Nel centenario dalla nascita dell’ingegnere Vincenzo Morici la famiglia ripercorre alcuni sprazzi di vita che hanno fatto di lui un grand’uomo

Il 2 aprile del 2017, ricorre il centenario dalla nascita di Vincenzo Maria Morici.

Un uomo perbene, estremamente generoso, amante dell’ambiente e delle cose semplici, grandemente dedito al suo paese, fino all’ultimo respiro di vita.

Fedele compagno della natura, seppe orientare la propria attività verso la valorizzazione del prezioso ecosistema boschivo delle Madonie. Con tali intendimenti, trovò spazio, in seno al Club Alpino Siciliano, come consigliere e vicepresidente per quasi quarant’anni (dal 1965 al 2004, anno della morte). In quest’arco di tempo egli ebbe modo di lasciare sulle Madonie i segni visibili degli studi tecnici effettuati a Zurigo, in perfetto stile alpino.

Ciò anticipato sul filo della penna, vogliamo per un momento obliare ciò che lo ha contraddistinto come professionista di spicco nella Provincia di Palermo. Del resto, le sue opere, sono ancora presenti e rendono agli occhi degli spettatori la strabiliante tecnica che molti ancora rammentano.

Oggi, invero, vorremmo commemorarlo come uomo, esaltandone il percorso di vita che lo ha portato ad essere una persona amata da tutti: moglie, figli e nipoti compresi.

Una considerazione ci è d’obbligo. Un uomo che è riuscito a far traspirare tale forma di affetto e di rispetto da parte di tutti noi, amici compresi, è un UOMO che ha lasciato il segno.

E’ prerogativa della grandezza umana recare grande felicità con piccoli doni. Crediamo vi sia una sola forma di grandezza per l’uomo. Se un uomo può colmare il vuoto tra la vita e la morte. Vogliamo dire, se riesce a vivere anche dopo che è morto, allora forse quello era un grand’uomo. E Vincenzo Morici era tale.

Una sua immagine, infinitamente densa di vita, ricalca e percorre in modo nitido le corde del nostro cuore: il suo viso, sorridente e bruciato dal sole, che spicca dal palco Giuria durante uno dei tanti concorsi ippici organizzati presso il maneggio di famiglia, il Centro Equitazione Fauni, in Contrada Panarello. Con lui, l’immancabile sigaretta, la polo bianca che esalta i fasci muscolari degli avanbracci ancora giovani e tumidi, il sorriso dolce che regala ai lati della bocca –  solcati dai baffi – le inconfondibili fossette.

I piaceri della nostra giovinezza, dei momenti passati con lui, riproposti dalla memoria, somigliano a tante stelle viste alla luce d’una fiaccola. I pomeriggi in contrada Mandrazze, le lunghe passeggiate a cavallo, le risate…tutto riecheggia e rimbomba nelle tempie. Il nonno Enzo – così era per i nipoti –  è rimasto scalfito in modo indelebile nei meandri del nostro cuore e lo sarà per sempre.

Ci ha trasfuso dei principi. La memoria richiama alla mente un passato che è fondamentale per capire i nostri comportamenti di oggi. Infatti è nella memoria che ritroviamo tutte le tracce degli avvenimenti, a volte non eccezionali, ma per noi particolarmente significativi, che ci hanno permesso di diventare ciò che siamo. Noi siamo ciò che ricordiamo di essere stati diceva sempre. Ascoltavamo incantati i racconti sulla storia della nostra famiglia. Ed eccoci piombare in un passato lontano e affascinante, profumato di carta ingiallita e di polvere sgusciante dai bauli delle cantine.

Ad sintetim, uno stralcio di quelle conversazioni. Qui da bambino, vicino al pozzo io e Massimo (Padre Massimo Barreca suo grandissimo amico, nonché, compagno di scuola) tirammo dei sassi che ruppero il vetro…mio padre ci inseguì correndo fino a casa dei Gugliuzza…ci nascondemmo fino a sera dietro una siepe…la sera le presi di santa ragione….. la tua bisnonna, invece, soleva cucire vicino il gelso perché era un posto ombroso e fresco, aveva le mani rovinate dall’artrosi, ma era abile nell’arte del ricamo. Io amavo cavalcare a rompicollo e vicino al pollaio tenevo il mio cavallo… era il mio più grande amico. Con lui correvo al galoppo nella discesa di San Guglielmo vicino villa Emma, dove villeggiava tua nonna.

Oggi, grazie a lui, quando scorriamo con lo sguardo i luoghi ancora presenti nella casa di Mandrazze, ovvero, in qualche sconosciuta stradina, riusciamo a rievocare quelle scene. Ciò che facevano i nostri avi non è rimasto perduto.  Lui  ci ha passato un testimone. E noi SIAMO perché c’è stato LUI, che ci ha reso un dono: amare il passato, conoscere il passato, scoprire il presente attraverso di esso. Noi oggi entriamo in punta di piedi in un luogo perché ogni luogo è testimone sacro di sorrisi, amori, gelosie, litigi, lavori appartenenti al passato di chi ci ha preceduto.

La memoria storica è un diario, un salvadanaio dello spirito, e racconta i fatti più pregnanti delle vicende familiari: ecco perché la storia diventa la memoria vivente del nostro mondo. Non c’è futuro senza memoria.

