Il vecchio teatro comunale non era un teatrino! Lettera aperta di Orazio Cancila

Lettera aperta all’architetto Iano Monaco di ORAZIO CANCILA, in esclusiva per CastelbuonoLive
Egregio Architetto, mi capita tra le mani un Suo testo del marzo scorso sul “Recupero e ristrutturazione dell’ex Cine Teatro Le fontanelle”, in cui leggo che il locale demolito, su cui il Cine Teatro fu costruito, era il «settecentesco teatrino di Corte dei Ventimiglia, Signori di Castelbuono, all’interno del recinto castellano», un teatrino a pianta rettangolare, [che] aveva una platea stretta tra un doppio ordine di palchetti, … con una capienza complessiva di circa 80-100 posti».
Lei sa che io ho molta stima di lei e che la seguo da sempre, nel ricordo del suo caro papà, uno dei pochissimi miei professori d’Università veramente meritevoli dell’appellativo di Maestro, con il quale ho mantenuto rapporti di stima e affetto anche dopo la mia laurea, che mi accolse festosamente come collega nel 1980 alla Facoltà di Lettere e a cui, pur se spesso sollecitato, non sono mai riuscito a dare del tu. Se mi consente una divagazione, che sono sicuro gradirà, mi piace ricordare un incontro causale sul treno da Roma nel 1968: ritornavo a casa dopo avere sostenuto gli esami orali di concorso per l’insegnamento di italiano e storia negli istituti tecnici, dove avevo riportato il massimo, ed ero sicuro, in considerazione anche della buona votazione allo scritto, che sarei stato tra i vincitori, come in effetti avvenne. Il discorso cadde sugli accenti gravi o acuti sulla lettera “e”, che allora, quando il computer non era stato inventato, solo pochi usavamo. Io confessai che, pur conoscendo perfettamente le regole, talvolta, al momento di scrivere, mi sorgeva sempre qualche dubbio e dovevo ricorrere al vocabolario. Regola infallibile del prof. Monaco, che poi ho provveduto a diffondere ampiamente tra i miei allievi: tutte le parole che in italiano vogliono la “e” finale accentata, se in siciliano finiscono con la “i”, vogliono la “e” con accento acuto. Esempio: pirchì = perché (con l’accento acuto), cafè invece resta caffè (con l’accento grave).
Ma ritorniamo al teatrino. Teatrino è un vocabolo offensivo; chi fa teatrino di solito non è giudicato positivamente e spesso non è effettivamente una persona seria. E l’antico teatro di Castelbuono non merita il diminutivo. Non era un grande teatro, ma neppure un teatrino. Ricordo molto bene: disponeva di tre (non due) ordini di palchi con 11 al primo, 13 al secondo, 12 al terzo, per complessivi 36 palchi. A quattro posti per palco, ma talora anche cinque-sei, abbiamo da un minimo di 144 a 216 posti, ai quali bisogna aggiungere gli 80 posti della platea con i quali sfioriamo i 300 posti. Erano sufficienti negli anni Quaranta del Novecento quando la popolazione raggiunse il massimo storico (11.679 abitanti nel 1951) e lo sarebbero anche oggi che è ridotta a poco più di 8.000 abitanti.
Non solo non era un teatrino, ma neppure un teatro di corte. Al teatro di Castelbuono nel mio ultimo libro Pulcherrima civitas Castriboni. Castelbuono 700 anni ho dedicato un lungo capitolo (Il teatro: feudale o comunale?). La sua costruzione si ebbe negli ultimi decenni del Seicento a spese dei marchesi di Geraci, principi di Castelbuono, che però nel 1691, con la morte di Blasco Ventimiglia, lasciarono il paese definitivamente, prima per Palermo, poi per Napoli e infine per Palermo negli ultimi decenni del Settecento. Raramente vi rimisero piede e solo per qualche giorno. Una Corte non ci fu più a Castelbuono e così il teatro di Corte si trasformò presto in teatro di popolo: peraltro l’esistenza di un teatro popolare accanto a un teatro colto era presente in paese almeno dalla fine del Cinquecento.
A metà Settecento erano numerose le famiglie proprietarie (dico proprietarie) dei palchi del teatro, la cui proprietà era possibile anche trasferire senza il consenso del feudatario. E nel 1791 gli amministratori comunali puntualizzavano: «nel teatro vi sono li palchi fabricati da’ nobbili del paese che li godono in proprietà; vi è il palco addetto al Magistrato [=ai giurati] e le crate [= gradette, ossia palchi] ugualmente in proprietà si possegono dalle communità religiose. Questo teatro anticamente era una chiesa [= la chiesa di San Filippo], tutt’ora rimarcandosene le vestigie, e dall’Università ancora vi si portò l’acqua corrente per commodo delle sceniche rappresentanze». È vero nel 1797 i giurati furono costretti a riconoscere al marchese la piena proprietà del teatro, ma quando, attorno al 1839, esso fu danneggiato dalla pioggia e dal vento, al marchese che ne pretendeva la proprietà il Comune riuscì a dimostrare che il teatro era pubblico e non privato. Pubblico significava della popolazione. E così la ristrutturazione del 1853 – quando i palchi, in particolare, furono sottoposti a pitturazione all’interno e all’esterno e fu rifatto l’arredamento con imbottiture in pelle rossa – fu curata non dal rappresentante del marchese, bensì dal sindaco Francesco Forte, «nella qualità di sindaco e presidente della Commissione eletta da questo Decurionato [= Consiglio comunale], dal signor Intendente [= Prefetto] approvata, per lo riattamento e riforma che stassi eseguendo in questo Teatro Castelbuono», la cui capienza era portata a 280 posti. Duecentottanta posti è quindi un dato ufficiale: siamo ben lontani dagli 80-100 posti da lei, egregio architetto, indicati nella sua nota.
Da allora (1839), sino alla demolizione degli anni Cinquanta del Novecento, né l’ultimo marchese deceduto nel 1860 né i suoi successori avanzarono più pretese sul teatro. Semmai fu un privato negli anni Cinquanta del Novecento a protestare, reclamando per l’avvenuta demolizione del palco della sua famiglia. E perciò, per favore, non lo chiami teatro di corte e neppure teatrino, ma teatro della popolazione, la quale non merita di esserne privata.
Con la stima di sempre, Suo Orazio Cancila
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