24 luglio 1943 gli alleati entrano in Castelbuono

(Di Massimo Genchi) – Non sapremo mai se gli assidui e ben selezionati ascoltatori castelbuonesi di Radio Londra, in quei primi giorni di luglio di ottant’anni fa, percepirono del tutto che dietro l’Operazione Husky si celava l’imminente sbarco alleato che sarebbe avvenuto di lì a qualche giorno, all’alba del 10 luglio 1943 sulle spiagge di Licata.

Quella mattina la notizia si propagò ovunque immediatamente e, forse per strana coincidenza o forse perché risucchiati dalla ritirata, quasi subito arrivarono in paese alcuni soldati tedeschi, non più di una quindicina, animati dal chiaro proposito di volere rallentare l’avanzata degli alleati. Per tale ragione costrinsero i soldati del distaccamento militare di Castelbuono, acquartierati nel Piano della Palla prospiciente il Castello, a scavare fossati e a piazzare bocche da fuoco, in massima parte vecchi e inutilizzabili, nel piano San Paolo, alla Madonna del Palmento e delle mitragliatrici alle finestre e sul tetto del castello. Non si capiva, però, come i tedeschi potessero pensare di opporsi utilizzando quella ferraglia. Apparivano in verità come degli sbandati, impressione ampiamente confermata, dopo qualche giorno, allorché gli americani, subito dopo il loro arrivo a Castelbuono, dal Piano San Paolo, cominciarono a sparare numerosi colpi di cannone verso San Mauro, dove avevano avvistato numerosi cannoni puntati verso Castelbuono. Da quella altura che, osservata col binocolo sembrava sinistramente presidiata, non giunse però alcuna risposta. Segnale inequivocabile che più che di artiglieria si trattava di scenografia. Un bluff, insomma.

La sera del 15 luglio un aereo alleato sorvolò il cielo sopra Castelbuono sganciando diverse bombe che caddero appena fuori l’abitato, nella zona degli orti, a Piano Marchese e nelle chiuse di San Paolo, e una nella Piazza Margherita. Quest’ultima, che giunta al suolo determinò una voragine fra la fontana e la casa Speciale, non esplose – assicurava il popolo – solo per volere della Madre Sant’Anna. Un miracolo. Delle altre, alcune esplosero, altre rimasero sotterrate anche per diversi decenni. Quei tremendi boati indussero nella popolazione il convincimento che a rimanere in casa si sarebbe fatta la fine del topo, per cui quasi tutti in fretta e furia s’accampar’i pezzi e sfollarono nelle campagne, anche a casa di amici e parenti, esattamente come si suole fare a seguito di una scossa di terremoto, temendo che a breve ve ne saranno altre.

Quei pochi tedeschi, più confusi che persuasi, sebbene inizialmente sembrassero seriamente intenzionati a resistere per ostacolare la marcia degli alleati, ben presto desistettero. In paese si racconta che a questa determinazione si arrivò mercé la diplomazia e l’intercessione di clero e notabili ma è invece assai probabile che, visto il precipitare degli eventi – il 22 luglio Palermo si era arresa agli alleati che ora si dirigevano verso Termini, Cefalù e le Madonie – i tedeschi pensarono bene di dileguarsi. Qualcuno, che di notte fu visto vagare qua e là risalendo la regia trazzera che dai Pedagni porta a Cùozzu Cirinu e â Culìa, volendo superare un cancello, oltre il quale erano acquattati antifascisti armati e soldati che si erano dati alla macchia, rischiò di farsi impallinare. Fortunatamente lasciò perdere  e proseguì oltre. Un tedesco morì, forse per le ferite riportate altrove, e venne seppellito sotto un ulivo nei pressi dû pont’i don Tumasinu. È stato tendenziosamente tramandato che la tomba di quel poveretto, dopo l’ingresso degli americani, fu profanata dalla furia incontenibile di un antifascista per dare sfogo a venti anni di bocconi amari e di sopportazione mentre era noto a tutti che l’insano gesto era da ascrivere a un noto squilibrato. I tedeschi, battendo in ritirata, poco prima dell’arrivo degli americani, per rendere meno fluida l’avanzata degli alleati, fecero saltare i ponti più importanti tra Isnello e Castelbuono: u Pontû Signuri e u Pont’i don Marcu al Boscamento, e quelli lungo lo stradone di Geraci: u Pontâ Cava e u Pontâ Nuciddra.

