Tabarè ’73. E niente fu più come prima – Appunti per una storia della maschera

(In ricordo di Mario Ignatti)

(Di Massimo Genchi) – Oggi allo spettatore sembra del tutto naturale, all’apertura del sipario, ritrovarsi tutti gli attori e i musicanti perfettamente allineati sul palco ma ci fu un tempo in cui le cose andavano in maniera assai diversa.

Per tanti anni, la maschera ebbe una struttura di ben altro tipo: vale a dire una data ambientazione induceva un filo conduttore che si dipanava per tutta la durata della rappresentazione. E quindi il mago che, attraverso la sfera di cristallo, era in grado di prevedere eventi futuri, il giro del camposanto dove i morti – in una sorta di Spoon River non autobiografica – all’interno dei loculi, dispensavano pezzi di sfottò riferiti a fatti e personaggi da passare al torchio della satira e poi ancora: l’inferno, il paradiso, i reperti portati dalla luna o un giardino stracolmo di fiori, ognuno dei quali, fra gli stami, conteneva una parodia, la spartenza di un’anguria, senza dimenticare che l’ultima sera, a cìelu cadenti, andava in scena il funerale di Carnevale morto di indigestione per avere, da par suo, mangiato come un porco.

Poi una sera del Carnevale 1973, forse domenica 4 marzo, successe una cosa mai vista prima. Quattro ragazzini alle prime armi, poco più che ventenni, universitari, quindi STUDIATI (ahi!, ahi!, ahi!), salirono sul palco per rappresentare il loro sketch e dopo meno di un quarto d’ora, allora questa era la durata massima della maschera, alla chiusura del sipario blu delle Fontanelle, avevano già operato il più grande strappo col passato.

Il gruppo aveva un nome che ho sempre ritenuto affascinante, I FIGLI DI NESSUNO, tratto dal famoso film omonimo del 1951 interpretato da Amedeo Nazzari e da Yvonne Sanson anche se – a quanto pare – c’è anche un riferimento al famoso canto omonimo, scritto durante il biennio rosso, più tardi diventato anche un canto partigiano. Benché fossero una compagnia, quasi in senso teatrale, i protagonisti sul palco erano sempre Pietro Carollo, Mario Ignatti, Lino e Peppinello Mazzola ai quali, talvolta, si affiancava Antonio Abbate.

Essere “studiati”, possedere quel quid, vivere fuori paese, aveva permesso loro di scoprire nuovi generi di spettacolo, primo fra tutti il cabaret, che in quegli anni era in gran voga soprattutto con la scena milanese e quindi Enzo Jannacci, Giorgio Gaber, Beppe Viola, Cochi e Renato, quelli del Derby Club e i Gufi di Nanni Svampa e Gianni Magni. Non è un caso che quella sera andarono in scena vestiti alla maniera dei Gufi, completamente in nero, con l’unica differenza che in testa avevano il cilindro e non la bombetta.

E non è neanche un caso che il nome di quello spettacolo nuovo, il cabaret, suggellasse già col titolo, una rappresentazione di rottura anche se lo storpiarono in Tabarè, abbinandolo a quel numero monco – ‘73 – un po’ per fare rima e un po’ perché era un vezzo di quegli anni: come era già accaduto con la canzone Tripoli ’69 e il film Boccaccio ’70.

Si presentarono, dunque, vestiti di nero con il titolo sillabato TA-BA-RE’-’73 sul petto, riprodotto su carta sensibile alla fluorescenza, su un palco completamente buio con la sola eccezione della luce viola della lampada di Wood, allora molto usata negli spettacoli di cabaret (e non solo), che naturalmente lasciò tutti allibiti in sala per i visi completamente bui degli attori, che individuavi a malapena dalla voce, ma anche per gli effetti creati dalla fluorescenza sugli abiti, oltre che sugli occhi e sui denti di chi era sulla scena.

Quella maschera, fin dall’apertura del sipario, diede a tutti i presenti l’idea chiara e netta che quella sera in quel posto stava cambiando il modo, non antico ma consolidato, di strutturare una rappresentazione di satira di carnevale. A partire da quella scena iniziale, che destò un certo non lieve raccapriccio, ma anche dal particolare e innovativo modo di stare sul palco degli attori schierati uno accanto all’altro. Uno schema che perdura ancora oggi, a distanza di cinquant’anni, che allora aveva un senso perché il copione era coerente con quella impostazione scenica, mentre in seguito quasi mai è stato così. Ci si continua a presentare schierati uno accanto all’altro – o cc’entra o un c’entra – molto spesso più per abitudine che per scelta consapevole.

