Castelbuono, Luglio 1943 – terza e ultima parte

Castelbuono, Luglio 1943 – terza parte
di Giuseppe De Luca
[Pubblicato su Le Madonie, 1 AGOSTO 1988]

[Prima parte disponibile a questo link]
[Seconda parte disponibile a questo link]

Ma a destare un certo reverenziale timore erano il campo trincerato e lo schieramento bellico in piazza Margheri­ta: quivi carri armati, autocarri con mitragliere girevoli antiaeree, camionette, mitragliatrici piazzate a terra contro gli imbocchi delle vie che vi confluiscono, una nutrita schiera di soldati in poderosa tenuta da guerra, pronti a far scattare il grilletto, incutevano veramente paura, suscitando incertezze, perplessità e commenti biascicati a bassissima voce.

Al Comune, ac­canto al locale Commissario Prefettizio, si era insediato ed emanava ordini un capitano americano, collaborato da un graduato e da alcuni castel­buonesi, i quali, essendo stati in America, fungevano da in­terpreti. Qualcuno, entusiasta dell’arrivo degli anglo­-americani, riponendo illimitata speranza nelle famose ricchezze dell’America, ripromettendosi finalmente di po­ter mangiare a sazietà, strac­ciava sul balcone di casa le carte annonarie, improvvisando un piccolo esultante ed esaltante discorso; l’indomani costui, a quanto sembra, doveva ricredersi: accortosi che il razionamento dei generi alimentari doveva continuare, anche se con farina «bianca», anche se con razione in­dividuale maggiorata, anche se con precisa puntualità, si era visto, costretto dalla necessità, recarsi all’Ufficio An­nonario Comunale e, dopo molti stenti e molte dichiarazioni scritte ed orali, ottenere il rilascio del tanto dibattuto duplicato.

E vorrei consentirmi un ri­cordo personale: alle prime luci dell’alba era passato da casa mia un inseparabile com­pagno e fraterno amico, Al­fredo: era fornito di macchi­na fotografica, carica di rollino. Avendo io avuto occasione di trattare a Palermo, con i tedeschi, sapevo, per esperienza, che gli eventi e gli obiettivi di guerra non am­mettevano deroghe e non consentivano distrazioni. Cercai di persuaderlo: volevo che riportasse a casa la macchina fotografica ed insistetti tanto nel dissuaderlo a farsi vedere in giro con quello strumento. Fu fatica perfettamente sprecata! Giunti in piazza Margherita, per meglio inquadra­re il campo trincerato, Alfre­do, malgrado gli ultimi miei avvertimenti, volle salire sul balcone del secondo piano so­prastante Caffé dû Viecchiu (Spallino allora, oggi Extra Bar Fiasconaro) e si af­facciò per riprendere lo schie­ramento bellico. Io volli rimanere fuori da quella faccenda e restai ad aspettare davanti la porta del Caffé, godendomi, si fa per dire, quello scenario.

Ad un tratto venni scostato con forza da una dozzina di soldati americani: elmetto, giberne gonfie di munizioni , fucile con baio­netta in canna, salirono di corsa le scale e subito ne di­scesero tenendo in mezzo il povero pallidissimo Alfredo. Il capodrappello stringeva in mano la di lui macchina foto­grafica. Impallidii anch’io e, non notato, cercai di svignarmela, confondendomi tra la folla di adulti e ragazzi presenti. Alfredo si avviava verso il Comune, circondato dai soldati americani. A me sembrò un … martire di Belfio­re. Mi ricordai che suo co­gnato Pietro era stato commerciante in America e mi avviai malinconicamente ma testardamente alla sua ricerca: speravo tanto di trovarlo per riferirgliene.      Dopo un paio d’ore, a seguito dell’intervento del cognato che, escluden­do ogni intenzione spionisti­ca, aveva perorato la «dabbenaggine infantile» e la «sconsideratezza del momento» di Alfredo, potevo rivedere e riabbracciare, alla fine, l’ami­co fraterno, il quale, dopo il sequestro del rollino, aveva subìto anche l’ingiunzione pe­rentoria di andare a depositare a casa, di corsa, la macchi­na fotografica.

