Note, divagazioni e stravaganze toponomastiche – Terza puntata
A metà del cinquecento l’urbanizzazione aveva raggiunto il piano di san Francesco, che allora era chiamato anche piano della bbiviratura per la presenza del grande abbeveratoio dove si abbeveravano gli equini e le mandrie in transito per luoghi situati a monte o a valle dell’abitato.
Se il percorso di monte (foto 1) è facilmente intuibile, quello di valle può essere ricostruito grazie a due vecchi e desueti toponimi sulla base dei quali le greggi dovevano percorrere la discesa di san Vito, svoltare a destra (vicolo Capre) poco prima dello sbocco alla Madonna del Palmento e, percorso quel breve tratto, immettersi nella strada a valle della rrua fera. Seguendo la via che costeggia il fiume percorrevano l’ultimo tratto della Bocceria (vedi puntata prec.) (via Mandrie) per sboccare sotto la porta di Cefalù, ubicata nei pressi della Chiesa della Madonna della Catena.
L’abbeveratoio di san Francesco, prima di essere ridimensionato, verso il 1950 (foto 2), occupava quasi tutto lo slargo retrostante fino a lambire le attigue case poste ad angolo. La fonte per l’approvvigionamento idrico, prima della trasformazione, aveva una forma diversa dall’attuale, richiamando quella della fonte san Vito (vedi puntata prec.).
Al di là del piano della bbiviratura erano solo case sparse e giardini a perdita d’occhio dove la coltura dominante era quella del gelso e, in parte, degli aranci. La fiorente industria della seta aveva determinato l’estensiva coltura del gelso ma anche il sorgere di opifici e la formazione di manodopera specializzata per l’estrazione della fibra dai bozzoli. Lo strumento utilizzato era una sorta di grande arcolaio (foto 3) del raggio di circa due metri, detto mànganu, attorno al quale venivano avvolti i fili che si dipanavano dalla rosa dei bozzoli galleggianti nell’acqua calda.
L’operazione doveva essere non semplice, dato che in questi opifici è sempre presente un sovrintendente detto u màsciu di nnèsciri a sita, e doveva richiedere anche molta attenzione visto che, propagandosi nel linguaggio comune, fari filar’a sita a unu significa farlo rigare dritto.
Gli opifici, chiamati anch’essi màngani, sorgevano nella parte di territorio compresa fra il giardino dei Cappuccini, il fiume e il piano dell’abbeveratoio, nel rione che ancora tutti chiamano ô mànganu.
Al pari delle concerie, per il ciclo di lavorazione anche il mànganu necessitava di grandi quantitativi di acqua e ciò spiega la costruzione degli opifici nei pressi del fiume san Calogero, in quel tratto che oggi si chiama Calateddra ma che negli atti del ‘500 è talvolta registrato come Sciddricalora per via del terreno accidentato e in fortissimo pendio che conduce al fiume.
Quel fiume, in particolare, era meta delle lavandaie che, stracariche di trusci, andavano a lavarvi i panni che poi mettevano ad asciugare sui lastroni di pietra (foto 4), ma anche dei tanti ragazzi che, nelle prime giornate di caldo, quando ancora non c’era la Valtur, andavano a fare il bagno, nei nacuna dâ Calateddra (foto 5). Per schernirli gli si diceva che si iavan’a llavari u culu ô çiumi. E tuttora, per mandare al diavolo qualcuno gli si dice: talè, va lavati u culô çiumi.
Nella parte bassa della discesa fu attivo, fino ai primi del ‘900, un mulino ad acqua detto appunto u mulinu dâ Calateddra, la cui esistenza, nel 1882, si è voluta tramandare chiamando Via del Mulino la strada che dalla bbiviratura di san Francesco porta a Pontesecco. Al mulino si accedeva dal ponte della Madonna del Palmento (foto 6) ma i più spericolati vi giungevano anche dalla Sciddricalora o Calateddra che dir si voglia.
La gora del mulino, realizzata in pietra arenaria perfettamente squadrata, è ancora visibile nella mezzacosta dell’impervia discesa. In anni relativamente recenti, i ragazzi, non sapendo più cosa fosse quella costruzione, la chiamavano a chiavi perché l’imboccatura della gora ha una forma che ricorda il buco della serratura.
E’ alquanto strano che le belle pietre squadrate della gora non abbiano mai attirato le attenzioni di trafficanti com’è avvenuto, per es., per i lastroni finemente bocciardati del ponte della Madonna del Palmento i quali, negli anni ’60, vennero prelevati come pillole, una ogni mattina, e trasferiti in qualche villa del litorale che allora andava costruendosi. Sorte migliore toccò forse al fiume stesso che, vent’anni dopo, scampò a uno sciagurato tentativo di copertura totale ma non alla terrificante opera di cementificazione mediante briglie e muraglioni che lo hanno ridotto a qualcosa di inanimato. I successivi, maldestri, proclami di averlo destinato a parco fluviale sono stati semplici esercizi di propaganda di potere. O di regime.
