Pandemia da SARS CoV2, una catastrofe annunciata. Riflessione di Anna Maria Cangelosi

Siamo chiusi in casa da più di un mese. Aziende, scuole e uffici fermi, va avanti solo l’indispensabile. Ma i sacrifici stanno dando i frutti sperati, il distanziamento sociale funziona e l’epidemia COVID-19 sembra aver superato il picco. Adesso dobbiamo elaborare la seconda fase, capire come procedere affinché non vengano vanificati i sacrifici fin qui sostenuti e, contemporaneamente, permettere che il mondo possa ripartire e con esso l’economia per la sopravvivenza delle famiglie, evitando così che le stesse, in preda alla disperazione, si affidino ai prestiti “facili” offerti dalla malavita: una cura più pericolosa della malattia. Ripartire in sicurezza per superare un’esperienza devastante, dal punto di vista psicologico oltre che fisico, con cui l’uomo si è dovuto confrontare.

Ma siamo sicuri che questa catastrofe fosse imprevedibile?

Siamo esposti alle epidemie da tempo immemore. L’influenza, ad esempio, è un’infezione tutt’altro che trascurabile benché ogni anno si investa in maniera massiccia nelle campagne di vaccinazione. I patogeni che storicamente hanno attaccato l’uomo hanno determinato a volte spaventosi crolli demografici e rilevanti crisi sociali, economiche e culturali. Si pensi alla peste, al colera ma anche al morbillo e al vaiolo con cui i conquistadores spagnoli sconfissero popoli evoluti come gli Incas o gli Aztechi, colonizzando senza grossi ostacoli il Nuovo mondo. Le malattie infettive, trasmesse da invasori relativamente immuni a popoli indigeni privi di difese, fecero la differenza fra un pugno di spagnoli e culture millenarie.

L’attuale pandemia è causata da un virus, un patogeno che non può essere definito vita se ci basiamo sulla teoria cellulare: non ha una membrana che identifichi il suo spazio vitale, non ha un citoplasma in cui svolgere le sue reazioni metaboliche e in cui attivare i meccanismi per la sua riproduzione. Se definiamo invece la vita come flusso di informazione genica, un virus è un tratto di materiale genetico, DNA o RNA, all’interno di una capsula proteica che, all’interno di una cellula ospite, riesce in maniera efficace a moltiplicarsi e conservarsi nel tempo.

I virus vivono a spese di tutti i tipi di cellule. Il primo ad essere identificato, a fine Ottocento, fu il virus del mosaico del tabacco che, come indica il nome, provoca una malattia in ambito vegetale. Ma il serbatoio più grande e pericoloso sono gli animali, dai quali i virus possono passare all’uomo grazie ai contatti ravvicinati dovuti, ad esempio, alle tecniche di addomesticazione sviluppate con la nascita dell’agricoltura o alle sempre maggiori interferenze fra gli habitat animali e l’uomo, frutto di una gestione insostenibile dell’ambiente. La frammentazione degli habitat aumenta la superficie in cui l’uomo viene in contatto con specie selvatiche e con i loro patogeni e aumenta il rischio di nuove malattie a cui la società non è preparata. Per i virus, l’uomo rappresenta un ospite perfetto per il gran numero di individui, l’elevata densità e la conseguente facilità di contagio ma anche per la rapidità degli spostamenti da un punto all’altro del globo.

Nel tentativo di sopravvivere, i virus possono sviluppare nel suo ospite strategie aggressive ma anche infezioni blande e, tuttavia, più subdole. Non hanno come scopo dell’esistenza quello di provocare malattie, anzi dal punto di vista evolutivo e ecologico, un patogeno molto aggressivo trae minore beneficio rispetto ad uno meno virulento che permette al suo ospite di andarsene tranquillamente in giro a disperderlo, offrendogli altri organismi in cui potersi moltiplicare. Quando un virus non riesce a realizzare con il suo ospite una relazione di reciproca tolleranza può estinguersi facilmente.

Ebola, ad esempio, è un filovirus che infetta animali selvatici (pipistrelli, scimmie, antilopi) e ha dato origine a focolai epidemici in Africa centrale a partire dal 1976, provocando febbri emorragiche la cui letalità è elevatissima. In casi del genere le epidemie si estinguono subito: i malati sviluppano dei sintomi così gravi che non riescono ad estendere il contagio al di fuori del piccolo gruppo di persone che si occupa della loro assistenza. Chi guarisce sviluppa inoltre un’immunità che rappresenta un ulteriore ostacolo alla propagazione del virus: un’immunità permanente blocca sul nascere l’infezione, rendendo l’interazione “non permissiva”. Una sconfitta dal punto di vista del virus.

Ci sono anche virus che si “nascondono”, come i predatori che si mimetizzano in attesa di cogliere la preda impreparata. L’AIDS è considerata la “peste del XX secolo” ma, nell’immaginario collettivo, è quanto di più distante dalla “peste nera” del Trecento perché l’agente eziologico, l’HIV, è un virus che riesce a nascondersi bene, anche per anni, all’interno del DNA delle cellule del nostro sistema immunitario, fino a quando una causa scatenante non lo fa riemergere con il conseguente avvio della malattia. La cosa grave è che, nella fase di latenza, gli individui inconsapevolmente diffondono il virus.

