Nel passato castelbuonese: Tipi e vicende Mastru Sariddu


NEL PASSATO CASTELBUONESE: TIPI E VICENDE
MASTRU SARIDDRU
Di Giuseppe De Luca
[Pubblicato su Le Madonie 15 Aprile 1988]

Chi fu costui? Molti l’avranno conosciuto come Sariddru u saristanu, pochi come Sariddru u cammarìeri, per l’Anagrafe Civile è stato Rosario Turrisi, per tutti era mastru Sariddru Piciùciu (il piccolo). Quest’ultimo appellativo, però, nessuno lo pronunciava apertamente per non scatenare in lui un furioso finimondo.

Sembra che in gioventù avesse tentato di fare l’apprendista calzolaio, o forse il ciabattino: rare volte, secondo i soliti bene informati, riuscì ad imbullettare di grosse tacce gli scarponi di quei tempi. Persistendo nello scaricare tremende martellate sulle dita della mano sinistra, queste, un giorno, finirono per fargli cambiare mestiere, convincendolo che c’erano più convenienti vocazioni. Così si diede a fare il sacrestano a S. Francesco e ad impiegarsi a tempo pieno, come si direbbe oggi, quale inserviente del Circolo – Littorio dei Civili.

Quando l’ho conosciuto, ero approdato da poco nella piazza della chiesa, ospite di mia nonna materna, in attesa degli ultimi lavori nella casa di via Maurolico: avevo tanto girovagato, ma, dovunque, a Mistretta, a Caltagirone, a Patti, a Taormina, a S. Agata Militello, sarebbe stato impossibile credere all’esistenza di un mastru Sariddru. Erano gli anni ruggenti: l’Italia, cantando «Giovinezza, giovinezza» e «Faccetta nera», si apprestava alla «conquista del posto al sole» in Etiopia: io dovevo affrontare gli ultimi mesi delle Elementari a Castelbuono.

Quasi ogni mattina, avviandomi a scuola in quei locali dell’ex convento, avevo modo di vedere mastru Sariddru che attraversava il chiostro: quivi convivevano pacificamente carabinieri reali, i loro cavalli, lo stalliere della caserma che con una carriola ammucchiava in un angolo lo stallatico, gli scolari che vi sciamavano all’inizio e alla fine delle lezioni, durante la «mezz’ora» di ricreazione, quando per i loro bisogni corporali dovevano rifugiarsi in quel posto sotto la torre campanaria, e poi balilla, avanguardisti, giovani fascisti, premilitari, familiari del comandante di turno dei carabinieri e… perché no?… anche mastru Sariddru, che si intratteneva a godersi quel panorama, quale unico momento di svago della giornata. I cavalli dei carabinieri, quando lo sentivano arrivare, non so perché, scalpitavano piu forte. E mentre stava attento per evitarli egli si voltava verso di me. Ci squadravamo a vicenda con curiosità, simpaticamente: egli indagava, forse, sui miei vestiti un tantino diversi da quelli degli altri scolari ed io lo ricambiavo. Era quasi inverno: imbacuccato in una corta e stinta mantellina grigioverde della prima guerra mondiale, avvolto in uno stretto sciallino di ruvida lana color noce, che, attorcigliato al suo collo gli fasciava tutta la testa, berretto compreso, a stento aveva liberi solo gli occhi per vedermi!… Chissà!… Forse era questo suo abbigliamento a far scalpitare i cavalli!…

lo decenne ed egli ultrasessantenne avevamo qualcosa in comune: pressappoco l’identica corporatura: in breve tempo però lo sopravanzai. Eppoi eravamo entrambi senza barba: il recidere da se stesso, ogni tanto, qualche pelo sotto il mento lo chiamava radersi. Ci differenziavamo, bensì, nel fatto che io portavo i pantaloncini corti in tutte le stagioni, mentre lui portava sempre, in tutte le stagioni, anche con il vento di scirocco, una vetusta coppola lucida di grasso che gli copriva la testa pelata: i linguacciuti gli rinfacciavano che dormisse con questa preziosità per paura che gliela rubassero. Sotto la coppola aveva sempre la stessa espressione: raramente i castelbuonesi lo videro commosso! Si ricordava, ad esempio, quella occasione, diciamo, di impegno patriottico: obbediente, come sempre, sprovvisto della maschera antigas come tutti i concittadini, quel giorno fu costretto a salire, con una manciata di fieno bagnato d’acqua e compresso in un fazzolettone azzurro legato stretto sulla bocca, per suonare a distesa le campane di S. Francesco.