Tutto ciò che oggi siamo, affonda le sue radici nel passato, e dimenticare queste radici è come condurre una vita priva di riferimenti. Si ha fame e sete di memoria storica, non per una sterile nostalgia del passato, ma perché essa orienta una visione positiva della vita e dei rapporti umani, educa alla convivenza pacifica.

Ciò detto, risulta innegabile che Vincenzo Morici era un formidabile un uomo MODERNO d’altri tempi. Per questo con orgoglio ripercorriamo qui la sua storia, perché i giovani possano ricordarlo con affetto. Si è potuta fare una precisa ricostruzione storica grazie ai seguenti e  preziosi documenti di famiglia: le lettere.

A quei tempi si scriveva, per fortuna. Possediamo tre distinti blocchi di corrispondenze. Quelle della madre, quelle che Vincenzo scriveva dal campo di concentramento in Polonia quando fu catturato dai tedeschi, e quelle che si scambiava con la moglie Giuseppina ai tempi del fidanzamento. Oltre a questo, padroneggiamo i cassetti della memoria in cui sono gelosamente custoditi i suoi racconti. Abbiamo catalogato tutto. La sua vita, la sua incredibile vita rimarrà nota grazie a quella memoria storica. Il passato è l’elemento più fragile: sbiadisce sempre. Ma se il passato è attaccato alle nostre spalle. Non dobbiamo vederlo; possiamo sempre sentirlo e tramandarlo.

Ecco un piccolo scorcio del suo passato che farà capire – grazie alla memoria storica – quello che egli è stato. ED oggi nel centenario della sua nascita ci piace ricordarlo così.

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Vincenzo Morici nacque a Castelbuono il 2 aprile del 1917. Ha attraversato tutto il 900, il cosiddetto secolo breve. Sua madre, Concetta Cardella, partorì l’unico figlio maschio rimastole a 40 anni. Fu un figlio estremamente desiderato. Lo chiamarono “Vincenzo” come un suo fratellino morto qualche anno prima a causa di un grave incidente domestico. Altri figli le erano stati strappati dalla morte nella maniera più becera. L’epidemia di spagnola – la  pandemia influenzale che fra il 1918 e il 1920 uccise decine di milioni di persone nel mondo – non si fece scrupoli neppure a Castelbuono. Le uccise una figlia. Così, Concetta Cardella fece un voto: a San Francesco. Darle l’ultima possibilità. Diventare ancora una volta madre. Ci riuscì e Vincenzo camminò per le vie del paese con il saio fino a tre anni.

Suo padre, Melchiorre Morici, figlio di Vincenzo Morici, anch’esso ingegnere, teneva tantissimo alla cultura ed allo studio. Tutti i suoi figli, una volta terminato il Liceo, si sarebbero dovuti iscrivere all’Università. La sua era una casata di ingegneri. E Vincenzo, avrebbe dovuto seguire le orme dei congiunti: il padre, il nonno ed il bisnonno.

Melchiorre teneva tantissimo a questo aspetto e, da tale esigenza,  non aveva dispensato neppure le figlie femmine. In un’epoca in cui le ragazze di buona famiglia arrestavano il proprio percorso culturale al liceo, le sorelle Morici, compiuti i diciotto anni, erano state spedite in convitto nella capitale, per poter seguire agevolmente i corsi accademici. Si erano laureate tutte, con il massimo dei voti, tra gli anni 20 e gli anni 30. Erano, per l’epoca, in Castelbuono, le prime donne ad aver conseguito l’agognato titolo, e di questo, Melchiorre, ne era orgoglioso.

Suo figlio Vincenzo, per i compaesani Vincenzino, racchiudeva tutti gli aspetti che possono rendere orgoglioso un padre. Studiava, rispettava la famiglia e praticava assiduamente uno sport: l’equitazione. Era una apprezzato cavaliere, anche molto spericolato. Riusciva a solcare al galoppo la discesa di San Guglielmo. Una strada ripida e sassosa, vicina all’antico Romito, la cui pendenza dispensava il buon intenditore dal passarvi.

Ma non vi erano solo i cavalli tra le sue priorità: le automobili, lo sci, la pittura, insomma, un soggetto alquanto poliedrico, nel senso positivo del termine.

Nel periodo di agosto la famiglia Morici si trasferiva in campagna per la villeggiatura. Il terreno in Contrada Mandrazze era stato acquistato da Melchiorre poco prima di sposarsi. Era un posto incantevole a pochi chilometri dall’abitato cittadino. Un tripudio festoso di piante e fiori  incorniciavano la vecchia casa in pietra. Un rettangolo lungo e basso, rallegrato da una corte principale e da tre pozzi d’acqua.

Come se il destino si fosse prepotentemente frapposto fra lui e la volontà, il padre, Melchiorre, spirò prematuramente nel 1936. Era il periodo in cui investiva la carica di commissario prefettizio in Castelbuono. Erano i tempi del fascio. Al suo funerale partecipò tutto il paese.

Nel 1938 Vincenzo Morici si trasferì a Pavia per completare gli studi presso l’Accademia Militare. Frequentava la Scuola Allievi Ufficiali del Re. Non riuscì a completare gli studi universitari come promesso al padre. La ragione fu una, estranea dal suo volere: la guerra.