Anche altri virus riescono a nascondersi bene nelle nostre cellule e, dopo la prima infezione, rimangono silenti a lungo, compagni di vita che occasionalmente, per un calo delle nostre difese immunitarie o uno stress, si riattivano. Il comune Herpes simplex è noto per le vescicole dolorose alle labbra nella fase acuta ma, quando l’infezione si risolve, il virus “riposa” nelle fibre nervose del trigemino, cosi come il virus di Epstein-Barr, responsabile della mononucleosi e del linfoma di Burkitt, che si nasconde nei linfociti. Fino alle successive riattivazioni. In tal modo i virus convivono quasi pacificamente con i loro ospiti: il minimo disturbo reciproco è un vantaggio per entrambi e permette una più efficace diffusione.

Un virus responsabile di una zoonosi, che contagia una nuova specie, non necessariamente provoca un’epidemia. Se non impara a passare da uomo a uomo, facendo il cosiddetto salto di specie, dà un’interazione detta a “vicolo cieco”. L’influenza aviaria da virus H5N1 nel 1997 provocò la moria di migliaia di polli e tacchini di allevamento intensivo ad Hong Kong. Il virus riusciva anche ad infettare l’uomo ma solo tra gli operatori a contatto diretto con gli animali. Oggi il virus si è “globalizzato” e si presenta negli uccelli di allevamento di tutto il mondo, provocando nell’uomo un’infezione ad elevatissima letalità, i cui danni sono per fortuna ancora limitati perché l’H5N1 sembra non avere fatto il salto di specie: un individuo infetto non riesce a contagiarne altri.

Questo non deve indurre tuttavia ad abbassare la guardia perché, da questa prima fase dell’interazione uomo-virus, il passaggio alla seconda è breve. Anche qui ci viene in soccorso la storia delle epidemie.

La prima infezione da SARS, Severe Acute Respiratory Syndrome, si registrò nel 2002 in una provincia della Cina meridionale fra gli operatori della ristorazione che venivano a contatto diretto con la civetta delle palme, un mammifero, contrariamente a quanto suggerisce il nome, molto ricercato per la prelibatezza delle sue carni. Il virus era un coronavirus, come il famigerato SARS CoV2 dell’emergenza in atto. Si tratta di virus che hanno come materiale genetico l’RNA e si dà il caso che da tempo i biologi sappiano che l’enzima che interviene nella duplicazione dell’RNA, la RNA-polimerasi, non ha la capacità di correggere gli eventuali errori di copiatura, attività di cui invece è dotata la DNA-polimerasi, detta proofreading o correzione di bozze. Quindi i virus a RNA riescono a sviluppare velocemente variazioni che possono garantire loro un vantaggio nelle strategie di sopravvivenza. Un errore, una mutazione della sequenza nucleotidica nell’informazione genica, cambia anche la sequenza degli amminoacidi della proteina codificata e può cambiare anche la sua forma tridimensionale. Dal momento che in biologia la forma è funzione, una proteina diversa può manifestare caratteristiche nuove sulle quali la selezione naturale agisce come un filtro: ciò che funziona e conferisce un vantaggio per la sopravvivenza viene conservato, il resto scompare. E’ grazie a questo meccanismo che un virus, ad un tratto, fa il cosiddetto salto di specie e riesce a riconoscere come ospite l’uomo, un serbatoio nuovo ed immenso, un terreno vergine in cui moltiplicarsi e diffondersi.

I coronavirus sono così chiamati perché hanno un ulteriore involucro esterno, detto envelope, una membrana in cui sono immerse delle glicoproteine (spikes) che sporgono dalla superficie e ricordano la forma di una corona, da cui il nome. Queste proteine permettono al virus di riconoscere le cellule bersaglio, attraverso una sorta di interazione molto specifica del tipo chiave-serratura con le proteine presenti sulle membrane cellulari con la funzione di ricevere e rispondere agli stimoli del mondo esterno. La domanda è tuttavia cosa ci fa, sulle nostre cellule, un recettore che ha esattamente la forma adatta a legare le spikes del SARS CoV2. Per poter rispondere a questa domanda bisogna cambiare prospettiva: non è la cellula ad avere recettori per i virus, sono questi che hanno sviluppato casualmente forme capaci di aggirare le difese cellulari e di aprire la porta d’ingresso della cellula bersaglio come ad un amico conosciuto. L’infezione COVID-19 può evolvere in una forma benigna, quando non addirittura asintomatica, o in gravi problemi respiratori da polmonite interstiziale, più frequente nei pazienti di sesso maschile, anziani o con comorbilità. Ma più raramente si sono osservate forme gravi anche in pazienti giovani e sani. La necessità di ricorrere alla terapia intensiva, unita ad errori di strategie sanitarie, o a sistemi sanitari iniqui, come quelli vigenti nella grande patria della democrazia, l’America, stanno determinando una tragedia di proporzioni enormi.

