Un matematico, due sindaci, il fonte di Camar e gli scecchi

 

Note, divagazioni e stravaganze toponomastiche – Quarta puntata

Diffusa curiosità ha suscitato da sempre il misterioso edificio (foto 1), ormai semidiroccato, che sorge a pochi passi dall’Abbazia di santa Maria del Parto, ormai per tutti – chissà perché – il Romitaggio.

Foto 1

Abate di santa Maria del Parto per molto tempo, grazie al mecenatismo dei Ventimiglia, fu l’eccellentissimo scienziato Francesco Maurolico (foto 2) al quale la matematica molto deve sia per l’introduzione del potentissimo strumento, usato per dimostrare proprietà dei numeri e comunemente detto principio di induzione, sia per avere ricostruito diverse opere perdute di grandissimi matematici quali Archimede e Apollonio. In particolare, la ricostruzione del V e del VI libro delle coniche di Apollonio avvenne interamente a san Guglielmo e fu terminata, annota Maurolico, il 25 ottobre 1547 all’ora quarta della notte, cioè quattro ore dopo il tramonto.

Foto 2 – Francesco Maurolico (1494-1575)

 

I diversi e prolungati soggiorni di Maurolico a Castelbuono non passarono inosservati né furono dimenticati, a differenza di quanto avverrebbe oggi, se, a distanza di più di trecento anni, l’attento toponomastico ottocentesco ha avvertito la necessità di intitolare allo scienziato messinese una tra le vie più importanti qual è la popolare Stratê Minà (foto 3), denominazione, quest’ultima, ancora viva nel parlato castelbuonese.

Foto 3 – La Stratê Minà durante la processione di san Vincenzo, 7 maggio 1927

 

            Nello stesso periodo, l’Abbazia di santa Maria del Parto (foto 4), a seguito della confisca dei beni ecclesiastici da parte dello Stato del 1866, veniva acquistata dalla famiglia del non ancora sindaco Mariano Raimondi. Dal momento che la Chiesa aveva proibito ai fedeli di acquistare i beni confiscati, i contravventori incapparono in pene varie comminate dall’autorità religiosa e per questo, ai Raimondi, in particolare, fu affibbiato il soprannome di Scumunicati.

Foto 4

 

            Mariano Raimondi (foto 5), al quale fu intitolata la via che dalla Piazzetta porta in piazza san Leonardo, che si chiamava, appunto, via san Leonardo, fu un sindaco di raro civismo e senso delle istituzioni. Più che un sindaco tra la gente, a parole, fu sindaco per la gente, coi fatti. Una persona misurata e di invidiabile aplomb. Messosi a capo del movimento democratico (altra cosa rispetto a quello che sarebbe stato, ottant’anni dopo, palestra e trampolino di lancio per un altro sindaco), nel 1912 fu eletto primo cittadino e, per la prima volta, Castelbuono ebbe un’amministrazione operaia. Il primo atto di Raimondi a sostegno della sua gente fu l’istituzione di un granaio del popolo che pose fine alle vessazioni perpetrate da commercianti e produttori di grano ai danni dei suoi concittadini, praticamente ridotti alla fame. Anticipando diverse decine di migliaia di lire, importò a proprie spese notevoli quantitativi di grano che distribuì alle famiglie a prezzo di costo. Lo stesso distacco olimpico dal denaro sfoggiato dai politicanti di oggi, specialmente da quelli che, non avendo né arte né parte, intendono la politica come pura fonte di reddito.

Mariano Raimondi (1861-1925)

 

Nel 1920, durante il suo secondo mandato, il Castello fu messo all’asta dagli ultimi Ventimiglia e il nostro sindaco, benché ripetutamente minacciato dalla mafia, ostentando coraggio e sprezzo del pericolo, seppe resistere alle intimidazioni subite e, grazie al buon esito della colletta popolare e al suo personale finanziamento, riuscì ad assicurare ai castelbuonesi il loro Castello. Se l’ottimo Mariano Raimondi avesse immaginato, solo lontanamente, le ultime vergognose baruffe susseguenti al rinnovo del CdA del Museo Civico, difficilmente avrebbe corso il serio rischio di farsi togliere di mezzo dalla mafia per salvare il simbolo di Castelbuono.

Ritorniamo, però, al nostro misterioso edificio adiacente al Romitaggio (foto 6). Presso gli eredi del benemerito sindaco Raimondi, che ne sono proprietari, questo fabbricato, da sempre, viene chiamato, ancora più misteriosamente, i parchi.

Foto 6

 

Coloro che a Castelbuono cercano a tutti i costi, e spesso a sproposito, penetrazioni della cultura araba ritengono che questa costruzione sia quanto rimane dello splendido palazzo del Caid e che Mustafà, quello della omonima via, sia stato una di queste autorità durante il periodo della dominazione araba in Sicilia. Se, però, nell’XI secolo Castelbuono non era stata ancora fondata, ciò rappresenta solo un trascurabile dettaglio.

La verità, invece, è che in quel fabbricato, nel ‘600, fu impiantata dai Ventimiglia la prima vetreria di Castelbuono (foto 7-11). Alcuni sopralluoghi effettuati colà da Minà Palumbo già negli anni trenta dell’Ottocento portarono al rinvenimento di frantumi di vasi di vetro nero e bianchi. L’esistenza in quel sito di una vetreria risultava evidente anche per via del fatto che molti mattoni della costruzione, agli occhi del nostro illustre scienziato, presentavano incrostazioni di vetro di vari colori e chiari segni di essere stati portati ad altissime temperature. E’ peraltro noto che nel XVII secolo la vetreria di san Guglielmo era gestita da imprenditori genovesi che avevano reclutato vetrai muranesi e campani.

