Paese Divino, di costi e di offuscamenti di memoria
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(Riceviamo e pubblichiamo) – Il 29, 30 e 31 luglio si è svolto a Castelbuono il Divino Festival, manifestazione che sul piano organizzativo e degli intenti pubblicitari ha raggiunto sicuramente un buon livello. Il finanziamento complessivo ammonta a 43.000 €, ma siamo alla sedicesima edizione e gli sforzi organizzativi oggi meriterebbero un riscontro diverso da quello che osserviamo.

Il Divino è certamente una vetrina che si apre tre giorni all’anno per richiudersi senza che tanti castelbuonesi ne percepiscano le ricadute. Certamente è una buona occasione per consolidare la conoscenza delle cantine vinicole da parte degli appassionati e per alimentare quel circuito lavorativo locale che ruota intorno all’ospitalità e alla ricettività alberghiera.

Ma solo questo non può bastare. Si può continuare, oggi, ad investire su forme di economia occasionale senza che ne derivi una prospettiva economica duratura e a largo raggio dopo anni di eventi?

L’amministrazione Cicero ha inventato la kermesse sul vino e l’ha riproposta per la sedicesima volta senza aver creato un vero retroterra economico e culturale che ne giustifichi gli investimenti. Eppure il nostro è il territorio dello scienziato Francesco Minà Palumbo (1814-1899) a cui è intitolato il Museo naturalistico che ha sede proprio in quel complesso, San Francesco, dove si svolge la kermesse. Può un festival legato alle attività primarie ignorare ancora uno scienziato locale i cui studi sull’agricoltura siciliana, tra cui proprio quelli sulle uve delle Madonie, non costituiscano almeno il collegamento storico-culturale per l’evento annuale? Non una mostra del suo prezioso materiale attinente alla tematica vinicola organizzata in relazione alle giornate del festival, né giornate di studio e approfondimento scientifico sulle possibilità colturali nelle Madonie, viticoltura in primis.

Minà Palumbo ha dedicato più di 230 lavori al settore vitivinicolo fra viticoltura, enologia, ampelografia (ovvero la descrizione e la classificazione dei vitigni) e ampelopatie (malattie correlate ai vitigni).

Per dire della sua prontezza, già nel 1870 cominciò a scrivere sulla fillossera e sulla sua potenza devastatrice, praticamente nello stesso tempo in cui Felix Sahut scopriva il terribile insetto sulle radici della vite a Montpellier. A partire dal 1875, nel momento in cui la fillossera arrivò anche in Italia, a Lecco, Minà Palumbo cominciò a studiare il fenomeno e a scriverne. Da quel momento fino alla morte i suoi interessi si focalizzarono quasi esclusivamente sulla enologia e sulle ampelopatie e trattò largamente della diffusione della tecnica di utilizzare i vitigni autoctoni innestandoli sui porta innesti delle viti americane.

Le date sono importanti perché mettono in luce come le distanze spaziali e temporali dell’epoca fossero risibili per gli uomini di scienza, come se avessero già allora la banda larga.

Con una storia di questa qualità alle spalle, l’iniziativa, in tutti questi anni, avrebbe potuto essere l’innesco di attività produttive attorno al settore primario. Oggi dovremmo già da tempo vederne i frutti in termini di investimenti nell’agricoltura e di economia locale, con un conseguente richiamo di turisti attratti concretamente da un settore enogastronomico circoscritto non ai tre giorni del festival, ma esteso a periodi molto più lunghi dell’anno.

A fronte di una spesa consistente per la collettività, una manifestazione deve creare occasioni di sviluppo e benessere in un territorio in cui lo spopolamento è realtà. Certa progettazione andrebbe rivista di corsa, nell’ottica di un’economia come sistema, circuito integrato e virtuoso, come d’altra parte piace dire al nostro sindaco.

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