L’Italia entrò nella seconda guerra mondiale il 10 giugno del 1940, per volontà inespugnabile di Mussolini, sostanzialmente avallata dai responsabili militari, Badoglio compreso.  Con l’amaro nel cuore  Vincenzo congedò familiari e partì. Ancora non sapeva che li avrebbe rivisti dopo 5 lunghi anni. Furono tempi difficili, ansiopatici, agorafobici. Nel 1943 faceva parte dei reparti italiani d’oltremare a Spalato. La sera dell’8 settembre, all’improvviso, quella condizione triste e massacrante fu interrotta da brividi di gioia: la radio trasmise il celebre messaggio del Capo del Governo militare, con cui annunziava l’armistizio.

I suoi soldati erano increduli. Esplodevano di gioia, pensando che fosse giunta l’ora di tornare a casa. Anche Vincenzo lo era. Voleva riabbracciare la sua famiglia, voleva terminare gli studi, voleva sposarsi e mettere su famiglia.

Mentre l’euforia dilagava tra i suoi commilitoni, alle ore 10:00 del 9 settembre, Sinj, una piccola cittadina a circa trenta chilometri da Spalato, fu occupata sorprendentemente dai Tedeschi.  I comandi italiani avevano ricevuto l’ordine di consegnare la piazzaforte al Comando Supremo Germanico.

All’epoca, il massimo responsabile della zona era il generale Beccuzzi, comandante della divisione “Bergamo” di stanza a Spalato. Attendeva i capi partigiani per decidere il da farsi. Quando si riunirono i giochi furono insensatamente fatti. Erano in cinque nella baracca, tra cui due colonnelli dello Stato maggiore ed un vecchio ufficiale Serbo.

Dopo alcuni minuti tutti presero con grande soddisfazione l’ordine del comandante d’armata proveniente da Zara: lotta comune contro i tedeschi. Sembravano tutti entusiasti.

Vincenzo e gli altri ufficiali ubicati sulla montagna in attesa di ordini per l’espatrio ignoravano tutto. Non vi era stato neppure il tempo di analizzare i dettagli per istruire i soldati e mandare comandi ai vari distaccamenti. Fu come un fulmine a ciel sereno.  Vincenzo Morici fu catturato a Spalato il 27 settembre del 1943, unitamente ai 499 colleghi ufficiali dislocati in quella zona, tra cui tre generali. Dopo la cattura furono trasportati a Signo (Croazia) e colà rinchiusi in due sporche caserme.

Il mattino seguente al freddo ed al gelo seguivano con attenzione l’Ufficiale interprete Tedesco, che compilava l’elenco dei presenti, con grado, cognome, nome e reparto di appartenenza. Fu a loro chiesto se avessero rivestito cariche nel partito fascista in qualità di gerarca e se fossero stati in grado di dimostrarlo.

Nei giorni successivi gli ufficiali subirono un sommario interrogatorio individuale, da parte di una sorta di Tribunale di guerra improvvisato, del tutto avulso dal rispetto delle regole dettate dalle Convenzioni internazionali.

L’interrogatorio di massima verteva sul seguente punto: se l’Ufficiale era ancora disposto a combattere con i tedeschi. Vincenzo, ovviamente,  faceva parte della lista dei traditori, coloro i quali avevano detto un secco e convinto NO alle bestie teutoniche. Fu atroce. Gli ufficiali che manifestarono rifiuto a quell’invito furono imbarcati a Spalato per essere condotti a Metkovich e di li a Moster ed a Sarajevo. Lui fu tra quelli.

Fu un viaggio lunghissimo. La sera del 14 ottobre giunsero al campo di concentramento di Wietzendorf. La tragedia stava per ripetersi. Ciascuno di loro non era più un uomo, ma un prigioniero. Era come se la violenza li avesse resi l’uno identico all’altro. Erano fermi, impalati, ognuno che rincorreva penosamente i propri pensieri, quando si aprì l’enorme e massiccio cancello ricoperto di filo spinato. L’agonia era appena iniziata. Furono accolti dal freddo gelido, dalla fame e dalla sporcizia. Le baracche erano umide e infestate dai topi. Dormivano su tavolati in legno carichi di polvere e piattole.  Era come il tempo si fosse arrestato. La mattina, vagavano per il cortile ghiacciato, e dietro ogni riflettore era posto un soldato Tedesco di guardia.

Raus! Los! Raus! Non sopportavano più il suono odioso di quella frase. Se avessero avuto le forze gli avrebbero strappato il cuore a morsi a quei bastardi.

La cosa peggiore era la chiamata per la disinfestazione delle bestie. Ecco, la mandria era giunta, occorreva difendersi dallo schifo che portava. I Tedeschi avevano piena contezza delle norme asettiche di crudeltà morale. In questo erano dei veri maestri dei crimini di guerra. Non appena giunti nella baracca sanitaria si profilava una triste scena. Bisognava presentarsi in posizione da Cristo per venire spennellati di un impiastro nero, simile al petrolio, sulle parti intime, ascelle e pube compresi. Il fluido nero, colava per le gambe e bruciava ogni piccolo lembo di pelle. Era come fuoco ardente. Come una marchiatura rovente.

Venduti! Ebrei! Miserabili! Costanti offese – a detta loro – venivano sputate in quella sede. Gli lanciavano letteralmente lo sterco di sopra dopo averli disinfestati.