Se ha tutti i connotati di una bufala la storia secondo la quale ci vollero stratagemmi e trattative per convincere i tedeschi a non reagire – ma quelli non si fecero neanche trovare all’arrivo degli alleati – è invece vero che lo zelante comandante del distaccamento dell’esercito regio di Castelbuono, era seriamente intenzionato a opporsi agli alleati con armi assolutamente inadeguate e una guarnigione per niente consistente in relazione alla colonna che marciava verso Castelbuono. Sarebbe stata una carneficina e una terribile ferita per il paese. Fortunatamente le autorità civili e religiose riuscirono a far recedere il maggiore dai suoi propositi inducendolo a riflettere sul fatto che, più che alla storia, sarebbe passato al mondo dei più.

Anticipati da un frastuono via via crescente, man mano che si avvicinavano alle porte del paese, gli americani entrarono in Castelbuono nel tardo pomeriggio del 24 luglio, provenienti da Isnello. Alla Madonna del Palmento si erano portati ad accoglierli l’arciprete Cipolla, il pretore La Ferlita, altre autorità civili, religiose e militari e una gran folla di curiosi, specialmente ragazzini. Tutte le case prospettanti sul fiume – dû Sarvaturi â Calateddra – avevano esposto alle finestre e ai balconi lenzuola e teli bianchi perché agli occhi degli alleati fossero patenti i propositi della popolazione castelbuonese. I noti oppositori del regime Pietro Cangelosi, Rosario Genchi, Gioacchino Cammarata con altri antifascisti di Castelbuono e di sfollati a Castelbuono, fra cui l’avvocato Bino Napoli e il dottore Nicolò Candela, andarono incontro alla colonna alleata per preannunziare, forti della padronanza della lingua inglese di Pietro Cangelosi, che a Castelbuono, così come in molti altri paesi, non ci sarebbe stata alcuna opposizione e che il Commissario prefettizio Vincenzo Raimondi, figlio del benemerito sindaco Mariano, li aspettava in Municipio per firmare la resa, cosa che avvenne la stessa sera.

Per l’intera notte, e nei giorni seguenti, anche dalle campagne, si udì solo l’ininterrotto, assordante frastuono di mezzi pesanti che sfilavano, senza contare gli autocarri, le camionette, le jeep e soldati a mai finire. Questo transito senza soluzione di continuità fece tremare, producendo un rumore sinistro, il fondo stradale e i vetri delle case dello stradone, del ponte, e poi via Mario Levante, san Francesco, sant’Agostino, Stratê Pùrpuri, Chiazzetta, Strata longa, via del Paradiso, Salunardu e finalmente lo stradone per Geraci destando non poco raccapriccio nella gente che, non avendo mai assistito a niente di simile, rimaneva in perenne oscillazione fra la preoccupazione dovuta a quel terremoto e la gioia della liberazione dal fascismo.

Colmi di gioia e di eccitata commozione per la liberazione erano certamente gli antifascisti, specialmente quelli schedati, che in venti anni di regime erano stati sistematicamente tradotti in carcere ogni qualvolta c’era da salvaguardare l’ordine pubblico, non solo in occasione del passaggio dal Rosario del dittatore Mussolini o della visita di Umberto II ma anche solo per la comparsa a Palermo di un qualche gerarca. La sera di quel 26 luglio gli antifascisti di Castelbuono servendosi di una scala a pioli salirono sul lungo balcone della casa del fascio, non più animata dei molti ferventi fascisti passati nel giro di 24 ore a sponde più sicure, penetrarono all’interno e scaraventarono in strada tutto ciò che vi si trovava: documenti, mobili, divise e quant’altro, a cominciare dallo stemma littorio che campeggiava sul prospetto. Poi vi versarono la benzina e diedero fuoco. A mezzanotte era tutto cenere. Quando nei primi anni Sessanta rifecero la Strata longa a terra c’era ancora il segno, come il letto di un falò.

