A furtunê Quararara, Totò u Spropòsitu, il barone Guerrieri e la Fiera incantata

Considerata dal punto di vista della viabilità è la strada che forse più di ogni altra si presta a malintesi. Infatti, se in macchina giri dî canaleddra, vai verso via Garibaldi e facendo ciò intersechi un altro che sopraggiunge in senso inverso, quello ti coprirà di elogi sulla moralità di tua madre ma tu non hai torto perché proprio quel tratto è permesso percorrerlo in ambo i sensi; se invece sali da via Garibaldi, incontrando un’altra auto all’incrocio, può succedere o che ci si fermi tutti e due e ci si guardi negli occhi come dei cretini non sapendo a chi spetti passare o, e questo è un caso di gran lunga più interessante, non si ferma nessuno dei due e allora sono effusioni, abbracci e baci ma anche qualche cazzotto.

L’incrocio via Parrocchia-via Garibaldi e il medico dott. Giovanni Cucco (1861-1920)

Non si sta parlando della 52esima Avenue ma più semplicemente dâ stratâ matrici che però ufficialmente si chiama, via Giovanni Cucco, in onore del benemerito medico che tanto si adoperò, innanzitutto per i suoi pazienti, poi per la copertura e la bonifica del Burrone Fontanelle (da non confondere con la bonifica del Teatro Le Fontanelle), per l’istituzione del Molino popolare a porta san Paolo e quindi per il sanatorio antitubercolare a Liccia, nel medesimo posto in cui più tardi realizzò un magnifico ristorante che ben presto, con grande sollievo di moltissimi, fu chiuso. Forse, però, quest’ultimo non si deve all’iniziativa del dottore Cucco ma di un altro demiurgo di più chiara fama di cui si favoleggiava che volesse aprire un ristorante al cimitero. Un tre forchette con piatti che, solo all’odore, avissiru fattu nnivìsciri i mùorti. Ancora non è stato fatto ma, certo, si farà.

La porta San Paolo col Molino popolare e il tristemente noto eremo di Liccia

Ritornando â stratâ matrici, proprio all’inizio, nella casa del compagno Peppino Caligiuri, nel 1947, sorse la prima sezione del partito comunista del quale, in questo 21 gennaio, ricorre il centenario della nascita. Sicuramente ne sentiremo delle brutte, soprattutto da parte dei più accreditati in materia. Nella via Parrocchia, però, non è questo che sorprende, anzi, ma il gran numero di case patrizie che si incontrano percorrendola. In ordine sparso: I culunneddri, casa Failla, casa Di Stefano, il palazzotto d’angolo che fu sede della Cassa Rurale.

La casa del barone Di Stefano e la casa Failla-Tedaldi

Nella stessa via Garibaldi, ma nell’angolo opposto al suddetto palazzo, nel 1853 nacque Luigi Failla Tedaldi, profondo conoscitore di ogni vallone, di ogni pianoro e di ogni cozzo delle Madonie, accanito raccoglitore di coleotteri e lepidotteri, entomologo insomma, e autore di diversi articoli scientifici oltre che di un non frequente glossario entomologico. Allievo di Francesco Minà Palumbo e co-fondatore col carissimo amico Enrico Ragusa della prestigiosa rivista Il Naturalista Siciliano, le sue ricchissime collezioni furono visitate, studiate e citate dai più celebri entomologi di quel fervido periodo che preludeva alla Belle époque. Luigi Failla Tedaldi classificò molti insetti delle Madonie e per i suoi meriti molte specie gli furono dedicate. Per la sua frenetica attività di raccoglitore di farfalle, il popolo finì col chiamarlo u farfarìeddru. Caduto in bassa fortuna, le sue collezioni entomologiche furono smembrate tuttavia una parte è custodita nell’Istituto di zoologia di Unipa, un’altra, confluita nella collezione di Lord Rothschild, si trova al British Museum di Londra.

Farfalle della collezione Failla-Tedaldi e Gioacchino Failla (1891-1961)

In quella stessa casa, nel 1891, nacque il nipote Gioacchino Failla che, dopo il Ginnasio al Mandralisca, si trasferì in America dove sarebbe diventato celebre in tutto il mondo, ma non risulta che il mondo si sia mai fermato a guardarlo. Gioacchino, dopo avere conseguito la laurea in ingegneria elettrotecnica alla Columbia University divenne una autorità nel campo della fisica delle radiazioni e della radioprotezione e grazie a lui la radioterapia dei tumori fece registrare mirabili progressi. 