Perché loro erano i venduti. Quelli del no. Coloro i quali avevano voltato le spalle agli stronzi tedeschi.

I giorni proseguivano e la dignità umana veniva pestata sotto gli stivali lucidi dei loro aguzzini.

La razione quotidiana di cibo consisteva in una sabbiosa crema di rape mischiata a terra nera. Null’altro. Gli internati avevano appetito non appena finivano di mangiare.

Nelle ore di languido e innegabile abbandono, quando il gelo li assaliva ferocemente pensavano alle famiglie lontane, alle mamme, alle morose.

Una volta al mese era concesso – secondo le convenzioni stipulate con la Croce Rossa Internazionale –  scrivere ai parenti. Le missive, prima della spedizione, dovevano essere scrupolosamente controllate dall’Ufficiale Tedesco traduttore. La sua presenza aveva uno scopo peculiare: cestinare quelle che contenevano lamentale sullo stato di permanenza nel campo. Il motivo era evidente. Secondo le convenzioni internazionali, i prigionieri di guerra, tra cui gli Ufficiali, dovevano essere trattati in modo confacente al  rispettivo ordine e grado. Ovviamente, i tedeschi, non applicavano tali regole di condotta, agendo in totale spregio della normativa posta a tutela della dignità della persona. Tutti mentivano. Tutti raccontavano ai propri cari di passarsela dignitosamente bene. Anche Vincenzo  era costretto a bluffare. Raccontava alla madre che riceveva regolarmente i pacchi trasmessi con amore dall’Italia. Descriveva minuziosamente la gioia, mai provata, dell’indossare la biancheria pulita ed odorosa di lavanda ricamatagli dalla madre; del  cibo, della cioccolata e delle sigarette che erano state un vero toccasana. Doni tutti sottratti dalle mani impenitenti dei Tedeschi.

Con il passare dei mesi, però, si era stancato di mentire ed aveva trovato un trucco. Per far comprendere ai congiunti il grado di malessere cui era sottoposto, indicava nelle missive ” A villa Ucciardone se la passano meglio”. L’Ucciardone era il carcere ubicato nella capitale di Palermo, famoso all’epoca per il grado di sudiciume e crudeltà in cui versavano i prigionieri. Apostrofando come “Villa” il campo di concentramento sicuramente non avrebbe fatto intendere la lamentela “comunicata” alla famiglia con fare ilare. Se apostrofava l’Ucciardone come Villa, sicuramente avrebbero compreso (sono tutti dati raccolti tramite le lettere che scriveva alla madre e che oggi conserviamo).

Lo sconforto cresceva. Soltanto la presenza di una madre, di una fanciulla, della famiglia ricordavano il mondo lontano e perduto, come se fosse oramai perduto per sempre.

Trascorsero i giorni, i mesi, uno dopo l’altro, ferocemente monotoni. Furono trasferiti nel giro di pochi giorni in tre differenti campi. Si persero le tracce, perché i carcerieri non avevano comunicato, per come dovevano, lo spostamento.

I pacchi delle famiglie non arrivavano più. Non finivano neppure tra le mani bramose dei bastardi guardiani di prigionia. Non arrivavano più notizie dalla Croce Rossa Internazionale. I parenti in Italia non avevano notizie da mesi. Per alcuni, i loro cari erano già morti. Vincenzo era uno di loro.

L’avvento dell’estate fu molto penoso. Si parlava di un fatidico sbarco Anglo-Americano in Normandia. La notizia non era sicura ed i Tedeschi la smentivano perché l’unica fonte – Radio Londra – era andata perduta a causa dei vari trasferimenti da un campo all’altro.

Una luce nel baratro della morte si accese, ma loro non avevano contezza.

Nel mese di ottobre del 1944 gli alleati dello sbarco in Normandia, dopo aver liberato Francia e Belgio erano ad Aquisgrana, mentre i Russi si preparavano ad affrontare le difese tedesche sul Danubio. I prigionieri internati non avevano notizie certe, né volevano sperare.

La fame li divorava. I soldati raschiavano le scodelle della sbobba e leccavano anche le gocce che cadevano sul lastricato delle baracche.

Nelle loro menti riecheggiava ad intermittenza una vaga aspirazione al cibo, e la rabbia impotente di non poterselo procurare, quando non si riusciva a catturare un topo da dividere in 20. I topi e le lucertole, quando si aveva la fortuna di trovarli – rappresentavano un giorno di festa!

Il 2 aprile del 1945 – il giorno del suo 28° compleanno –   Vincenzo ed altri 10 Ufficiali furono chiamati per manifestare eventuali ripensamenti. La domanda era sempre la stessa: si chiedeva se volessero manifestare fedeltà ai tedeschi e combattere con loro. Ovviamente la risposta fu categoricamente negativa.

E così il giorno funesto non tardò ad arrivare. Era il 10 aprile 1945 quando Vincenzo ed altri 10 ufficiali furono trattenuti per la fucilazione. L’esecuzione si sarebbe consacrata nello spiazzale principale, alla presenza di tutti. Occorreva dare l’esempio agli altri traditori.