Senza volere scomodare teorie complottiste, il SARS CoV2 sembra provenire da un pipistrello, ma si ritiene che sia passato all’uomo attraverso un altro ospite intermedio non ancora individuato, forse un pangolino. Così come per la SARS del 2002, o per la più grave anche se limitata MERS CoV del 2012, per non parlare delle epidemie di virus influenzali del Novecento, la “spagnola” del 1918, l’“asiatica” del 1957 e la “Hong Kong” del 1968, abbiamo assistito anche in questo caso al salto di specie di virus da serbatoi animali all’uomo.

In un contesto del genere è facile cercare colpevoli, come ad esempio si è fatto per le abitudini alimentari degli asiatici. Una lettura del genere è, tuttavia, superficiale e fuorviante perché non tiene conto delle profonde trasformazioni sociali ed economiche che hanno avuto conseguenze devastanti sull’ambiente e, di ritorno, sull’uomo. La Cina ad esempio è uno dei maggiori produttori di carni da allevamento intensivo, soprattutto maiali. La scomparsa progressiva dei piccoli allevatori, di fronte a colossi del mercato, ha avuto due conseguenze pericolose. Da un lato i piccoli allevatori si sono convertiti ad un mercato di nicchia che asseconda il gusto alimentare per gli animali selvatici, macellati in ambienti privi delle indispensabili misure igieniche, come i famigerati wet market, dall’altro lato, la diffusione degli allevamenti intensivi ha eroso spazi vitali alle foreste e, più in generale, agli habitat di animali selvatici che si sono dovuti spostare in ambienti antropizzati. In entrambi i casi, il contatto con specie selvatiche ha prodotto un aumento del rischio di nuove epidemie.

Nel 1999, un virus ad elevatissima mortalità fu la causa di piccoli focolai in Malesia. Il Nipah è un paramyxovirus, parente stretto dei virus del morbillo e della parotite, che ha fatto ben due salti di specie per arrivare all’uomo in cui provoca febbre ed encefalite, associate a difficoltà respiratorie. Gli incendi e la siccità che negli anni Novanta avevano devastato l’isola di Sumatra, habitat naturale di un pipistrello che si nutre di frutta, avevano costretto l’animale a spostarsi nella penisola malese dove è avvenuto il contatto con gli allevamenti di maiali. Il primo salto di specie fu quello tra il pipistrello e il maiale ma, sfortunatamente, il secondo salto di specie avvenne tra il maiale e l’uomo, un passaggio abbastanza facile dal momento che uomo e maiale sono geneticamente molto vicini.

Questi esempi, fra i tanti possibili, dimostrano che oggi non possiamo permetterci di dire che non ce lo aspettavamo. La storia è magistra vitae, così come la storia delle epidemie, e da qui possiamo ripartire forti di tre insegnamenti.

Il primo di tipo sociale. Oggi stiamo pagando l’atteggiamento di negligente irresponsabilità di chi, per mandato istituzionale, doveva predisporre piani di emergenza, potenziare la sanità e non invece distruggerla nei numeri, nella qualità, nel rilievo sociale degli operatori. Oggi è facile dire che medici, infermieri e operatori sanitari sono degli eroi. Riporto le parole di un medico dell’ospedale San Carlo di Potenza, Alberto Mingione, che scrive in una lettera ai colleghi: “Non permettere a nessuno di chiamarti eroe. Perché chi ti chiama eroe in tempo di guerra è lo stesso che in tempo di pace ha svilito, mortificato, dissacrato la professione medica […] Perché ti stanno usando […] per stendere un’elegante, efficace cortina sulle loro enormi responsabilità: quella di averti tolto i mezzi per lavorare ieri, e quella di mandarti oggi in guerra senza le armi”. Non dimentichiamoci domani di rivalutare la sanità pubblica, facendo tesoro anche delle preziose esperienze messe in campo da alcune regioni, indipendentemente dal colore politico.

Il secondo di tipo ecologico. La natura che l’uomo tenta continuamente di dominare mostra una complessità alla quale difficilmente potremo contrapporre giochi di forza. Se continuiamo a sfruttare le risorse naturali ed ecosistemiche in modo non sostenibile, presto dovremo confrontarci con il rischio di estinzione della nostra specie. Ogni paese fa parte di uno scacchiere geopolitico internazionale, le cui scelte hanno profonde ricadute sulla salute dell’intero pianeta: così come, se crolla l’Italia crolla anche l’Europa, a maggior ragione, se distruggiamo l’ambiente distruggiamo noi stessi.

L’ultimo, ma non per importanza, è di tipo personale. In questo periodo di distanziamento sociale emerge in tutta la sua forza la differenza tra chi è riuscito a costruire uno stile di vita basato su valori universali, come la famiglia, il rispetto reciproco, la felicità fatta di lentezza e dell’importanza delle piccole cose, e chi invece ha inseguito chimere, mode vuote che oggi mostrano in modo clamoroso la loro inconsistenza. Una società governata dall’illusione del progresso che dimentica la salute della società, del pianeta che ci sostiene e dell’uomo è destinata ad infrangere i suoi sogni di gloria contro un banalissimo ammasso di molecole che oggi chiamiamo SARS CoV2, domani avrà un altro nome.

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