Passato castelbuonese, «Villaneggiatura»… «Sbilliggiatura»… Villeggiatura…| seconda parte

«Villaneggiatura»… «Sbilliggiatura»… Villeggiatura…
di Giuseppe De Luca
[Pubblicato su Le Madonie, 15 LUGLIO 1989]
[Prima parte disponibile a questo link]

Intanto, come già detto, ci si proponeva di partire dùoppu sant’Anna. Nessuno, infatti, lo faceva prima: sia per devozione verso la Patrona, sia con l’intenzione di godersi la festa. Allora si sconoscevano radio, televisori, giradischi, mangianastri e quindi per ascoltare un po’ di musica sinfonica, operistica, operettistica era necessario aspettare le rare festività, delle quali il primo posto in assoluto era tenuto da quella della Madre sant’Anna, seguita da quella di Gesù Crocifisso. In quei tempi era impossibile, specialmente da parte della gioventù, la rinunzia ô iùocu-fùocu, â vulata ‘î palluna, â cursa ‘î scecchi, â cursa ntê sacchi, ô iùoch’î pignati, ô iùoch’î pateddri, â ntinna, â bbanna forestera, ê loggi, â iucata ô crivu, ô tiru ô bersagliu ed a tutto ciò che vi era connesso ed addentellato.

In quei giorni, quando si doveva partire, era indispensabile alzarsi presto, in quanto le cavalcature sarebbero servite poi alle esigenze di lavoro dei pastori e dei contadini, che non essendo, allora, sottoposti a tariffe ed orari sindacali e, sforniti com’erano tutti di orologio al polso, dovevano regolare i propri impegni o con il sole o con gli orologi della Chiazzetta e della Chiazza-nnintra o con i rintocchi delle campane delle varie chiese. I contadini, essendo quasi tutti mezzadri, erano di conseguenza coloro che approntavano gli animali da trasporto, anche per i «civili» proprietari.

Non tutti, è vero, avevano molte masserizie da traslocare, contentandosi ognuno del minimo indispensabile. Ma è pur vero anche, che per tutti, ciò significava pur sempre un trasloco. Per i contadini che si apprestavano, nell’estate, a continuare, magari con la collaborazione assidua della moglie e dei figli, le fatiche del lavoro agricolo annuale, intaccando i frassini e provvedendo alla raccolta di frutta, manna, mandorle, uva e castagne ed alle previdenti provviste per la stagione fredda, era sufficiente pensare alla ncirata, la classica mantella ripassata di olio di lino e fuliggine: se d’inverno era l’inseparabile compagna del villano, era altresì indispensabile nella calda stagione perché, in caso di improvvisi rovesci temporaleschi, serviva a coprire, ben ancorata a grosse pietre, la cuspide o la chiglia del pagliaio, che costituiva il ricovero per la «villaneggiatura», come, con amara autoironia ma ridendo, essi stessi definivano il loro dimorare in campagna con la propria famiglia.

E quando a questa indimenticabile suppellettile i contadini aggiungevano il coltello da intaccare, scàtuli e rrasuli per la manna, qualche pentola, a maiddra, u patiddruni, alcuni sacchi, e panieri e ceste, il corredo estivo era già quasi completato. In quanto a dormire, sul luogo, erano belli e pronti i iazzi, inconfondibili letti all’aperto, sistemati su quattro stacci, che offrivano per soffice materasso fasci di inestra (ginestra), ddisa (ampelodesmo) ed erbe e frasche varie; oppure, dentro il pagliaio, stavano ad aspettare alcune manciate di paglia, che serviva da ricettacolo pure per animaletti vari, quasi un minuscolo zoo. Come lussuoso salotto e graziosa anticamera, davanti al pagliaio, c’era un occhieggiante vancùolu (grosso sasso, bianco e lucido, uscito direttamente dal vicino torrente) o altrimenti u ccippu (robusto spezzone di tronco di frassino), i quali fungevano a doppio uso, a discrezione, indifferentemente, da panca, rilassante, e da tavolo, comodissimo.