I prescelti erano oramai rassegnati ed il pensiero dell’imminente morte rappresentava un puro sollievo. La preoccupazione ed il dolore, erano rivolti ai famigliari lontani. Alla mamma, ed alle sorelle. Alle loro reazioni a seguito della notizia, se fosse ovviamente arrivata, della tragica morte. Perché si moriva nel completo anonimato. I corpi, una volta mutilati dalle pallottole di piombo, venivano scaraventati nelle fosse comuni. Vincenzo aveva paura di questo. Non della morte in se. Ma di morire senza lasciare una traccia tangibile del suo vissuto, un figlio, una famiglia, un abbraccio filiale per la madre vedova. Chi avrebbe pensato a lei?

Mentre questi pensieri gli percuotevano la mente fu bendato e fatto sedere su un vecchio sgabello. Erano in quattro. Le esecuzioni avvenivano per gruppi ed in base al grado. Agli ufficiali non venivano legate le mani. Almeno in questo, i tedeschi, manifestavano una certa eleganza. Avevano un macabro e spiccato senso del dovere nella gestione dell’evento morte.

Vincenzo  sospirò ed alzò il profilo al cielo; i pensieri più dolci andarono al padre ed alla promessa che non aveva mantenuto. Certo, non per sua volontà, ma per imprescindibili ed funeste evenienze. Un velo di tristezza gli corrugò la fronte. Baciò amorevolmente la madre, immaginandola curva ed intenta nel preparare le famose marmellate di pere. Adesso era pronto per salutare l’amata vita. Adesso avrebbe trovato un po’ di pace. La notte prima era stata tempesta, ora il sereno.

Sorrise un attimo beffardo: pensò che quegli stronzi dei Tedeschi non gli avevano procurato neppure un padre confessore. Bastardi! Maiali! bofonchiò a denti stretti.  Poi un umana reazione. Appena sentì l’urlo di morte dell’Ufficiale tedesco piantato di fronte al plotone di esecuzione tremò ed ebbe paura. Fu in quel momento che ebbe piena contezza di ciò che stava accadendo. Iniziò a vacillare, pensò alla sua mamma, al suo viso allegro solcato da profonde rughe…un grido gli si frantumò in gola e si fece la pipì di sopra come un bambino. Poi, un lampo di sfida, l’onor di patria gli echeggiò nella mente. Si abbandonò al destino, accasciò le mani lungo i fianchi e urlò nell’aria: VIVA L’ITALIA! TEDESCHI DI MERDA!

Non si mosse un filo d’erba, e poi ancora silenzio, fino a quando vicinissimo, un grande tramestio. Passarono alcuni interminabili minuti e non vedendo alcuna reazione, lentamente e con agonia abbassò la benda che gli copriva la visuale, puzzava di orina. L’odore pungente si insinuò nelle fosse nasali.

Ciò che si aprì ai suoi occhi fu paradossale. Vicino a lui il caos. Il suo compagno di sgabello stroncato dai proiettili in fronte, lui e gli altri due salvi!

C’era gente sdraiata a terra, chi appoggiato sui gomiti con le mani piazzate contro le orecchie, chi di poco sollevato per schivare il colpo mortale delle mitragliatrici. Colpi di proiettile volavano nell’aria: i Tedeschi sparavano contro i nemici: gli alleati erano giunti per liberarli!

I loro carnefici, i terribili aguzzini erano ridotti alla metà e si preparavano ad incassare una storica sconfitta. Nacque un nuovo giorno. Gli internati di Wietzendorf erano liberi. Salivano sugli autocarri che frusciavano allegri contro il silenzio della campagna. Vincenzo si era salvato per una frazione di secondo. Era bello assaporare il gusto della libertà.

Si fermavano a Berger. Sostarono in quella civettuola cittadina per alcuni giorni fino a quando il 9 maggio 1945 fu proclamato il giorno ufficiale della cessazione delle ostilità. L’intero globo festeggiò la pace e lui tornava in patria con la gioia nel cuore. Salì sulla locomotiva della felicità.

Il treno correva e si sentiva il profumo degli agrumi di Sicilia; si udivano vicine le meraviglie che dimorano sotto il cielo italiano. Sembrava che lo stivale tendesse le braccia ai suoi figlioli perduti. Vincenzo e quelli che avevano detto no ai Tedeschi furono tutti rimpatriati tra il settembre e l’ottobre del 1945. Se avessero detto “si” e prestato fedeltà al popolo germanico, avrebbero goduto di vitto e alloggio nella Repubblica di Salò.

Arrivarono alla stazione di Messina la sera del 30 ottobre del 1945, malnutriti e maleodoranti. Camminarono a piedi fino a Sant’agata. Percorsero quel tratto di terra di Trinacria in tre giorni. Tra stenti che nulla erano al cospetto di quello che avevano passato in Polonia. Giunti vicino il bivio di Pollina, un vecchio compaesano li fece accomodare su un carro. Dopo 40 minuti arrivarono in paese.

Percorse la salita della via Li Volsi tremante. Si voltò per ringraziare il suo compagno di viaggio, e non scorse più quella robusta figura. Era sparito nel nulla come un fantasma. Non vi pensò più quando avvistò la palazzina, la sua amata casa! Non riusciva a trattenere il batticuore che aveva dentro. Non possedeva notizie della famiglia da più di un anno. Potevano essere tutti morti. Iniziò a correre a rompicollo. Arrivato innanzi l’uscio di ingresso lo trovò socchiuso. Spinse il battente per farsi largo ed entrò. A destra, dalla porticina che portava alla cantina, sentì un rumore. Era la piccola Ciccina, la dama di compagnia di sua mamma. Si piazzò silente ed aspettò che la ragazza si girasse dal lato del suo campo visivo. Quella piccola figura di donna, alta un metro e cinquanta, non appena si accorse dell’ombra dietro il suo corpo si voltò e la piccola giara contenente le olive sotto sale appena conservate, si scaraventò sul pavimento riversando tante lucide palline sulla pietra.