Non esistono foto di quel 24 luglio né dei giorni successivi. Più precisamente, sembra non esistano foto scattate da castelbuonesi, in quanto in una situazione di tale instabilità effettuare scatti avrebbe potuto essere interpretato dagli americani come un atto di spionaggio. E in effetti ci fu chi osò introdursi nella Chiazza nnintra stracolma di pezzi d’artiglieria, di mezzi militari e di soldati per scattare alcune foto di quel suggestivo colpo d’occhio che oggi magari avrebbero potuto degnamente corredare questo pezzo. Ma venne immediatamente bloccato dai soldati americani e sottoposto a stringente interrogatorio. Ci volle tutta la bravura degli interpreti per scagionare l’improvvisato fotoreporter e ammorbidire il capitano americano che gli restituì la macchina fotografica ma non il rullino, ovviamente.

L’unica fotografia nota di quei giorni, scattata però dagli americani, è quella più volte pubblicata della Strata longa. Così come esistono diverse foto americane del bombardamento dello scalo ferroviario di Castelbuono con i caseggiati e i carri ferroviari sventrati. In particolare, ne esiste una di cui possiedo una copia – che cerco da diversi giorni senza riuscire a stanarla – scattata da Sant’Ambrogio mentre l’aereo alleato sorvola la stazione per bombardarla.

A proposito di foto, mi sono sempre chiesto se a seguito delle truppe entrate in Castelbuono vi fosse anche l’immenso fotografo di guerra Robert Capa. Com’è noto, il 23 luglio la sua presenza è attestata a Monreale e a Palermo e, subito dopo il 25 luglio, è certo il suo passaggio da Sperlinga, dove si rese protagonista del celebre scatto, considerato da molti come uno dei più iconici di tutti i tempi. Non avendo la certezza derivante da foto note non si può affermare con sicurezza ma è assolutamente verosimile che il 24 luglio 1943 anche lui sia stato a Castelbuono dove certamente ha prodotto degli scatti, immortalando qualcuno o qualche scorcio, come faceva con estrema metodicità in ogni posto da cui passava al seguito delle truppe. Mi piace pensare che quegli scatti magari vennero stampati nei provini e poi scartati, al pari di altre migliaia e migliaia di immagini, e i negativi finiti in un recondito angolo del suo sterminato archivio. Se è così, un giorno salteranno fuori.

L’entrata degli americani a Castelbuono nei quadretti dei miei ricordi infantili è legata alla mite figura di mastro Ciccio Sottile, tessera n. 1 della sezione del partito socialista di Castelbuono. Uno di quei giorni successivi al 24 luglio, nella sua bottega di mastro d’ascia, a metà via Gugliuzza, irruppero alcuni soldati. Mastro Ciccio in un angolo teneva due botti e gli americani, a quella vista, gliene indicarono subito una, la più grande, facendogli intendere che volevano bere. Mastro Ciccio strattonò lo zipolo della botte, lo estrasse, riempì una cannata e la passò a uno di quelli. Bevvero a volontà, la riempirono un’altra volta e poi ancora. Il povero mastro Ciccio pensava tra sé e sé: macari cci piacìu, va’, meni mali… Siccome la sete vien bevendo, i soldiers – anche per saperne parlare – vollero assaggiare anche il contenuto dell’altra che prontamente indicarono col dito. Mastro Ciccio, lucidamente preoccupato, gli avrebbe voluto dire: carù un cugliuniati! ma si dovette arrangiare con la mimica per cui a forza di ampie volute delle braccia e chiari segni di diniego cercò di spiegare che in quel barilotto non c’era vino ma aceto. Mastro Ciccio forse non si spiegò bene, gli americani – certamente già avvinazzati – capirono che il vegliardo voleva eludere la loro richiesta e lo obbligarono, non proprio con le buone, a prelevarne un boccale. Nell’atto di bere, essendo stati investiti dall’afrore dell’aceto, gli americani – che sono sempre miricani – pensarono che mastro Ciccio li aveva voluto beffare per cui lo immobilizzarono e lo costrinsero con la forza a trangugiare quella cannata piena di aceto che era, come si suole dire con l’efficacia fraseologica del parlato castelbuonese, comi u fìerru filatu. Al povero mastro Ciccio non gli si spezzarono le budella solamente per intervento dell’autorità divina.