Nel punto in cui a stratâ matrici interseca la via Collotti anche l’occhio distratto vi scorge un particolare curioso. Sul muro della casa d’angolo, che fu dello storico maestro pasticcere Vincenzo Pupillo, è incastonato un viso di terracotta. E’ strano, ma si tratta con ogni probabilità, di una copia di uno dei tre bbabb’i l’Itria. L’accostamento si rese possibile allorché, in una casa privata della medesima via Collotti, mi venne mostrata una statuetta, identica a quella di centro dei bbabb’i lìtria, che, come si sa, è Sant’Anna. Anche questa statuetta rimase a lungo dentro una nicchia nel muro esterno di quella casa che sorge nella stessa via. Dunque, il misterioso volto di terracotta apparterrebbe ad una serie e, in origine, si dovette trovare in una nicchia, poi quasi completamente murata. E se altre statuette si trovavano in altre nicchie? E poi, perché solo in questa e non in altre strade? Non lo sapremo mai.

Due particolari dei bbabb’i l’Itria e il misterioso viso di terracotta che emerge dal muro

Così come non sapremo mai perché quelle tre statuette raffiguranti dei santi siano penetrate nell’immaginario collettivo come i bbabb’i l’Itria. Da sempre a Castelbuono, volendo rimarcare la faccia da scemo di uno gli si dice: u sa ca assumigli ê bbabb’i l’Itria? Successivamente, quando di fronte alla chiesa dell’Itria furono attivi i merciai Coco, che di soprannome facevano Patàcchiu il modo di dire divenne: ma u sai ca nn’ai assai di chiddri nfacci i Patàcchiu?, lo sai che somigli tanto ai dirimpettai di Patacchio? Ancora, sullo stesso calco, a proposito di statuette, si è formato il modo di dire: assai nn’avi nfacc’i Patàcchiu, riferito a un tale che palesa tante fisime.

A un certo punto, a stratâ matrici si allarga da un lato in corrispondenza della casa che fu dî Picchiulìeddri, due anziane sorelle che sembravano uscite dal mondo fatato di una saga islandese, e dall’altro della stamberga in cui viveva Pinu u paraccaru, un tipo popolare della cui gestualità automatica e preminente non è possibile riferire per quanto si possa saltimbancare con la scrittura. Dirò soltanto che la sua fedele immagine la può fornire Franco Franchi nei panni del Gatto nel Pinocchio di Comencini. In questo slargo, adiacenti alla sacrestia della Matrice, sorgono le case che furono dei Galbo e dei Carabillò. Questi ultimi, per diversi secoli artigiani del bronzo e del rame, in virtù di questa specifica attività, vennero detti i Quararara. I loro antenati avevano costruito diverse campane che squillavano nelle chiese di Castelbuono e dei paesi limitrofi e i discendenti tenevano bottega nei locali del fu bar Sant’Anna oltre che essere titolari della pompa di benzina Lampo-benzina superiore ubicata Ncap’u ponti. Si capisce erano abbastanza ricchi, e poiché i sordi fannu sordi, si pensava che ciò fosse dovuto esclusivamente a pura fortuna sfacciata. I castelbuonesi, sempre avvezzi all’ironia e talvolta all’autoironia, quando le cose non vanno come invece dovrebbero, amaramente esclamano: a furtunê Quararara!, intendendo dire che solo ai Quararara le cose giravano sempre per il giusto verso.

La pompa di benzina Lampo Ncap’u ponti e una campana fusa dai Carabillò

Muru ccu mmuru con i Carabillò abitavano i Galbo il cui antenato Giovanni Galbo fu un valoroso garibaldino. Combatté con l’eroe dei due mondi a Palermo, a Messina, al Volturno divenendo il più rappresentativo fra i castelbuonesi che in camicia rossa parteciparono all’impresa dei Mille al punto che, da allora, i Galbo furono detti i Migliarara.

Il garibaldino Giovanni Galbo e il bar di Bonomo negli anni ’50.