La donna si portò la mano in bocca, quasi a voler arrestare un urlo e scappò verso i piani alti, spostando Vincenzo con forza per il braccio.

Scesero a flotta, preceduti dalla padrona di casa che si reggeva a malapena al passamano della scala. Erano tutti increduli. Alcuni mesi prima era giunta la notizia della fucilazione del Tenente Morici. La Croce Rossa aveva errato. E mai errore era stato oggetto di tale gioia.

Tornato in patria Vincenzo Morici pesava 37 kg. Aveva portato pidocchi, piattole ed infezioni, ci volle un anno per riprendersi. I mal di pancia gli stritolava di sovente lo stomaco. Non essendo più abituato, il cibo in abbondanza, gli procurava indigestioni pericolose. Finì in ospedale 5 volte nel giro di un mese. E poi un giorno, in una tiepida e soleggiata giornata di giugno incontrò l’amore.

Il caso volle che fosse testimone di nozze del suo caro amico Fernando Mondini. Il matrimonio si stava celebrando presso la chiesa della badia. Era un giorno di luce, tutto abbagliava, una data storica: il 2 giugno del 1946.

Vincenzo, in piedi dietro lo sposo, ascoltava distrattamente la funzione; pensava al momento in cui  sarebbe successo a lui. Aveva 29 anni e nessuna donna aveva trovato un cantuccio nel suo cuore. Fu li che la intravide. In quarta fila, nel mezzo di due coetanee insignificanti dai capelli neri. Spiccava per la sua bellezza inglese, raffinata, elegante. I capelli, color rame, erano sapientemente acconciati in onde morbide all’altezza della fronte. Erano appuntati con delle violette da entrambi i lati. La chioma fulva le cadeva leggera sulle spalle esili. Gli occhi vivaci, erano di uno straordinario color ambra cangiante. I tratti del viso regolari, ingentiliti da un graziosissimo nasino all’insù. Indossava un abito color glicine che si sposava meravigliosamente con la carnagione chiara.  Sembrava un angelo. Una creatura aliena. Era la nobildonna Giuseppina Buscemi Collotti, nipote del barone Francesco Guerrieri e del barone Enrico Collotti.

Per una frazione di secondo i loro sguardi si incrociarono. Lei, timidissima, abbassò le palpebre, mentre, un vivace colorito roseo le  dipingeva le  gote. Fu allora che Il cuore del nonno cantò. Poi, si accorse che la vicina di banco della ragazza, le stava ciarlando qualcosa all’orecchio, mentre lo osservavano divertite. Lei, sempre più timida, iniziò a sventolarsi nervosamente con un ventaglio color porpora.  Probabilmente le avevano fatto notare che lui la fissava. Terminata la cerimonia la scorse tra la folla mentre, con le mani avvolte in candidi guanti, lanciava il riso augurale agli sposi e si guardava intorno.

Si bloccò a fissarla e si beò di quella visione. Era una creatura bellissima. Possedeva i colori della natura. Sembrava una divinità. Si muoveva leggiadra tra le folla e le persone, principalmente popolane, le facevano un timido inchino quando passava con le sue compagne. La fissò nuovamente e, per una frazione dolcissima, i loro sguardi si rincontrarono. Finalmente era vivo. Finalmente, dal quel terribile 20 marzo 1934, aveva ritrovato la voglia di vivere.

Quasi un mese dopo la cameriera consegnò a Giuseppina una busta.

Con una calligrafia nitida ed elegante vi erano impressi il suo nome e cognome (la lettera è ancora in nostro possesso).

Cbuono, 12-7-946

Gentile Signorina,

forse la presente la sorprenderà molto, ma anzitutto le chiedo scusa se mi permetto di importunarla.

Recentemente ebbi il piacere di vederla per pochi momenti, precisamente il giorno del matrimonio del Mondini; subito dopo partii per Nicosia.

Al mio ritorno a Cbuono domandai di lei  ma con mio grande disappunto mi hanno riferito che era già ritornata in città. Sicuramente stupirà – come mai io possa interessarmi di lei –  ma pur sembrandole strano, o come vuole, è proprio così!

Sin da quando ho avuto il piacere di conoscerla ho avuto per lei una stima ed una ammirazione tale da rendermi la sua persona particolarmente simpatica. Però circostanze specifiche non mi hanno consentito di far esorbitare…questa stima ed ammirazione da quei limiti consentiti strettamente dal significato letterario delle parole ed arrivare a quella certa stima  ed ammirazione….di cui oggi avrei la prontezza di parole! – Lei che è una ragazza intelligente comprende bene dove intendo arrivare!

Forse il passato, apparentemente, non depone completamente a mio favore, ma certe volte anche il diavolo…ha ragione!

Oramai da diversi mesi sono libero ed in lei, perché conosco le sue particolari bontà e perchè mi piace tanto, vedo la compagna ideale della vita e sono certo che sulle basi solide della sua comprensione potrei edificare l’edificio della mia felicità!