In via del Mulino, attorno alla fine degli anni ’20 del ‘900, su iniziativa del farmacista Pietro Lombardo e di altre autorevoli personalità, sorse anche la prima industria per la trasformazione della manna in mannite (foto 7) che, negli anni ’50, si sarebbe trasferita nel nuovo stabilimento di via Geraci (foto 8) assumendo la denominazione di Mannite Conoscenti.
Il mulino ad acqua dâ Calateddra non era l’unico esistente, ce n’era almeno un altro a valle, oltre le concerie e il quartiere del Salvatore, nella contrada che già nel ‘500 era detta Mulinello. Il nucleo più consistente di mulini sorse però a notevole distanza dal centro abitato (foto 9). Il fiume che scende da Vicaretto e passa per la Cava, unendosi con quello che scende da Geraci alimentava i mulini san Tumasu, Mulinazzu, sant’Anna, Carrubba, Ddula, Rroccia. In quest’ultimo, per la particolare morfologia del suolo, l’acqua doveva arrivare con pressione notevole, producendo fragorosi gorgogli, se ancora oggi, di uno che parla in maniera incessante e con marcato timbro di voce si dice che parra quant’un mulin’i rròccia.
A monte dello stesso fiume, nei pressi del ponte della Cava, in tempi assai remoti i marchesi di Geraci avevano impiantato due opifici, i paratura (in italiano gualchiera, paratore, follone), che rimasero attivi fino al secondo dopoguerra. Una famiglia di operai di Castelbuono che vi lavorò per diverse generazioni acquisì il soprannome di paraturara e anche la contrada in cui sorsero ben presto si chiamò Paratura. In questi opifici i tessuti, specialmente l’orbace per confezionare gli scapolari, venivano parati cioè sottoposti a bagno di soda o di cenere, battuti e pressati per renderli più soffici e compatti, quasi impermeabili. A Castelbuono per sottolineare la sfrontatezza di un individuo si suole dire che avi a facci comi na mazza di paraturi.
Ancora lungo il fiume dei mulini, ma più a valle, in località Tornesìa (Turniçìa), il barone Michelangelo Collotti nel 1830 impiantò una ferriera utilizzando manodopera genovese. L’opificio, che si affermò subito per la qualità dei suoi prodotti, ebbe però vita breve e nel 1834, una serie di congiunture fiscali e di mercato sfavorevoli, determinarono la chiusura della ferriera che nel frattempo venne in parte distrutta da una inondazione del fiume, come dire: supra pasta finucchieddri. Peccato. Oggi potremmo avere nel territorio una gemellata della Ilva di Taranto e il suo patron Riva in giro per il territorio a distribuire prebende anche ai politici locali.
Quella delle ferriere deve essere una storia antica. Francesco Minà Palumbo nel 1844 scrive che nell’ex feudo Ferro si trova una gran quantità di scorie ferrose da far pensare che un tempo in quel luogo dovette esistere una fucina di ferro. Inoltre, nel luogo in cui successivamente furono impiantate le cartiere (foto 10), nei pressi dell’ex monastero basiliano di Gonato, sorgeva un antico fabbricato, chiamato il Martinetto, a quanto pare in funzione tra la fine del 1300 e il1600, incui si fondeva rame e ferro o forse si raffinava quello ottenuto nella fucina dell’ex feudo Ferro.
Con l’intitolazione delle vie nel 1882 questa antica attività venne tramandata attraverso il toponimo vicolo Ferro che, per ricordare anche il Martinetto e lo sfortunato opificio di Tornesìa, venne successivamente cambiato in vicolo delle Ferriere.
Nel 1823 il barone Turrisi impiantò tre cartiere lungo il fiume di Gonato (foto 11), in parte ancora esistenti (foto 12), in località detta appunto Cartera. La cartiera Turrisi, che si avvaleva di manodopera specializzata genovese, per un ventennio fu la più importante della Sicilia assieme alla cartiera Naselli di Comiso e l’unica della provincia a produrre carta da scrivere di pregiata qualità. Entrate in produzione le moderne cartiere napoletane, che riuscivano a produrre enormi quantitativi di carta a basso prezzo, le cartiere di Castelbuono, che non avevano rinnovato i vecchi sistemi di produzione, non riuscirono a far fronte alla concorrenza e furono costrette a sospendere l’attività nei primi anni ’40 dell’Ottocento.
Stranamente, nel 1882, forse perché ritenuta recente, la cartiera non venne inserita fra le attività industriali da ricordare con l’intitolazione di una via. Evidentemente i toponomastici di allora, a differenza di quelli che si sono visti all’opera ultimamente, mostravano minore sensibilità nei confronti delle attività produttive. Ma c’è da dire, a discolpa dei primi, che non ebbero a disposizione aree artigianali.
Con la revisione del 1967, un po’ ingenerosamente, alla Cartiera fu intitolato il cortile del quartiere Vetriera, altra importante industria castelbuonese d’altri tempi.