Abbiricavò, travu lùongu e i mazzùocculi. Ricostruzione, divagazioni e stramberie relative ai giochi fanciulleschi

«Al Kunsthistorisches Museum di Vienna, di fronte al grande dipinto di Pieter Bruegel il Vecchio, intitolato Giochi di fanciulli, non c’è visitatore che non cerchi, fra gli 84 giochi raffigurati in una sorta di strepitosa e magica antologia visiva, i giochi della propria infanzia». Così nel dicembre 1997 Andrea Camilleri, intervenendo a Palazzo Steri durante la presentazione della Carta dei giuochi fanciulleschi tradizionali dell’Atlante Linguistico della Sicilia.

In effetti, fa una certa impressione vedere rappresentati in un dipinto del 1560 – quindi non proprio di ieri – ed eseguito non proprio da Pino Pollara ma da un fiammingo, diversi giochi fanciulleschi (fra cui a cacalatùmmula, u chìrchiu, travu lùongu, a strùmmula, ammucciateddra) che nelle strade popolate e piene di vita di un tempo furono pratica quotidiana per la quasi totalità dei bambini di allora e che i supporters più irriducibili della cosiddetta castelbuonesità, non esiterebbero a considerare tout court come esclusivi di Castelbuono.

Ancora una volta, non è così. E sarebbe anche il caso che costoro se ne facessero una ragione. Che poi è quanto continuano a ripetere, non senza una buona dose di dileggio anzi, facìennucci a bbàia, i trionfatori delle ultime elezioni amministrative ai vinti, segnatamente alla parte tumminelliana.

Riprendendo il filo del discorso, dunque, anche nel caso dei giochi tradizionali, così come in politica e in mille altre cose, il mondo NON ci guarda. E fa bene. Anche perché ancora non si è mica capito cosa ci sarebbe da guardare. Il mondo, invece, u facci tosta, persevera a girare per i fatti suoi, infischiandosene del fatto che qualche propugnatore di questa bizzarra teoria chiazzannintra-centrica possa rimanerci male. Dunque u travu lùongu, per dirne una, non è nato ê Bbinidittini.

E se i soliti 12 facinorosi commentatori anonimi di Castelbuonolive, sempre gli stessi, (che, come sempre, se la cantano e se la suonano da soli) volessero insinuare che, invece, il gioco dello scaricabarile, con ovvia allusione alla politica, è nato ed è tuttora appannaggio dei nostri amministratori municipali, rimarrà deluso dal momento che anche questo gioco era conosciuto nel nord Europa di mezzo millennio fa, tanto che Bruegel lo raffigura da nel suo dipinto.

Noi – chissà quando, chissà per mezzo di chi – lo importammo e, inizialmente, lo chiamammo aggràu lu chiummu, che tradotto alla lettera vale ‘vi gravo il peso’. Successivamente, quasi certamente perché investiti da primordiali forme di modernità, ritenemmo quella denominazione poco trendy e lo ribattezzammo abbiricavò. Un po’ come hanno fatto tutti coloro i quali hanno mutato il proprio nome da Nzula in Enza, da Giusuppina in Giusy, da Filippa in Filly, da Luminata in Renata, da Crucifissa in Fyssa. O anche in Crucy, che non è di minore impatto.

Comunque, press’a poco a partire dal ventennio fascista (il primo, però, attenzione!), il gioco si chiamò abbiricavò. Si faceva con una decina di ragazzi divisi in due squadre: una avrebbe appuzzatu e i componenti dell’altra sarebbero saltati sui primi. Per comporre le due squadre si tuccava, ovviamente non nel senso che si cominciava a palpare a tutto spiano a destra e a manca, ma nel senso che si faceva la conta. Anche perché, allora, i giochi (a parte, si capisce, quelli assai specifici, di cui si dirà diffusamente in altra puntata) erano rigorosamente monosex per cui c’era veramente poco da toccare, soprattutto nell’accezione più porcacciona del termine.

E nella assoluta e triste separazione di genere vigente, anche la conta non sfuggiva a questa drastica regola: c’era quella per i maschi, vietata alle femmine, e quella per le femmine che i maschi non si sognavano di fare, anche per non dare luogo a facili inferenze da parte di tutti, anche dei più benevoli.