Il commendatore Peppino Galbo, figlio di Giovanni, era una persona assai conosciuta in paese, benché avesse insegnato a lungo a Melegnano. Totò u Spropòsitu era, del pari, una persona assai conosciuta in paese, benché non avesse insegnato e forse neppure frequentato la scuola. Peccato che non sia entrato in politica, avrebbe avuto titoli sufficienti e non sarebbe stato peggio di tanti altri. Totò u Spropòsitu era uno stravagante personaggio e non era infrequente che si palesasse in piazza sfoggiando un abbagliante pigiama di raso rosso. Ci fu addirittura un periodo in cui il suo incedere fu connesso in parallelo a quello di un porcello che conduceva al guinzaglio con aristocratico sussiego. Accadde un giorno che entrando nel famoso e fumoso “bar di Bonomo” in compagnia dell’ormai suo inseparabile partner, il gestore, un altro personaggio di non minore bizzarria, gli si parò di traverso e, indicato il suide, disse: il signore può entrare, quindi rivolto a Totò: il porco no.

Peppino Galbo durante una commemorazione del IV novembre

Totò, che non per niente era detto u Spropòsitu, certo dovette interrogarsi a lungo sul perché Peppino Galbo, maestro elementare, fosse comunemente appellato commendatore. Dal momento che non dovette trovare alcuna risposta soddisfacente, un giorno, quannu u lla potti tèniri cchiù, lo fermò e gli disse: – Lei m’a llivari na curiusità: ma cu cci u fici commentaturi?

–  Antonio scherza, rispose il commendatore, alquanto sorpreso.

– No, no ca supra u sèriu u stai dicìennu!!!, ribatté contrariato Totò.

Peppino Galbo rimase impietrito, Totò si allontanò con la leggerezza di chi si era tolto un peso dallo stomaco.

Ritornando ai fatti risorgimentali, è noto che il capo degli insurrezionalisti a Castelbuono fu il barone Francesco Guerrieri Failla. Il 18 aprile 1860 scrisse di suo pugno e affisse sui muri del paese l’ormai celebre proclama con il quale incitava i castelbuonesi alla rivolta antiborbonica. Di questo proclama esistono varie copie, leggermente differenti, ma tutte olografe. Quella qui riprodotta è una di queste. Quella che potete ammirare nel sedicente museo del Risorgimento di piazza Margherita è solo una fotocopia vagamente antichizzata con photoshop. Il barone, salito sul campanile della chiesa di sant’Antonio Abate, Ncap’u ponti, vi innalzò il tricolore e cominciò a suonare le campane a martello per richiamare i suoi concittadini che in breve accorsero riempiendo la piazza, che per questa ragione, venne chiamata piazza del Popolo.

L’incipit del proclama ai castelbuonesi composto dal barone Guerrieri

Ma il barone Guerrieri non era l’unico nnimicu dâ cuntintizza, della contentezza borbonica, c’erano altri cospiratori, e non erano dodici, e tutti invitavano la popolazione a prepararsi alla lotta contro l’oppressore. I tempi erano maturi e – si sa – quann’u piru è fattu cadi sulu. Tenetelo presente, castelbuonesi. L’11 maggio 1860 Garibaldi sbarcò a Marsala e, a questa notizia, l’indomani di prima mattina il priore del convento di sant’Antonino padre Giuseppe Raimondi, zio del futuro sindaco Mariano, con in mano il tricolore, salì sulla torre campanaria per inalberare il vessillo della ribellione. Invano i frati cercarono di dissuaderlo, lo rincorsero sulle scale che portavano alle campane ma il priore sembrava avesse le ali ai piedi. Nulla potendo, cominciarono a lanciargli anatemi: scumunicatu!, scumunicatu! E naturalmente in ossequio alla ben nota massima secondo la quale a nciùria mpìccica ma a astima no, al priore rimase il soprannome Scumunicatu che si propagò alla famiglia Raimondi e ai relativi discendenti, fino ad oggi.

Il priore Padre Raimondi, u Scumunicatu, e il campanile di sant’Antonino

Sei gennaio, Epifania, alla fine della cerimonia del battesimo del bambinello, il parroco dal pulpito vannìa i festi di l’annu, cioè ricorda ai fedeli quali sono le feste comandate dell’anno appena iniziato. L’espressione si vanniari i festi di l’annu è penetrata nel parlato comune per dire che, durante un alterco, i contendenti se le sono dette di tutte i colori.

Sei gennaio, Epifania, vale a dire apparizione e quindi manifestazione della divinità. Secondo un antico rituale antropologicamente interessante e significativo, a sera fatta ci si recava ô cùozzu abbucatu, più noto come u cuzzarìeddru dove, storicamente, si assiepavano coloro che volevano assistere alla partita di calcio senza pagare il biglietto, e lì si svolgeva un rito ancestrale, una sorta di battesimo pagano: si vattiàvanu i vìentira, si battezzavano i venti. In altre parole, si andava in quel poggio a rilevare, gettando ripetutamente in aria dei pugni di crusca, in che direzione spirassero i venti per dedurre l’andamento dell’anno agrario.