Non lontano dal pagliaio spiccavano superbamente dal terreno e si innalzavano maestose le artistiche staccionate, sulle quali si stendevano i cannizzi per asciugare pomodori spaccati, zucchine affettate, fichi, sorbe e pere. Razzolavano, ruspando fra le trite ristoppie, attorno al pagliaio, oppure si appollaiavano sulla sua cima o fra i rami bassi degli alberi galline e galletti; sotto un vetusto crivu pigolava una scuvata di pulcini; su tutti e su tutto faceva buona guardia un grosso cane ringhioso.

In fatto di servizi igienici, quivi e dovunque, bisogna considerare che la terra è stata da sempre desiderosa di concime e che, pertanto, ognuno, come il celebre compare Turiddu della Cavalleria Rusticana, in ben altra differente situazione, poteva liberamente ripetere a volontà: «vado fuori, all’aperto!…».

C’erano poi famiglie che si recavano a sbilliggiari, fra mille incertezze, scomodità e peripezie: gli uomini, sia quelli impegnati nell’artigianato (calzolai, sarti, barbieri, stagnini maniscalchi, fabbri, legnaiuoli, maestri d’ascia), sia gli altri operai in bracciantato vario (pircialara, spaccapietre, stazzunara, fornaciai, boscaiuoli, carbonai), si riunivano, infatti, dopo molti stenti, alla famiglia, solamente nella tarda ora di notte, creando per sé e per i propri familiari solenni premesse per la sbilliggiatura, che istituzionalmente era più di un incomodo, mai un benessere: però nessuno di coloro che potevano viverla ci rinunziava.

Quasi tutti badavano – e vi si dedicavano appassionatamente – ad un orticello di famiglia, il quale produceva saporiti pumadamuri (pomodori) siccagni, piccole ma brillanti e nere melenzane, gustosi peperoni, teneri cavoletti, verdissime zucchine, freschi ottimi cimi (novelli germogli cucurbitacei): l’orto veniva irrigato, spesso, con l’acqua del pozzo, tirata a forza di braccia. Sebbene si tramandasse come avvertimento il proverbio ùortu: ùomu mùortu, tuttavia, a quel che sembra, nessuno morì per essersi dedicato all’orto o per aver mangiato di quegli ortaggi.

Ma c’erano anche, grazie al Signore, quelli della villeggiatura: essi, sì, che conducevano una vita relativamente agiata!…

Non esistendo, nella casa di campagna, che qualche sedia sfunnatizza e sciancateddra, a causa dei ladri di macchia e dei perciapagliari, che scassavano, dovunque e comunque, e facevano sparire ogni cosa, si doveva ricorrere ai muli ed agli asini dei mezzadri, oltre che a quelli personali; questi animali servivano per il trasporto di sedie, trispi (cavalletti) di legno e di ferro, tavole per i letti, materassi variopinti, na trusciteddra di rrobbi (vestiario e biancheria di casa), tavuletta, padellone di rame, pentole di ferro smaltato e di terracotta, la pila di legno e la vasca di lamiera per il bucato, u catu granni, i lanceddri di zinco ppi carriari l’acqua dû puzzu, u bbummarìeddru d’argilla (ziretto) ppi tèniri l’acqua frisca arripustata, e, poi ancora, u cat’û puzzu, la cui corda, in extremis, aiutava a fermare meglio alla vardeddra (basto) qualche collo pericolante.

E non bisognava dimenticare le galline che, meschinelle, affrontavano il trasferimento, legate a gruppi, appese a testa in giù al basto, come i manzoniani capponi di Renzo Tramaglino; né il gatto che, a sentire tutti vocianti, in quegli affannosi preparativi, si univa, poveraccio, a miagolare più del solito, conscio del fatto che da un momento all’altro sarebbe finito chiuso dentro un sacco, attaccato e sballottato nel punto più traballante di quel bene di Dio!…

Queste ed altre cose ancora, dondolandosi e cozzandosi sul basto di decine e decine di quadrupedi, producevano, per alcuni giorni, uno strano tramestio, e, fondendosi allo zoccolare degli stessi animali, creavano per le strade del paese, un caratteristico rumoreggiare.

Ci si toglieva così… il pensiero del trasloco delle masserizie…

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