Castelbuono, Luglio 1943 – prima parte


CASTELBUONO, LUGLIO 1943
di Giuseppe De Luca
[Pubblicato su Le Madonie, 1 LUGLIO 1988]

Eravamo rientrati da Palermo, noi studenti, alla vigilia del Natale 1942: eravamo un tantino provati: le ultime lezioni, a ranghi ridotti, dopo nottate insonni, trascorse tra il crepitio delle mitragliere e lo scoppio delle granate della nostra artiglieria contraerea e nell’atterrita abitudine al sibilo ed alla deflagrazione delle bombe nemiche, si erano svolte in gran parte, in dicem­bre, nei ricoveri sotterranei dell’Istituto. La mattina contavamo gli as­senti e poi ci raccontavamo dei negozi sventrati, di saracinesche divelte, di palazzi disastrati, di persone sepolte o estratte dalle macerie, di cavalli morti legati dietro le car­rozze, di amici e compagni scoraggiati, che con i loro familiari avviliti fuggivano nei centri minori della provincia.

In paese avevamo trovato un’atmosfera ben diversa, del tutto op­posta a quella lasciata alcuni anni addietro: famiglie in lutto per i cari giovani che non sarebbero più tornati e famiglie in angosciosa attesa di notizie che non arrivavano, gente affamata, gente triste, gente spaurita. Malgrado le «balate» della «Stradalonga» e della «Chiazza» fossero le stesse, pure, ai nostri oc­chi, apparivano oltremodo differenti: a calpestarle non erano più gli stessi di prima, mancavano gli uomini dell’età di mezzo chiamati a combattere; al posto di costoro circolava un nugolo di altre persone: giovani e non. C’erano anche, soprattutto, militari: un reparto del­l’Autocentro con i mezzi fuori uso in fase di riparazione; un grosso plotone di fanteria che «aiutava» (leggasi: sorvegliava) una compatta compagnia di soldati sloveni e di croati, disarmati, inviati a far legna e a carbonizzare nel nostro bosco; una batteria di Artiglieria da campagna con pesanti cannoni che, per noi già inquadrati nella mentalità «premilitare», assumevano un sapore strano in quanto privi di goniometri e di otturatori oltre che di munizioni (secondo ciò che si sus­surrava in paese); un nucleo spe­ciale antiparacadutisti; un plotone comando di un battaglione costiero della «Territoriale» armato di vecchi moschetti ‘91. Per le vie circolavano pochi del nostri carretti, pochi quadrupedi, in prevalenza asini, essendo stati quasi tutti i muli e i cavalli requisiti per gli eventi di guerra; in compenso si vedevano parecchi mezzi del regio Esercito e diversi carriaggi militari.

I Distaccamenti si erano acquar­tierati dentro il castello e nelle mandrie adiacenti ed avevano trovato anche comoda ospitalità nei locali della chiesa di Sant’Antonio Abate (oggi Banco di Sicilia) e delle scuo­le elementari della Badia e di San Francesco: le classi, per amor di Patria, avevano rimediato, avvicen­dandosi nelle rarissime aule rimaste a loro disposizione, alternando­si per poche ore la settimana.

Le squadre   calcistiche  dei «giallo-rossi» (giovani fascisti) e dei «nero-azzurri » (balilla avanguardisti) trovavano ancora modo di disputare qualche incontro con i vari reparti militari e le sonore grida del tifo sportivo smorzavano di tanto in tanto il grigiore di quelle giornate malinconiche.

L’unico postale, cioè l ‘autobus con la posta in partenza e in arrivo, che si avviava la mattina verso Isnello e Collesano per rientrare da Campofelice verso sera, offriva una residua possibilità di collegamento con il mondo lontano, contandosi, in quel periodo a Castelbuono qualche dozzina di radio.

La minuscola corriera scaricava notizie, giornali, lettere e cartoline dei soldati lontani e, ai soldati vicini, qualche militare che, saltuariamente, scendendo, smozzicava parole scoraggianti a qualche amico o parente di cui poteva fidarsi. Soprattutto, anche dall’«imperiale» (portabagagli sulla tettoia), la corriera scaricava nume­rosi «sfollati»: questa era una categoria di recente coniazione, composta da quelli di città, che, non potendo più resistere ai bombarda­menti di Palermo, venivano a cercare salvezza fisica e aiuto morale a cento chilometri di distanza. Costoro, in una popolazione stabile di quasi dodici­mila abitanti, si erano inseriti con una massa di circa cinquemila unità fluttuanti, che avevano trovato posto, co­munque, in ogni e qualsiasi ambiente paesano e campagnolo.

