nun la pozzu aviri,

di la pena ni cadu malatu.

Idda lu sappe e me vinni a vidiri;

‘ntra le manuzze mi portau un granatu,

‘ntra lu pettuzzu; dui puma gentili.

Idda mi risse: ciàura, malatu,

Ca pi ‘na bella ti lassi moriri!».

Traduci: «Son giovinotto e vivo disperato / amo questa bella e non la posso avere / io per la pena cado ammalato / Ella lo seppe e mi venne a vedere / nella manina mi portò una melagrana, / nel picciol petto due mele gentili / Ella mi disse: odora, malato – che per una bella ti lasci morire».

«Amuri, amuri, quantu si lontanu!

Cui ti lu conza lu lettu la sira?

Cu ti lu cunza ti lu cunza malu;

malateddu ti susi a la matina.

Ah, dio, ti lu cunzàssenu sti mani!

Ma almeno è niente ‘na vota a sira».

Traduci: «Amore, amore, quanto sei lontano! / Chi ti rifà il letto quando è sera? Chi te lo rifà, lo fa male / e malatino t’alzi alla mattina – Ah, dio, te lo rifacessero queste mani! / Poco sarebbe una volta a sera».

«Stilla ca curristi a lu levanti

e duni acqua a dui ciumi currenti,

aman’a unu, nun n’amare a tanti,

l’autri ti li levi di la menti.

Lu viri comu si, p’amari a tanti!

T’ardi, ti consumi e non fai nenti.

Viri che t’ha venutu un novu amanti;

diccillu celu no, fallu contentu!».

Traduci: «Stella, che corresti verso levante, / e dai acqua a due fiumi correnti / àmane uno solo, non ne amare tanti, e tutti gli altri levati dalla mente. / Vedi, per amar tanti, come sei! – T’ardi e consumi, e non concludi niente / Vedi che t’è venuto un nuovo amante / non dirgli di no, rendilo contento».

In basso la scritto integrale pubblicato su Mediterranea – ricerche storiche – Anno XVII – Dicembre 2020. DOI 10.19229/1828-230X/5092020

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