In quei giorni il paese era una sorta di Babele in minore. Spiccava, i mezzo ai tutt’altro che slanciati indigeni un soldato americano alto almeno due metri e largo uno. Una sera, entrato che fu in una sala da barba alla Piazzetta, al figaro, un tipo minuscolo e smunto, fece capire che desiderava un servizio di barba e capelli. Don Sariddru, questo era il nome, si mise all’opera conciliando, com’è consuetudine dei barbieri, il taglio con la parlantina. E poiché non poteva interloquire con quel colosso d’oltreoceano, si rivolse agli avventori, che nei saloni non mancavano mai. Ridacchiando, sforbiciava di lingua e di mano: “con questi fessi di soldati americani ci stiamo facendo i soldi”, “non capiscono niente”, “tirano fuori i dollari e via”. E così per tutto il tempo in cui il soldato stiede sotto i ferri. Alla fine del servizio, mentre lo spazzolava, il figaro fece l’occhiolino ai clienti, come per dire ‘guardate come paga il fesso’ e fissando dal basso in alto quel gigante strofinò velocemente il pollice sull’indice per fargli capire che doveva pagare. Fu allora che quell’armadio lo prese tra la collottola e il camice, lo alzò in aria come una sigaretta e, tenendolo a mezzo metro da terra, lo condusse dalla Piazzetta fin Sopra il ponte. Per tutta la discesa della Strata longa, a ogni tre passi gli sferrava un calcione nel sedere facendolo oscillare e ripetendo: “Paisà, cu è fessu?, cu è fessu”? Lungo il percorso, il diffuso cicaleccio fece affacciare in tanti ai balconi e agli usci delle case e delle botteghe e, a quella vista sbalorditiva, in molti non credettero ai propri occhi, altri pensarono seriamente di stare assistendo ad uno spettacolo itinerante di saltimbanchi.

Quei giorni di luglio furono caratterizzati anche da altre sorprendenti novità come la scomparsa, o meglio la drastica riduzione, di quello che fino ad allora, storicamente, poteva essere considerato un vero flagello sanitario, l’invasione di pidocchi, pulci, cimici, zanzare e, di conseguenza, della malaria. Ciò fu dovuto al fatto che gli americani, assieme alle chewing-gum, alle scatolette, ai veicoli c’acchianàvanu i mura lisci, per combattere la malaria introdussero il DDT che, a tutta prima, fu ritenuto prodigioso ma, utilizzato in maniera indiscriminata, avrebbe causato notevoli danni all’ambiente e all’uomo. La formidabile efficacia del DDT come insetticida entrò rapidamente e rimase a lungo nell’immaginario collettivo dei castelbuonesi al punto che quando, per scherzo ma non solo, a qualcuno si volevano ricordare le sue origini legate ad ambienti malsani e poco igienici gli si diceva: A curpa l’ani i miricani ca purtari u DDT.

La presenza americana a Castelbuono, come in tutti paesi occupati, si protrarrà per diversi mesi. Il Commissario prefettizio Vincenzo Raimondi, un mese dopo la firma della resa, il 26 agosto 1943, con la grande onestà intellettuale e signorilità che gli erano riconosciute, ufficializzò le proprie dimissione al Commissario civile delle forze alleate con la seguente lettera:

L’indomani stesso, 27 agosto, il Commissario americano, accogliendo la preghiera dell’ultimo podestà Raimondi, nominerà il nuovo sindaco nella persona dell’avvocato Gioacchino Failla e gli assessori Nino Turrisi, Pietro Mazzola, Rosario Genchi, Domenico Carabillò, Pietro Cangelosi e Giuseppe Marzullo, gli ultimi due con la delega di vicesindaco. Questa prima amministrazione comunale dell’epoca post fascista, non eletta ma nominata, resterà in carica fino a gennaio del 1944. All’avvocato Failla subentrerà, il maestro Domenico Buonafede che ricoprirà la carica di sindaco fino alle prime elezioni libere del 1946. Ma questa è un’altra storia che riguarda una nuova epoca.

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