 

Foto 7

Foto 8

Foto 9

Foto 10

Foto 11

 

I marchesi di Geraci, successivamente, eressero una nuova vetreria intra moenia, attiva fino ai primi dell’800, diversi manufatti della quale si possono ammirare nel museo Minà Palumbo (foto 12). La nuova vetriera fu edificata, dietro la chiesa di santa Nicola, nel quartiere che prese il nome dalla fabbrica e dove fino al secondo dopoguerra si poteva individuare più di un vestigio della vetriera (foto 13). E’ singolare (ma, attenzione, non è esclusivo del dialetto di Castelbuono) che per i santi Nicola e Nicasio si dica santa Nicola e santa Niquasi come se il santo in questione fosse femmina.

Foto 12

 

 

La vetriera dovette sorgere nell’estremità sud di quel quartiere (foto 14-15), nei pressi dello slargo popolarmente detto u chianû puzzu, per via del pozzo pubblico, che vi si trovava, documentato nelle mappe ottocentesche, e prospettante (foto 16) su quella che, nella seconda metà Ottocento, sarebbe stata la rotabile Castelbuono Geraci.

Foto 14

Foto 15

 

Foto 16

 

A due passi dal quartiere della Vitrera sorge un altro misterioso fabbricato (foto 17), un pinnacolo di mattoni a ffacci vista che un tempo molti chiamavano il parafulmini, e in effetti lo è (foto 18), ma che in origine potrebbe essere stata una ciminiera. Adiacente ad esso, è la centrale termoelettrica (foto 19) che, a partire dal 1926, produsse energia elettrica per l’illuminazione pubblica e privata.

Foto 17

Foto 18

 

Foto 19 – Operai della centrale termoelettrica

 

 L’illuminazione delle strade con le lampade ad incandescenza aveva mandato in pensione la vecchia e fiabesca figura del lampionaio il quale armato di scala a pioli aveva il compito, al tramonto, di accendere i lampioni ad arsòliu posti agli angoli delle strade (fig. 20) e all’alba di spegnerli. Ma in questo, spesso, veniva anticipato dal vento che a Castelbuono non ha mai disdegnato di soffiare: Casteddribbùonu mmintusu e vintusu, Castelbuono ingegnoso e ventoso.

Foto 20 – Lampione a petrolio posto all’angolo di via Maurolico (1913)

Nei primi tempi, la scansione oraria dell’erogazione dell’energia elettrica riproduceva quella dei lampioni, vale a dire dal tramonto all’alba. L’improvviso illuminarsi delle strade sul far della sera mandava in visibilio tutti, ma specialmente i bambini, che scorrazzavano per le strade gridando: a luci vinni!, a luci vinni! E’ interessante notare che la luce elettrica antropologicamente è considerata alla stregua di un essere umano visto che per constatare l’erogazione o l’interruzione dell’energia elettrica si continua a dire vinni a luci, si nn’ivi a luci, murìu a luci esattamente come una persona che viene, che va, che muore.

Nella centrale di via Geraci l’energia elettrica veniva prodotta dall’energia termica, per mezzo di un complesso sistema di alternatori e di motori a scoppio (foto 21) che con il loro fragore e la messa in moto degli intricati marchingegni davano all’attonito osservatore un senso di profondo smarrimento al punto che per rimarcare una situazione di trambusto o di confusione ordinariamente si dice: oh nfìernu cc’è â centrali… E la stessa via Geraci, nel tratto compreso fra lo stabilimento della Mannite e il curvone dei Calagioli, da allora, è per tutti u rettifilâ centrali (foto 22-23).

Foto 21 – Giovanni Mancuso e Nunzio di Garbo alle prese con un alternatore

 

Foto 22

 

Foto 23

La ViaGeraci, a seguito del rinnovo della toponomastica del 1967, è diventata via Fonti di Camar, denominazione astrusa prima ancora che di difficile addomesticamento etimologico.

Vito Amico nel suo Lexicon topographicum siculum del 1754, alla voce Castelbuono, parla del fonte di Camar che si trova “non lungi dal paese” ed è “mentovato poiché hanno le sue acque proprietà purgativa”. Il fonte di Camar, in realtà sorgeva in contrada Calagioli, nelle adiacenze dell’abitazione dell’ex sindaco Mario Cicero, zona ricca di acque, infatti vi sorgeva un altro mulino di cui, distrattamente, non ho detto nella puntata precedente.

L’etimologia di Camar è controversa. Gli specialisti tendendo ad escludere che si tratti di un arabismo, essendo rimasta la nostra zona squisitamente bizantina, ritengono derivi dal greco ‘cammarion’ aconito, pianta velenosa. In effetti esiste una euforbia, l’Euforbia dendroides, che in dialetto è chiamata camarruni. Però in greco ‘camara’ significa copertura a volta e ciò potrebbe riferirsi al fatto che il fonte di Camar, al pari della cubba araba, fosse una fontana superiormente chiusa da una cupola.

E’ un vero peccato che sia poco probabile l’ipotesi avanzata dal famoso arabista Gian Battista Pellegrini, secondo il quale Camar deriverebbe dall’arabo ‘himār’ che significa asino, tant’è che nel Libro di Ruggero del famoso geografo arabo Edrisi ‘Al himār’ è il nome di Isnello. Sarebbe stata la quadratura del cerchio: Camar, Calagioli, Mario Cicero,  i scecchi.

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