Sei gennaio, Epifania, vuole la leggenda che a Castelbuono, ogni sette anni, proprio in quella notte, a mezzanotte, la nostra montagna si apra per mostrare una ricca fiera sfavillante di luci e di colori, allietata di suoni, popolata di gente felice che si aggira per le logge. E’ la Fiera incantata. In bella mostra su un podio fa bella mostra di sé un maestoso gallo, simbolo dell’incanto. Chi, transitando per quella montagna la notte dell’Epifania si trovasse fra le logge della fiera, chiedendo di volere comprare il gallo, romperebbe l’incantesimo. A quel punto tutto si rischiara, si illumina di ricca luce, diventa un luccichio d’oro e l’ignaro avventore diventa proprietario di tanta ricchezza, dell’oro della Fiera incantata.

Le luci fra le montagne innevate e i boschi in una notte di luna: un’immagine che richiama la Fiera incantata

La sera dell’Epifania, tradizionalmente, cominciava il carnevale. Un tempo, appena fatto buio, si sentivano i mascarati, gente vestita in maschera, girare per le strade chiedendo: trrrr!!, cci nn’è ssùonu? C’era chi, per vestirsi, si acconciava alla men peggio con un pigiama o con un vecchio capo coprendosi il viso con una cheppa, c’era chi utilizzava capi baggiani, rrobbi dâ Mèrica, c’era chi, grazie alle proprie conoscenze, aveva la possibilità di reperire vecchi ma eleganti abiti gelosamente custoditi nelle casce di famiglie aristocratiche, ma c’era anche chi, ogni sera, cambiava travestimento dato che era possibile prendere in affitto vestiti e costumi da Totò Mazzola – uno dei tanti Totò Mazzola – che possedeva uno sterminato guardaroba, un impressionante assortimento di vestiario per uomo e per donna che affittava sia nel periodo di carnevale sia per le rappresentazioni teatrali. Morto Totò Mazzola, i vestiti sono andati buttati via. Qualcuno dirà: peccato! D’accordo, ma, a ben pensare, oggi a cosa servirebbero? A chi? Per andare dove? Al poli-Pisciatoio, come è stato ribattezzato?  Per andare al poli-Pisciatoio mica c’è bisogno di agghindarsi con i vaporosi vestiti di Totò Mazzola anche perché si correrebbe il drammatico rischio di non riuscire a svestirsi in tempo utile.

Totò Mazzola al centro, con gli occhiali pince-nez, accanto a Vincenzino Minà e Vincenzino Russo (col papillon)

Ma ritorniamo a noi. Durante il periodo di carnevale si passavano le serate a furriari i rrarutti, a girare il paese alla ricerca di feste da ballo, di case in cui si tinìeva u sùonu. I mascarati salivano, solitamente si ballava nella saletta a primo piano, facevano un paio di balli, talvolta veniva loro offerta a vìppita, quindi andavano via a cercare altri posti, altre ebbrezze. Succedeva che con il pretesto del ballo il mascarato approfittasse per stringere a sé la ragazza scelta (eh, mmascaratu!). Ma accadeva anche che il genitore navigato, quello che in gioventù chissà quante volte aveva strusciato percependo e facendo percepire, capita la briscola, gli bussasse sulla spalla dicendogli, con terminologia mutuata dal gioco della scopa: oouu, asu e asu!, per dire: qui si balla tra maschi.

Il carnevale com’è noto culminava con il veglione e con la smància delle maschere, dapprima nel Teatro comunale (ma anche nelle case della borghesia e nei circoli), poi alle Fontanelle, quindi nell’indefinibile Astra, di recente accessoriato di tutto punto come se fosse il Madison Square Garden. Quest’anno non si sa ancora ma non disperiamo, suvvia. Infine, visto che di recente tutti fanno sondaggi ne voglio fare uno anche io, da qui. Ma secondo voi se i Sovversivi il martedì di carnevale 2021 riorganizzano lo stesso evento dell’anno scorso alle Fontanelle, il democratico e liberale sindaco sguinzaglierà, lestu e guagliardu, come fece l’anno scorso, le forze di polizia municipale per oscurare l’informazione e soffocare la libertà di espressione?

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