Alle origini di Palazzo Turrisi (per favore, senza Colonna) – di Orazio Cancila

Pubblichiamo di seguito il contributo ricevuto in esclusiva per CastelbuonoLive dal prof. Orazio Cancila. Lo scritto è un interessante e dettagliatissimo excursus storico di Palazzo Turrisi, dalle origini fino ai primi  900.

Non è la prima volta che il prof. Cancila ci onora della pubblicazione dei suoi pregevoli scritti su CastelbuonoLive. Confidando in ulteriori contributi futuri, abbiamo ritenuto utile creare all’interno del blog una nuova rubrica che chiameremo semplicemente “StoriA”.

Seppur simile in essenza alla ben nota rubrica del prof. Massimo Genchi “Castelbuono Storie” (a breve nuove puntate) “StoriA” sarà particolarmente votata all’analisi peculiare della nostra storia, basata su ricerche dettagliate, anche inedite, dei nostri luoghi.

Tutto nasce dalla volontà di ricordare e raccontare alla comunità quali sono  le nostre radici, chi erano i nostri antenati, chi era un tempo il nostro popolo.

Il futuro si illumina se lo osserviamo conoscendo il passato

 

Alle origini di Palazzo Turrisi (per favore, senza Colonna), di Orazio Cancila

L’attuale palazzo Turrisi di via Umberto a Castelbuono nel suo nucleo fondamentale risale almeno alla fine del Cinquecento: nel 1582 i coniugi Agata Corradino e mastro Bartolo de Parisio, titolare di una conceria con giardino annesso nella contrada Conceria, possedevano infatti anche una casa solerata di quattro vani in contrada Inchiancato (l’attuale via Umberto), che confinava allora con le abitazioni di Natale Failla e di mastro AntoninoVittimara e che essi eranno costretti a ipotecare a favore di Pietro Provina, al quale avevano soggiogato una rendita annua di onze 2 per un capitale di onze 20. Avevano cioè ottenuto dal Provina un mutuo di onze 20 e si erano impegnati a pagargli annualmente un interesse del 10 per cento, ossia onze 2.

Impegnato nella gestione in appalto delle gabelle civiche, mastro Bartolo negli anni immediatamente successivi (1585) fu costretto a ricorrere a un nuovo mutuo di onze 12, che gli fu erogato dal commerciante Tommaso Peroxino, con l’impegno di pagargli annualmente una rendita di un’onza e 6 tarì e la solita ipoteca su tutti i beni dei due coniugi, tra cui anche la casa solerata di quattro vani con bottega, due sopra e due sotto, in contrada Inchiancato, confinante adesso con le abitazioni di mastro Antonio Vittimara e di mastro Guglielmo Rametta. Apprendiamo così che a pianterreno la casa disponeva di una bottega.

Nel 1593, l’abitazione dei coniugi Parisi risultava di sei vani: tre sopra e tre sottostanti. Molto probabilmente, mastro Bartolo aveva acquisito l’abitazione limitrofa di Vittimara, perché la sua casa, se continuava a confinare con quella di mastro Gian Pietro Rametta, aveva come altro confinante Matteo Manzo e non più Vittimara. La famiglia Manzo continuerà a possedere l’abitazione sino alla a metà Settecento.

Dieci anni dopo (1604) mastro Bartolo fu costretto vendere una delle tre botteghe ad Anna Carollo, ma quasi certamente aveva già acquisito altre case confinanti, perché il figlio ed erede Giacomo nel 1607 dichiarava il possesso di una casa di ben 14 vani nel quartiere Inchiancato (ormai il termine contrada era in uso solo per le campagne), che confinava con le abitazioni di Matteo Manzo e di Pietro Quartigno.