Allora, si sa, era tutto più ordinato e non c’erano le terribili commistioni cui si assiste oggi: donne con vestiti da maschi, maschi con vestiti da donne e se qualcuno al momento di uscire di casa va di fretta o è cunfunnutu su cosa deve indossare, può sempre andarsene in giro mezzo nudo, senza che la cosa desti impressione alcuna nella scena pubblica. Ed è giusto così, chiaramente. Perché oggi, come dicono gli anziani, c’è a bbeddra libbertà. Una volta, invece, facendo qualcosa che la norma inquadrava nell’universo di pertinenza dell’altro sesso, si veniva etichettati in maniera per niente generosa. Un giudizio a prima vista meno pesante era riservato alle bambine dotate dell’eccezionale capacità di sapere pisciare al muro, con tanto di traiettoria parabolica impressa. Una competenza, questa, di esclusivo appannaggio maschile. Ma dicendo chiddra sapi pisciari ô muru: è na diavula, oppure avi i corna, in buona sostanza si diceva ‘quella è un maschio’ in tutto e per tutto.

Prescindendo da queste sporadiche anomalie, si ritornava a mondi separati. Così come separate erano le conte. Per i giochi femminili la conta era sempre accompagnata da una filastrocca, una delle più note era senza dubbio:

Pala paletta signura Cuncetta
avi na figlia ca voli iucari
voli iucari ô vintitrì
una, dui e tri.

Filastrocca antica, sì, ma non da essere stata completamente dimenticata, al pari di

Ciarampampana quaṭṭṛu pagnani,
pani unu, pani dui, pani ṭṛi,
acci, rradici e vviscùottu
arritìrat’um peri

della quale, al massimo, si sarà perso il primo verso.  Non penso si possa dire altrettanto di quest’altra, incernierata su alcuni termini quanto meno incomprensibili:

Azzomblà
bburru, bburru catapà,
pinni, pinni, pinni pà,
azzomblà.


La filastrocca si recitava sillabando e additando ad ogni sillaba, nell’ordine di disposizione, una delle partecipanti al gioco. Colei che veniva indicata in corrispondenza dell’ultima sillaba (l’ultimo verso, qualunque fosse la filastrocca, si ripeteva tre volte) nniscìeva, veniva estratta. In generale, appuzzàvanu coloro che alla fine delle diverse conte rimanevano.

Per i màsculi che, abbiamo detto, tuccàvanu, l’operazione era più sbrigativa (fugace, si dovrebbe dire a rigor di termini) dal momento che si trattava di gettare il numero con le dita, fare la somma fra tutti e poi contare, partendo da quello che diceva iò-ìo e rigorosamente in verso orario, perché accussì si rrumina a pignata.

Ripetendo l’operazione più volte, alla fine, la metà dei ragazzi partecipanti al gioco non sarebbero stati estratti. Questi avrebbero appuzzatu, vale a dire si sarebbero disposti uno di seguito all’altro, piegati sulle ginocchia a formare con le spalle una lunga trave, a partire dal primo che si sarebbe sistemato contro un muro.

A questo punto il primo dell’altra squadra, solitamente il più agile, al grido di a-bbiri-ca-vò! (letteralmente ‘ehi, vedi che vado’), presa una congrua rincorsa, saltava a cavalluccio facendo in modo da andare a finire quanto più vicino al muro, in modo da lasciare sufficiente spazio agli altri che sarebbero saltati dopo di lui.

Quando tutti avrebbero saltato disponendosi a ccavaddru, si contava – per es. fino a dieci – e in questo frangente si decidevano le sorti per il proseguimento del gioco. Infatti, se coloro che stavano sotto sdirrinàvanu, cioè cedevano sotto il peso di chi stava sopra, il gioco si ripeteva con gli stessi ruoli; se, invece, chi appuzzava resisteva alla carica di quelli messi sopra, che cavaddriàvanu come degli assatanati per farli sdirrinari, o se quelli a cavallo, nell’irrefrenabile impeto di squinternare chi appuzzava cadevano, si invertivano le parti, come si può vedere in questa sommaria e relativamente recente ricostruzione del gioco.

Furibonde liti scoppiavano allorché, non di rado a onor del vero, stramazzavano tutti al suolo a mmunzieddru e non era mai possibile stabilire se a causa di chi appuzzava, che non aveva resistito al furioso recalcitrare degli altri, o di quanti stavano sopra che non erano riusciti a rimanere in groppa. Anche in questo caso, si capisce, tutta a sciarra è ppâ cutra in quanto appuzzari non faceva piacere a nessuno, soprattutto se fra coloro che dovevano saltare vi era qualche giovanotto per niente deperito, anzi abbastanza florido, fuddratu comi a sasizza si soleva dire, che già a dieci anni sfiorava il quintale e quindi saltando, sotto la delicatezza del proprio peso, sarebbe stato in grado di sderenare anche un bue.