Non sono aduso dal servirmi di frasi più o meno belle e che si addicono al caso, ma mi limito nel significarle nella maniera più certa , seria ed impegnativa, i miei alti sentimenti di stima e simpatia per lei, che se corrisposti da parte sua con la stessa intensità e sincerità potrebbero dare il via  a quello che potrà essere un amore forte, sincero e duraturo!

Non mi prolungo perché temo importunarla, ma spero bene che tanto sia bastato per farle intravedere i miei sentimenti nei suoi “riguardi”.

Nell’attesa febbrile di un suo riscontro che mi auguro sia come io desidero , colgo l’occasione per salutarla distintamente.

                                                              Vincenzo Morici

Si incontrarono per come convenuto vicino la chiesa di San Francesco. Lui era lì alto e vigoroso e sfoderava un sorriso da urlo. Lei, nel suo grazioso vestito di organza, sembrava stesse andando ad una festa. I loro cuori erano una festa. Scampanavano impazziti, Ciò che stava intorno non aveva né forma né colore.  L’incontro avvenne alla presenza di altre due persone. La zia di Giuseppina, Camilla, ed il cugino del nonno, Totò Cardella. Non era permesso altrimenti. Non stava bene vedersi da soli. Quando si strinsero la mano una scossa percorse le loro anime. Era un patto d’acciaio. Si erano già sigillati con quel gesto, per sempre.  Il fidanzamento durò un anno. Si sposarono l’11 gennaio del 1947, a Palermo, presso l’Oratorio del SS Rosario di Santa Cita, famoso per gli stucchi del Serpotta. Da quel matrimonio nacquero, Maricetta Morici e Stella Morici. (Giuseppina fu il suo unico e solo amore. La tenerezza di Giuseppina, la sua compostezza ed eleganza, oltre le elevate doti morali, furono per lui il linguaggio segreto dell’anima. Un episodio ci è rimasto nel cuore. L’8 marzo del 2004, qualche giorno prima della morte, nonostante l’immobile e statica presenza a letto, a causa del brutto male che lo aveva avvolto, ebbe un pensiero. Commissionò alle figlie un mazzetto di mimose da regalare al suo amore. Gli occhi di Vincenzo, benché, non potesse più parlare, si erano incastonati per sempre nel cuore di Giuseppina e la dolcezza del marito le affascinò l’animo come a 20 anni ).

Dopo  il matrimonio si recò a Zurigo dove prese il titolo di laurea in ingegneria, titolo equipollente per la legislazione italiana. Da qui l’inizio della sua strabiliante carriera di professionista.

Nel 1956 è stato nominato Cavaliere della Repubblica per i meriti e successi riscossi nella professione. Il resto è storia.

Questo è un piccolissimo stralcio del passato della vita di  Vincenzo Morici che abbiamo assorbito per mezzo dei suoi racconti e dei documenti di famiglia. Abbiamo voluto condividerlo perché è uno straordinario percorso di vita che ci rende orgogliosi del sangue che portiamo nelle vene.

Il bel tempo di primavera ha finalmente preso il sopravvento. La brezza primaverile accarezza gli alberi e le aiuole del bel paesello che iniettano l’aria di un delizioso profumo di erba e primule. I giardini sono festa. Il mese di aprile, il mese di Vincenzo, è un mese di festa, di rinascita. Oggi lo ricordiamo con la gioia nel cuore. I suoi ricordi battono dentro di noi come un secondo cuore.

Palermo, addì, 2 aprile 1917

Maricetta, Stella, Angela, Stefania e Francesco.

Siamo orgogliosi di indicare anche uno stralcio del portale web che gli ha dedicato una pagina. Ecco cosa scrive Wikipedia, la più celebre enciclopedia virtuale del mondo su Vincenzo Morici:

Vincenzo Maria Morici (Castelbuono2 aprile 1917 – Palermo20 marzo 2004) è stato un ingegnere italiano, a lungo vicepresidente del Club Alpino Siciliano[1].

La figura dell’Ing. Morici[2] è legata a Castelbuono principalmente per gli interventi di ripianamento tecnico effettuati nell’ambito della cittadina madonita.

Amante della natura, seppe orientare la propria attività verso la valorizzazione del prezioso ambiente boschivo delle Madonie. Con tali intendimenti, trovò spazio, in seno al Club Alpino Siciliano, come consigliere e vicepresidente per quasi quarant’anni (dal 1965 al 2004, anno della morte). In quest’arco di tempo egli ebbe modo di lasciare sulle Madonie i segni visibili degli studi tecnici effettuati ad Amburgo, in perfetto stile alpino [3].

In particolare, si ricordano:

1965: ristrutturazione ed ammodernamento del rifugio Alpino “Luigi Orestano” del C.A.S., in contrada Piano Zucchi (m. 110 Isnello);

1970: Rifugio Alpino “F. Crispi” del C.A.S., in contrada Piano Sempria (m. 1300 Castelbuono);

1970: rifugio “Monte Cervi” del C.A.S., (m.1600 Isnello);

1970: rifugio “Melchiorre Morici” (dedicato al padre), del C.A.S., Pizzo Luminario (terrazza Giovanni Lupo) (m. 1450 Castelbuono);

1970: rifugio-bivacco del “Carbonara”, del C.A.S. (m. 1903 Isnello);

1970: rifugio Alpino “Bosco del Vicaretto”, del C.A.S. (m. 1100 Geraci Siculo);

1973: “Ostello della gioventù“, del C.A.S., (m. 1648 Isnello);

1986: rifugio “Torre del Bosco”, del C.A.S., (m. 976 Ficuzza, bosco del Cappelliere.[4].