Ma Tabarè ’73 è stata una maschera di rottura anche nei contenuti. Già nelle quattro battute iniziali e nel loro ritmo sincopato c’è tutto lo humour tipico del cabaret piuttosto che la comicità grassa della maschera:

Questo voleva essere uno spettacolo di protesta ma non protesta contro nessuno. Anzi siamo tutti d’accordo!

Questo voleva essere uno spettacolo spinto. Ma non abbiamo trovato nessuno che spingesse.

Questo voleva essere uno spettacolo di rottura ma dopo la rottura di certi scaluna…

E qui c’è tutto il grave problema legato alla vita brevis della satira in quanto, dopo cinquant’anni, anche a volere spiegare per filo e per segno la storia di quegli scaloni rotti d’autorità (e poi ricostruiti a supicchiarìa), ai più sembrerebbe che quella comicità sia acqua frisca, che non abbia alcun mordente. Ma non è così. Sarebbe un po’ come giudicare il jazz degli anni Cinquanta con l’orecchio di chi oggi ascolta il rap. Che Tabarè ’73 rappresenti la rottura con la vecchia maschera viene esplicitamente dichiarato dai Figli di Nessuno in apertura con una canzoncina di cinquanta secondi ripresa da una stornellata pubblicitaria di Cochi e Renato:

Contro quelle tradizioni di sfottò e cartapesta

solo noi abbiam deciso il veglione di cambiare […]

Il cambiamento, quindi. In effetti non era di tutti i giorni vedere sfilare in processione sul palco con le candele accese, rese ancora più vivide da quel buio pesto, una schiera di comparse nei panni di galoppini del senatore Carollo, beato prima che sindaco, e ispirata dal film PER GRAZIA RICEVUTA – quando si dice le coincidenze –  dove, «Viva viva sant’Eusebio protettore dell’anima mia», veniva parodiato in

Viva, viva san Vincenzo proprietario del voto mio

Viva, viva san Vincenzo mio datore di lavoro

Nessuno fino ad allora aveva detto dal palco, sia pure con vago doppio senso, che il sindaco fosse contemporaneamente «proprietario del voto mio» e «mio datore di lavoro». E nessuno lo avrebbe mai più detto in seguito, se non ricordo male. Sarebbe interessante oggi, magari solo come pronostico, chiedersi cosa potrebbe accadere se quelle stesse parole venissero rivolte all’attuale sindaco signor Cicero. L’unico dubbio potrebbe riguardare l’ammontare della richiesta di risarcimento per danni morali avanzata al giudice, non altro.

Il finale è poi assolutamente sorprendente perché, dopo una pièce costruita sul cabaret, parlando della condizione economica locale, arriva inaspettata una sagra delle ncùrie del paese

Giacché c’è a Fiat

fabbrichi di Gliòmmari e Rucchelli

una ricca distesa di Citrola e Muntagneddra

l’allevamento equino di Affucaiumenti

una fabbrica di Passuluna

e c’è cu i Pizzilìa e lassa i Rrusicuna

e non si capisce come in mezzo a tanta ricchezza

possa esistere… a Puviriddrami.

il tutto mentre comincia a scorrere il sipario, non già su una canzone, ma ritornando di nuovo al cabaret con una battuta tipica del suo stile teatrale:

Sarà per l’aumento dei prezzi – ìsanu anche i Prezzi Fissi –

ma non è vero che aumentano anche i prezzi delle stoffe.

Almeno a teatro cala la tela.

Fine.

Ma invece fu solo l’inizio. Perché da quella sera, chiunque si sia misurato con la stesura e la rappresentazione di una satira di carnevale, in maniera più o meno subliminale, ha fatto i conti con Tabarè ’73 che è stata fonte di ispirazione, di innovazioni sceniche, di nuove sperimentazioni testuali, musicali. Una ola, un effetto domino, che si protrae da cinquant’anni.

Vogliate gradire l’ascolto della registrazione di Tabarè ’73, qui sopra pubblicata. Ringrazio Franco Leta per averla gelosamente custodita per tanti anni e oggi messa a disposizione. Purtroppo non è la versione dal vivo alle Fontanelle. Mi rammarico di non potere pubblicare il live e di non essere riuscito a trovare le foto scattate in occasione di quella rappresentazione, che pure vidi in passato. Infine, vorrei ringraziare di ogni cosa Pietro Carollo, Lino Mazzola, Giovanni Ignatti e, last but not least, Peppe Cucco.

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