Ad ogni modo, non si seppe mai il perché ma, da un certo momento in poi, il grido per avvertire che si stava effettuando il salto, divenne – col senno del poi – decisamente più evocativo e politicizzato: a-bbiri-ca-vò, u sceccu ti vo!

Noi allora non potevamo neppure lontanamente immaginarlo ma, alla luce di quanto sarebbe successo tanti anni dopo, il nostro futuro, evidentemente, era già stato scritto con strabiliante anticipo nel grande libro cosmico. Ora sappiamo per certo che siamo nati per soffrire, come ci ricordò più volte Craxi, nel corso degli anni ’80, e noi allora non ci credemmo. E, ancora una volta, trova conferma l’antico adagio popolare secondo il quale cu prima un penza, all’ùrtimu suspira.

In ordine a litigi, scaramucce, chiacchiere e tabbaccher’i lignu, decisamente meno compromettente era u travu lùongu, un gioco senza vincitori né vinti, che si svolgeva con spirito decubertiano in purezza e finalità da esercizio ginnico, dal momento che era una sorta di salto della cavallina in continuità con i partecipanti che si alternavano nel ruolo di saltatori e di ostacoli da saltare

Ovviamente, si poteva giocare a travu lùongu anche nel corridoio di casa, ma farlo â stratê Purpuri, â stratê Minà, ô Bbeddri vidiri, â stratê sant’Anna per poi attraversare a chiazza nnintra e infilare â rrua fera al gran galoppo, aveva decisamente tutto un altro fascino. Soprattutto se quei poderosi salti venivano compiuti sotto lo sguardo severo di don Ninì che, seduto sulla soglia della sua sartoria â chiazza nnintra con una gamba sull’altra a fare u supramanu, ti accompagnava alzando e abbassando la testa leggerissimamente, tistianni, fin quando non sparivi dalla vista.

Allo stesso modo, una strada larga e lunga come per es. â Strata ranni oppure ô Passettu era assolutamente necessaria per giocare ê mazzùocculi, una sorta di baseball… senza ball. Scherzi a parte, proprio, senza palle. E soprattutto senza doppi sensi, perché se per giocare a baseball ci vogliono veramente le palle, una mazza ed eventualmente un guantone, per giocare ê mazzùocculi ci vuole una piccola mazza, detta appunto mazzùoccula, fatta con un sottile segmento di ramo, generalmente di frassino, e un piccolo bastoncino – u trentu – lungo una decina di centimetri con le estremità appuntite, che sostituisce l’analogo della palla, e che in lingua si chiama lippa.

E lippa è anche il nome con cui è noto il gioco, che vanta antiche origini (XV sec.) e soprattutto molteplici autorevoli citazioni in letteratura (Mario Rigoni Stern ne parla nelle Storie dall’Est e Italo Calvino in Prima che tu dica pronto) ma anche in ambito cinematografico (Guardie e ladri, con Totò e Aldo Fabrizi, I soliti ignoti con Totò, Mastroianni e Gassman, Altrimenti ci arrabbiamo con Bud Spencer e Terence Hill, Stanlio e Ollio nel paese delle meraviglie,). Senza dire che anche il re del rock & roll (non il nostro Giannuzzu Giacché, beninteso, ma Celentano in persona), nei primi anni cinquanta, in via Gluck, là dove c’era l’erba, giocava ê mazzùocculi.

In questo, come in diversi altri giochi, per es. ammucciateddra, latri e carrabbuna, lìbbera, pitiloss, l’origine del gioco – ma anche dove esso si conclude e si invera – si chiama a tana. Un nome che, quando non è preso alla lettera ma in senso decisamente traslato, risulta profondamente evocativo di anfrattuosi arcaismi antropologici: è chiaro, infatti, che tutto si origina dalla tana e tutti ritornano alla tana (addrìccati e vacci, insomma). La tana, in altre parole, è… L’origine del mondo.

La tana è, dunque, il tòpos dove inizia il gioco dei mazzùocculi. Materialmente è una linea circolare tracciata per terra, o una pietra che funge da punto di riferimento, dove il battitore, mediante la mazzùoccula, cafuddra di lùongu e llùongu un colpo al trentu spedendolo verso l’altro giocatore posto a una decina di metri di distanza.