Si stavano effettuando le prove d’allarme per l’avvicinarsi di ipotetici aeroplani nemici che venivano a spargere gas asfissianti. Mastru Sariddru, chiamato a servire la Patria, lui che non aveva potuto essere soldato, suonò a martello come per l’incendio di una paglialora: suonò così infervorato che finì con l’atterrire veramente gran parte della popolazione: si era sentito coinvolto!.. Dal campanile discese realmente commosso: fiero ed orgoglioso, si credette indispensabile strumento per il giusto maturare dei «gloriosi e radiosi destini, sacri ed inviolabili, dell’Italia».

Io lo ammiravo perché sapeva spegnere le candele dell’altare in tre differenti modi: con un mazzo di rossi gerani attaccati ad una canna (quando i ceri erano molti, nelle solennità di S. Antonio e dell’Immacolata), con un’affumicata campanula di lamiera infissa ad una canna maneggiata con destrezza (ordinaria amministrazione); soprattutto, però, infine, io rimanevo incantato quando si trattava di poche candele: non vi soffiava come i comuni mortali! Giammai! Era fiato sprecato! Egli, in maniera originale stringeva rapidamente la fiammella fra indice e medio, due grosse dita ben incallite, adorne di lunghe e spesse unghie nere, alle quali di tanto in tanto avvicinava l’antico trincetto per tranciarle!…

Mi faceva pena, però, allorché diventava inconsapevole oggetto degli scherzi maliziosi e addirittura feroci dei ragazzi che, «Paggi del Santissimo Sacramento», fungevano da chierichetti. Costoro non seppero, in nessun caso, valutare sviluppi e conseguenze delle loro criminali trame.

Una sera, scendendo dal campanile, inciampò in una cordicella tesa fra il manico del braciere (dove il buon Don Peppino Di Napoli si scaldava e dove si prelevavano i carboni per il turibolo) e fra una cardarella da muratore, usata per il deposito della cenere dello stesso braciere: doveva essere uno scherzo!… Mastru Sariddru, invece, rotolò a valanga per l’intera scala. Mentre precipitava per interminabili scalini ed interminabili momenti un faccia tosta, dal basso, gli gridava: Cchi succedi, mastru Sariddru… Ed egli, fra un frastuono d’inferno: Stàiu murìiennuu! Quando terminò la scala, rimettendosi in piedi e tastandosi dovunque, scrollandosi cenere e carbonella semiaccesa, con voce d’oltretomba mastru Sariddru, sempre imbacuccato, mormorava a stento: Porcu di ccà e di ddrà! un si nni po’ cchiù! Mai volgare turpiloquio o linguaggio blasfemo uscì dalla sua bocca.

Altra sera, quando alcuni monellacci, nascosti sul campanile, gli spensero il moccolo per maltrattarlo con verghe e canne, si difese da leone usando u suttapanza con una mano e reggendosi i pantaloni con l’altra: procurò dei lividi ad alcuni che furono, così, riconosciuti e successivamente, puniti.

E si può dimenticare quella solenne vigilia quando, sveglio dall’alba e morto di sonno, si addormentò bel bello, al buio, sulla panca della sacrestia? Il Cappellano era intento all’ascolto del triduo del famoso predicatore. Mentre mastru Sariddru russava saporitamente, i soliti lo coprirono col velluto nero del tummulettu (catafalco): vi erano impressi agli angoli quattro orribili teschi gialli! Poi, pian pianino, gli sistemarono attorno quattro grossi candelieri ed infine lo chiamarono a nome del Cappellano. Che successe!… Ancora semiaddormentato, inciampando, rumoreggiando, barcollando, mastru Sariddru, trascinandosi in quel funereo drappo, apparve fra sacrestia e chiesa! Addio religiosi raccoglimenti! Addio serafiche meditazioni! Tutti i fedeli erano in piedi: chi rideva, chi s’indispettiva, chi commentava: quella sera anche il saggio Don Peppino Di Napoli, apprestandosi con l’Ostensorio alla Santa Bendizione scoppiò: La carusina! La terribbiliii carusina, ccà, un ci avi a mèttiri cchiù pedi! Poco dopo, in sacrestia, alla domanda: Cu fu?, tanti vispi e rubicondi visetti, angelicamente sorridendo, innocentemente, si sforzavano di restare seri. Tanto l’indomani sarebbe stato uno stesso giorno!…

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