A tale periodo, risale anche la costruzione del “Villaggio dei Fauni[5] in contrada San Guglielmo – Castelbuono, oggi moderno centro di riabilitazione psichiatrica; la “Baita del Faggio”, Isnello; la Chiesetta di Piano Zucchi dedicata a San Paolo Apostolo[6].

Durante la sua presidenza nello sci – Cas – Madonie (Castelbuono), i giovani atleti castelbuonesi, conseguirono diversi titoli regionali[7] sui campi di neve di Linguaglossa e di Piano Battaglia. Nel settore dell’equitazione (nella sua qualità di Vicepresidente dell’A.N.T.E) realizzò in Castelbuono, il primo campo attrezzato per i concorsi ippici e salti, a livello interregionale (trofeo Giacche Rosse), attività che per la prima volta si svolsero a Castelbuono.

La sua attività professionale ebbe modo di esprimersi anche in numerose opere realizzate in paese ed all’estero. Tra queste ultime, si annovera la costruzione della sede del Banco di Sicilia a Tripoli, in Libia cd. Sahara Bank [8].

Per oltre vent’anni è stato componente della Commissione edilizia Comunale, tra le opere visibili si ricordano: il restauro dell’ex carcere, sito in Piazza Margherita, la pavimentazione dell’antico corso “via Sant’Anna”, e la costruzione dei moderni edifici scolastici[9].

Si riporta, un passo, tratto dalla lettera a lui dedicata, dal Presidente del Club Alpino Siciliano, Avv. Francesco Crispi, in seguito alla scomparsa: Come avviene per i grandi personaggi è passata quasi sotto silenzio la recente scomparsa dell’Ing. Vincenzo Morici, Castelbuonese verace, generoso, indimenticabile pioniere ed artefice dello sviluppo turistico di Castelbuono e delle Madonie…[10]

La sua vita è stata accompagnata dalla presenza della nobildonna Giuseppina Buscemi Collotti[12], nipote del Barone Francesco Maria Guerrieri, sposata a Palermo nel 1947.

  1. ^Giornale di Sicilia, 20 marzo 2004, pag.20.
  2. ^Salvino Leone, Castelbuono U paisi, edizioni le Madonie 2008.
  3. ^Periodico Le Madonie, 1-15 aprile 2004, pagg. 5 e 6 -lettera dedicata al Morici dal Presidente del Club Alpino Siciliano, Avv. Francesco Crispi, in seguito alla morte.
  4. ^clubalpinosiciliano.it.
  5. ^La bibliografia su internet è molteplice. www.ctafauni.it. Periodico L’obiettivo: gennaio 2005, marzo 2006, febbraio 2007, maggio/giugno 2007, agosto 2008, agosto 2009.
  6. ^Periodico l’Obiettivo, 7 aprile 2004, pag. 6, articolo a cura di Tommaso Gambaro, intitolato:”Se a morire è un generoso”; periodico Le Madonie 1-15 aprile 2010, pagg. 4 e 6, articolo in memoria dell’Ing. Vincenzo Morici
  7. ^Periodico le Madonie, 1-15 aprile 2004, pag. 6.
  8. ^Archivio storico ufficio tecnico del B.d.S.
  9. ^Archivio settore tecnico Comune di Castelbuono.
  10. ^Periodico le Madonie, 1-15 aprile, pag. 5.
  11. ^Salvino Leone, Castelbuono U paisi, integrazione 2009, Ed. le Madonie
  12. ^Le nobili famiglie dei Collotti e dei Guerrieri, fanno parte dello scenario castelbuonese dell’800. Celebri furono le figure del barone Michelangelo Collotti e del Barone Francesco Maria Guerrieri, cui attualmente risultano dedicate due vie del paese, in seguito alla sistemazione demografica effettuata da FrancescoMinà Palumbo, Salvino Leone, Castelbuono, u paisi, storia ed arte, fatti e persone, cultura e tradizioni, Ed. Le Madonie, 2008.

 

** ** **

L’odore della terra bagnata scaldata dal pallido sole del pomeriggio, mi rendevano stordita dal piacere. Osservai il pulviscolo brillare alla luce dorata dell’ultimo raggio di sole – stai tranquilla – diceva una voce incoraggiante dentro me – andrà tutto bene. Il nonno se ne era andato, in silenzio.

La sera prima ero andata a salutarlo, come facevo di sovente quando rincasavo dalle mie uscite tra amici. Erano quasi le 24:00. Quando entrai nella sua stanza, la nonna dormiva di fianco a lui.

La luce del suo comodino era accesa; seguitai con lo sguardo il suo viso. Notai che respirava in modo strano.

Mi accoccolai su di lui e misi la mano dinanzi le narici per capire il ritmo del suo respiro. Era lento. Per una frazione di secondo i suoi occhi entrarono con amore nei miei e il tempo si fermò. Mi aveva atteso prima di morire.

Angela Maria Fasano

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