L’abitazione di Giacomo Parisi era collocata al confine tra il quartiere Fera e il quartiere Inchiancato, cosicchè talvolta (1616, ad esempio) risultava ubicata nel quartiere Fera. Di fatto il quartiere Inchiancato (costituito dalla prima parte di via Umberto) cominciava a essere assorbito a sud dal quartiere Terravecchia, ad ovest dal quartiere Fera e ad est dal quartiere Vallone. Costretto a restituire la dote alla moglie Celidonia Alteri, Giacomo a fine aprile 1621 le cedette la casa solerata di nove vani (quattro sopra e cinque sotto) con altre tre botteghe sottostanti, ubicata nel quartiere Terravecchia, nella strada dell’Inchiancato, e confinante con le case di mastro Francesco Campo e mastro Matteo Manzo. La riprese pochi mesi dopo e in ottobre liquidò con una cessione di crediti il debito di 30 onze nei confronti del medico Ottavio Agliuzzi, a causa di una rendita annua di onze 3 che gravava sull’immobile e che non era stata pagata per dieci anni. Ancora nel 1623, Giacomo Parisi, che intanto si era trasferito a Palermo, possedeva a Castelbuono una casa di otto vani nel quartiere Inchiancaro, confinante con le abitazioni di Matteo Manzo e di Giacomo Ingarbera.

Per oltre un secolo sull’immobile non si rinvengono notizie dirette. Bisogna aspettare il 1738 per poterne ricostruire le vicende. Attraverso vari passaggi, le due rendite a carico dei Parisi e a favore inizialmente di Pietro Provina e di Tommaso Peroxino erano pervenute nel 1626 alla cappella del Sacramento di Castelbuono, che continuò a riscuoterle regolarmente sino al 1698, anno della morte di Ottavio Guarneri, al quale i beni ipotecati erano finiti, attraverso passaggi che, allo stato delle ricerche, non sono note. Si trattava di due botteghe, un tempo site nel quartiere ciacato e nel 1738 nel quartiere Terravecchia, e di una casa di sette vani, cinque sopra e due sotto, con entrata e astraco coperto sopra le botteghe, confinante con l’abitazione di don Giuseppe Manzo e con la casa di mastro Francesco Xhareri.

Poiché gli eredi del Guarneri non pagarano più la rendita che gravava sugli immobili, la cappella del Sacramento ne prese possesso e cominciò a locarli per suo conto: la bottega adibita a forno al cefaludese Giuseppe Costanza, la seconda bottega a cantonera a Nicolò Citarella di Napoli e la casa al confinante don Giuseppe Manzo. Rimaneva tuttavia ancora creditrice di onze 43 e tarì 8 e decise quindi di avviare, con l’assistenza del giurisperito Vincenzo Levanti, azione giudiziaria per ottenerne la proprietà. Ciò sentendo, donna Rosaria Guarneri, moglie di don Rosario Ragusa e una delle figlie ed eredi di Ottavio Guarneri, chiese alla cappella il rilascio degli immobili a favore suo e delle sorelle Rosa e Dorotea Guarneri, impegnandosi al pagamento del canone annuo e, ratealmente, del debito di onze 43.8, in ragione di onze 2 l’anno. L’accordo fu stipulato nel 1738.

Nel marzo 1752 si stipulò un duplice matrimonio: Rosaria Guarneri fu Ottavio, vedova di tale Scilla e successivamente di don Rosario Ragusa, sposava don Antonino Tedaldi, vedovo di Abbondanza Nigrelli, portandogli in dote un terzo della casa sita nel quartiere Terravecchia, confinante con l’abitazione degli eredi del defunto don Giuseppe Manzo (gli altri due terzi appartenevano ancora alle sorelle donna Rosa e donna Dorotea Guarneri); la figlia di donna Rosaria, Anna Scilla, vedova di Vincenzo Sutera, sposava il figlio di don Antonino Tedaldi, Sebastiano. Nell’occasione, donna Rosaria prometteva di nominare la figlia Anna una delle sue eredi universali; donna Rosa Guarneri, vedova di Colonno Guarneri, dichiarava che alla sua morte nei suoi beni mobili e stabili sarebbe succeduto il figlio rev. Domenico Guarneri, alla cui morte sarebbero succedute le sue sorelle donna Rosaria e donna Dorotea, e infine alla morte di costoro la nipote Anna Scilla e le altre sorelle della stessa Anna in parti eguali; donna Rosaria e donna Rosa dichiaravano che Anna era una delle eredi universali della loro sorella Dorotea. Si ponevano le premesse perché l’immobile passasse interamente nelle mani di Anna Scilla in Tedaldi e successivamente del marito.