Se quest’ultimo riesce a prenderlo a volo (anche con l’ausilio della maglietta allargata), esclamando annattrì, guadagna la battuta. Se non ci riesce, deve lanciare il trentu con le mani (che, mi è stato assicurato, non è proprio così semplice come applaudire con le mani) verso la tana e farlo arrivare a una distanza minore di una prefissata. Se ci riesce, chi aveva battuto perde il servizio e si dice che cci lassa perché deve cedere la mazzùoccula all’altro.

Ora, poiché la distanza dalla tana non si misurava con le unità di misura del Sistema Internazionale ma, molto approssimativamente, con mazzùoccula e trentu e, per distanze minori, con le dita, finiva che per prendere le misure, inevitabilmente, si sgrimmiava e, seduta stante, cominciavano gli alterchi accompagnati da uno strano rituale: chi contestava, per certificare la veridicità di quanto affermato, sputava nnâ tana. Quasi un giuramento e, pertanto, l’autocertificazione di avere mentito.

Certo, se l’attendibilità delle affermazioni di certi politici di oggi, soprattutto di quelli che vanno per la maggiore nei cosiddetti territori, si dovesse valutare attraverso tale pratica, le ghiandole salivari di costoro sarebbero perennemente al secco. E per ripristinarne le funzioni, stante anche la perdurante siccità, bisognerebbe captare l’acqua, non già dal torrente Vicaretto e neppure dal tristemente noto invaso artificiale ma direttamente dal lago Michigan.

Nel gioco dei mazzùocculi la posta in gioco era, quasi sempre, una poderosa cavaddriata, niente di sconcio, si capisce, ma una innocente e pudica purtata accavaseddra da un punto, la cui distanza dalla tana si determinava con i sticcati, previo accordo sui fitusi.

La qual cosa, si badi bene, non c’entra niente col fatto che i giocatori in questione non si lavassero, né che fossero dei sordidi, na cosa fitusa, insomma. Bisogna, invece, ricondursi all’inglese feet house che potrebbe essere tradotto come ‘passi verso casa’, verso la tana – appunto – alla quale, come una grande madre primordiale, si finisce col ritornare. Quasi una teoria dell’eterno ritorno. Cose troppo complicate, come si vede.

Dunque, ci si metteva d’accordo preventivamente: facciamo una partita, per es., di trenta fitusi. Alla fine, il vincitore colpendo il trentu con la mazzùoccula per trenta volte (ciascuna di questa era una sticcata) lo lanciava a partire dal punto in cui era atterrato col precedente colpo. Dal punto in cui avveniva il trentesimo atterraggio del trentu si partiva accavaseddra destinazione tana 

Un gioco molto popolare, quello dei mazzùocculi, ma che assurse a notorietà, anzi a notorietà assai triste, soprattutto per via dei numerosi e frequenti vetri di finestre e finestroni mandati in frantumi dal trentu che fendeva l’aria a velocità folle, colpito con impeto terribile dalla mazzùoccula.

E una volta, â strata longa, a fare le spese del missilistico trentu fu l’elegante e immacolata insegna al neon color glicine, Coiffeur pour femmes che, messa a dimora quella stessa mattina, capitolò nel pomeriggio, ‘alle cinque de la tarde’, sotto lo sguardo pietrificato di Puppinu Fallurduni, titolare dell’atelier, il quale, mentre si pilava, affranto per l’immane sciagura, alternava i sensi del suo profondo sconforto con una copiosa quanto assortita apologia dei santi.

I danni arrecati all’insegna di Fallurduni furono addirittura di nessuna entità rispetto a quelli causati dall’ipercinetico trentu ai visi e agli occhi che inconsapevolmente intercettarono la sua traiettoria. Come successe in epoca imprecisata a màsciu Nardu u Caliatu, al secolo mastro Leonardo Barreca, che, seduto paciosamente sull’uscio del suo deposito di manna in via Giordano, venne picatu – colpito in pieno – ad un occhio e accecato dal trentu che sfrecciava con forza cieca di baleno.

Da allora, e per un po’ di tempo, specialmente quando i genitori non riuscivano ad avere ragione di certi figli particolarmente indocili, per intimorirli minacciando che sarebbero passati alle vie di fatto, solevano dire loro: ti nnùorvu comi a màsciu Nardu u Caliatu. Ovviamente, come sempre accade in questi casi, allora come oggi, né i bricconi furono minimamente lambiti dall’idea di cambiare registro né, tantomeno, i genitori fecero seguire i fatti alle terribili minacce. Per fortuna.

I Video, girati a Castelbuono il 19 ottobre 1997, appartengono all’Archivio dell’Atlante Linguistico della Sicilia e vengono qui pubblicati per la cortese concessione del Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani che qui voglio ringraziare.

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