Intanto cominciava a circo­lare la notizia che alcune cen­tinaia di soldati del presidio di Castelbuono non avevano fatto in tempo a ritirarsi ed erano stati presi prigionieri. Ora si trovavano ammassati ô chianu â baddra. Così veniva intesa popolarmente, al­lora, quella che oggi è piazza Castello, in quanto, essendo il paese sprovvisto di un vero campo sportivo, tutte le parti­te di calcio avevano come tea­tro quel rettangolo di terreno battuto, costellato di numerose pietre aguzze, le quali, ben piantate nel terreno, creavano non poche fastidiose ferite e relativi problemi ai giocatori che accidentalmente vi cadevano.

Essendo l’arco di Sant’Anna proprio alle due fontanelle, decisamente sbarrato dalle truppe americane,    gi­rammo dietro il castello e, af­facciandoci successivamente attraverso le due porte, i cui ruderi, in quei tempi, erano ancora in piedi (uno adiacente alla sommità della scalinata che oggi conduce all’edificio delle Scuole Elementari san Paolo e l’altro accanto alla edicoletta di sant’Antonio di Padova, in quell’epoca non ancora dedicata), io e Alfredo ci trovammo, purtroppo, an­che qui, proibito il passaggio dai soldati americani. Prima di essere respinti definitiva­mente avemmo però il tempo di sbirciare sufficientemente su quel campo da gioco che ci ricordava parecchie giocose indimenticabili giornate calcistiche di «Artiglieria contro giallo-rossi», di «nero-azzurri contro Autocentro».

Quella che si presentò ai nostri occhi fu una scena pie­tosa: dove prima si accovacciavano anche, saltuariamen­te, le capre e le pecore dei vi­cini ovili, in quella piazza del castello, ora, al sole, distesi immobili per terra, un viso diverso e triste, la barba lunga, per cuscino lo zaino contenente qualche effetto personale, la gavetta vuota e la borraccia di alluminio rivesti­ta di panno grigio-verde sconsolatamente abbandonata, tutta la divisa militare impol­verata e in disordine, quei giovani nostri amici, fino a qualche settimana prima alle­gri, vispi, dinamici giocatori e baldi militari, erano in quel momento immersi in una sta­ticità desolante, pietrificata: il loro sguardo fissava il nulla. Due o tre si sforzarono di accennare ad un fuggevole mesto saluto, che racchiudeva molte considerazioni e parec­chia preoccupazione: sulle rampe del castello con le can­ne puntate verso di loro vigi­lavano minacciose alcune mitragliatrici …

Ritornammo indietro…

Nei giorni successivi, in altri tempi dedicati ai festeggiamenti della Patrona sant’Anna, il gruppo dei prigionieri italiani, anche se ancora abba­stanza numeroso, cominciò a scemare: molti erano stati av­viati nei campi di concentra­mento dell’Africa Setten­trionale …

Le donne castelbuonesi, al­le quali era stato aperto un varco attraverso l’arco di sant’Anna e la rampa sinistra del castello, si recavano lentamente a ringraziare la Madre sant’Anna per lo scampato peri­colo, si recavano a pregare per i loro cari ancora lontani, impegnati nei vari fronti di guerra, e, frattanto, recitavano pure, in questo viaggiu â Matri sant’Anna, una breve orazione anche per quelle fac­ce sconosciute appartenenti a figli di mamme, esposte a dolorose incognite.

Quell’anno nessuno parlò di banda forestera, di lam­pade straordinarie, di iùocu-fùocu, di cursa dî scecchi, di vulata dî palluna


Le bocche di tutti erano in­tente a ringraziare Dio e la Madre sant’Anna, confidando, anche per l’avvenire, nel loro aiuto e, come consolazione della mancanze delle «logge», ci si illudeva mentalmente di poter gustare al più presto, in compagnia dei propri cari, qualcosa dal sapore dimenti­cato, al fine di arrivare a cal­mare pure, sufficientemente, la fame di ogni giorno…

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