In data successiva, gli eredi Manzo vendettero l’abitazione del defunto sacerdote al napoletano Saverio Citarella, alla cui morte nel 1779 essa confinava con quella di Sebastiano Tedaldi. Anna Scilla era già deceduta a fine gennaio 1769 senza eredi diretti e don Sebastiano, che ne aveva ereditato l’abitazione, nell’agosto successivo si era affrettato a convolare a nuove nozze con donna Domenica Malfitano, figlia del giurisperito Vittorio, dalla quale ebbe Pietro (monaco), Abbondanza, Emanuele, Maria Anna e Maria Giuseppa.

La morte colse don Sebastiano a fine ottobre 1787 e due anni dopo gli eredi procedettero alla divisione della casa solerata di otto vani, di cui cinque soprani, tre terrani e una bottega nel quartiere Fera, confinante con casa degli eredi Citarella e casa degli eredi di mastro Saverio Torregrossa. Ormai il tratto di strada tra l’attuale piazza Margherita e via Giordano-cortile Ventimiglia non faceva più parte del quartiere Terravecchia, ma faceva da spartiacque tra il quartiere Fera a ovest e il quartiere Vallone a est. Tuttavia nelle aree di confine talora le due denominazioni si alternavano. Mastro Giusepe Oddo valutò l’appartamento onze 115 e tarì 18 e la bottega onze 18.12. In tutto onze 134, che si riducevano a onze 86 considerato che sull’immobile gravava ancora un canone annuo di onze 1.18 a favore della cappella del Sacramento per un capitale di onze 48. Delle tre porzioni in cui l’asse ereditario fu diviso, la prima porzione – costituita da mezza sala, camera nominata dell’astraco e corpo sottano buio, per un valore di o. 47 – fu assegnata a donna Domenica Malfitano, già vedova del Tedaldi e intanto risposatasi con don Agostino D’Angelo di Collesano, in conto dei suoi crediti nei confronti dell’eredità, tra cui la restituzione della dote. Agostino molto probabilmente era il padre di don Giuseppe D’Angelo di Collesano, marito di Abbondanza Tedaldi, nonché tutore dei tre figli minori di don Sebastiano. La seconda porzione – costituita da camera e camerino confinanti con la casa dell’eredità Torregrossa, corpo sottano confinante sempre con la casa dell’eredità Torregrossa e la bottega – fu adottata da don Giuseppe per i minori Emanuele, Maria Anna e Maria Giuseppa. La terza – costituita dall’altra metà della sala, confinante con la casa dell’eredità Citarella, entrata e cucina – fu adottata dal monaco Pietro, il quale aveva avuto in precedenza anche altra bottega sottostante, che aveva già ceduto al canonico Giovanni Galbo per una rendita annua di un’onza.

Il mese successivo gli eredi Tedaldi, con tre contratti diversi, vendettero il tutto al canonico Galbo, che un anno dopo, nel luglio 1790, dismise a favore di Antonino Turrisi di San Mauro, pro persona o personis nominandis, «domum unam soleratam in diversis corporibus, sursum et deorsum, cum eius astraco et apotheca… sitam et positam in hac preditta civitate et in quarterio Ferae, secus domum heredum quondam Xaverii Citarella, secus domum heredum quondam Xaverii Torregrossa et secus alios confines», ossia quello stesso immobile dal canonico acquistato da potere degli eredi Tedaldi. Sono convinto che sin dall’inizio il canonico Galbo avesse operato per conto del Turrisi, perché il prezzo dell’immobile fu proprio onze 134, ossia quello stimato da mastro Giuseppe Oddo al momento della divisione. Turrisi si accollava il canone nei confronti della cappella del Sacramento per un capitale di onze 48 e lasciava la bottega, valutata onze 18.12, in potere del canonico. L’esborso del Turrisi si riduceva così a onze 67.18, che pagava in contanti. Dalla compravendita era esclusa la bottega che il canonico aveva acquistato in precedenza da don Pietro, mentre l’altra bottega era contestualmente subconcessa al Turrisi, a condizione che egli entro tre anni acquistasse al canonico Galbo analoga bottega «d’uguale condizione, grandezza, spazio ed altezza in questa pubblica piazza».