In quell’atmosfera di oscuramento (la sera, nessuno doveva far filtrare dalle imposte una benché minima lu­ce), strade assolutamente al buio, di giorno si notavano visi emaciati e facce smunte in lotta con la fame, con l’accaparramento, con il mercato nero, con l’intrallazzo, con le restrizioni della carta annonaria (centoventi grammi di pane e ottanta di pasta al giorno, distribuiti a mezzo della tessera individuale e che non sempre ar­rivavano puntualmente); così, con la «coda» (fila), spesso rissosa, davanti all’erbivendolo per un mazzo di verdura , con l’inafferrabile buono dei vigili urbani per ritirare direttamente dagli orti una indispensabile zucchi­na, con la prescrizione medica per cento grammi di riso per l’ammalato, si arrivò all’estate 1943.

Le notizie quotidiane diventavano sempre più scoraggianti e continuavano a peggiorare: gl’italiani ed i «camerati» tedeschi erano stati scacciati dalla Russia e dall’Africa settentrionale. E se tutti, per paura di essere tacciati di «disfattismo», si mostravano fiduciosi che la «vittoria» sarebbe sta­ta del «tripartito», però, alcuni, ormai fingevano di dimenticare di attaccare all’occhiello della giacca il distintivo «P. N. F.» (in versione di: «per necessità familia­ri»), oppure quello «Vincere e vince­remo» o l’altro «Taci! Il nemico ascolta!». Sempre più raramente si sentivano fischiettare le cosiddette «Canzoni del tempo di guerra»: Vincere, La sa­gra di Giarabub, Lilì Marleen, Ciao biondina, Ninna-nanna grigioverde, Caro papà, La canzone dei sommergibili e gli altri motivetti di quegli anni.

Ormai, giorno e notte, gli america­ni con le loro «fortezze volanti» scari­cavano grappoli di micidiali bombe sulle nostre città e mentre i ragazzi continuavano ad accettare tutto con passivo divertimento, i vecchi, rassegnati, tentavano di rosicchiare le ulti­me carrube.

Improvvisamente il 10 luglio si ag­giunse un fatto nuovo: lo sbarco degli anglo-americani sulle coste della Sicilia. A Castelbuono, quel gior­no, una dozzina di tedeschi, giunti non si sa come e non si sa da dove, si mostrarono decisi a difendere il paese contro i nemici e costrinsero quelle centinaia di soldati italiani a scavare immediatamente qualche trincea nel piano S. Paolo ed alla Madonna del Palmento, piazzandovi dietro quei cannoni inutilizzabili, che attendevano sempre quei soliti pezzi ed i soliti proiettili, e montando alcune mitragliatrici alle finestre e sul tetto del castello.

Ed una sera, allo scoccare dell’Ave Maria, ecco spuntare in aria un aereo ricognitore nemico, che veniva a saggiare la consistenza della difesa ca­stelbuonese con il lancio di qualche «spezzone incendiario» e di qualche bombetta dirompente: una di queste cadde tra la fontana della piazza e la Madrice Vecchia. Il popolo, che, in un primo momento, era stato a curiosare con il naso in su, allo scoppio della granata si rifugiò nell’angolo più sicuro di casa.

I nostri soldati e quelli tedeschi, forse perché non poterono, forse perché non vollero, forse perché a conti fatti lo ritennero preferibile, presero la decisione di non rispondere al fuoco ed alla provocazione e così il rico­gnitore nemico si allontanò nella certezza di trovarsi dinanzi ad una cittadina inerme. Ma quella bombetta produsse un certo effetto: nello spazio di qualche ora l’abitato si spopolò: castelbuonesi e «sfollati» abbandonarono le dimore e a notte fonda si trovarono dispersi e sparpagliati nelle campagne. Le case restarono vuote: le strade deserte, un paesaggio allucinante ed impressionante nel buio dell’oscuramento; e, nel silenzio assoluto, solo il miagolio di qualche gatto dimenticato nella fretta o l’abbaiare di un cane randagio. I carabinieri ed i soldati del presidio organizzarono alcune ronde per evitare che, favoriti dalle circostanze, eventuali malintenzionati fossero tentati da criminali saccheggi e da rapaci atti di sciacallaggio.

Per coloro che rimasero in paese (e si poterono contare sulle dita quelli, stretti da inderogabile bisogno, che non si mossero) fu la nottata più lun­ga della guerra.

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