Antonino Turrisi Anzaldi, allevatore e affittuario dell’intero marchesato di Geraci, operava da tempo a Castelbuono, dove nel 1750 aveva sposato Anna Piraino, figlia del barone Pietro Piraino, e dove intendeva fissare definitivamente la sua residenza e quella dei numerosi figli, nessuno dei quali si era ancora sposato. A fine anno, il figlio Nicolò aggregò all’immobile appena acquistato anche i tre vani soprani limitrofi, vendutigli dai coniugi Rosario Palmeri di Collesano e Gabriela Brigaglia per il prezzo di onze 27.10, di cui onze 23.14 secondo la stima del capo dei muratori di Castelbuono e onze 3.26 di sovrappiù. A richiesta del sacerdote Antonio Di Bernardo, don Nicolò Turrisi Piraino si obbligava «di non alzare la suddetta casa come sopra comprata più di quella casa collaterale, che attualmente possiede e che gli fu venduta dall’eredi del fu Sebastiano Tedaldi, e ciò per non impedire il lume alla casa di propria abitazione del sudetto reverendo Di Bernardo esistente in frontespizio alla sudetta casa». La casa del sacerdote Di Bernardo era quella ad angolo tra le attuali vie Giordano e Turrisi, dove attorno al 1950 abitava la maestra Barreca Bartolotta.

Tutto era pronto per la trasformazione nei primi mesi del 1791 degli immobili appena acquistati in un grande palazzo, con una spesa di ben onze 540 e tarì 5. La somma può dare un’idea delle opere effettuate e delle profonde trasformazioni: se si considera che i vecchi edifici erano stati acquistati per complessive onze 161.10, essa equivale a tre volte e mezzo. Furono così pagate da don Nicolò onze 59.20 a mastro Giuseppe Tantillo «per avergli fatto le ossature di n. 6 damusi con sua legname, due porte e n. 2 arcovie compite»; onze 30 a Giovanni Carcarella di Petralia Sottana per salme 45 di gesso; onze 87.21 a mastro Illuminato Prisinzano «per tante giornate di mastri e manuali fabbricieri»; onze 30 a Carmelo Mangia per salme 200 di calce; onze 15 a mastro Mariano Barreca per canne 30 di pietra; onze 39.10 a mastro Ciro Barreca per 15.000 mattoni grossi, n. 3.000 mattoni a mitra e n. 1.000 tegole; onze 65 a mastro Francesco Nicosia di Palermo per n. 5 finistroni di ferro, cioè 3 lavorati alla greca e 2 piccoli lisci; onze 4 a mastro Giuseppe Tantillo per n. 5 balate di Genova; onze 97.20 a mastro Giuseppe Marchisotto per n. 6 portiere di camera, n. 5 portiere di finistroni e n. 5 telai di vetrate dei finistroni, n. 2 porte grandi di cui una per la sala e una per la dispenza, travi, serratizzi per la casa e per «l’ossatura delle pareti»; onze 15 a don Giuseppe Di Garbo, noto pittore castelbuonese, per «aver pittato tri damusi di tre camere, tre portiere di camera, due arcovie, tre portiere et tolari di finestroni e due tremo esistenti in detta casa»; onze 24.8 a mastro Giaocchino Di Vono per salme 104 di «rina di Gonato»; onze 10 a mastro Francesco Minneci per salme 200 di «rena nera»; onze 12 a mastro Agostino Barreca «per aver sterrato la casa sudetta, la strata della piazza e vanella di sopra»; onze 10 a mastro Giovanni Cascio Lovisello per 300 fasci di canne; onze 10 a mastro Mauro Turrisi «per ferramenti di portiere, fermature, succhiari, ferri di vitrati, bacchette e frontezze»; onze 26.10 a mastro Giovanni Cascio Lovisello «per mastrie di tre damusi ed ammattonare tutta la casa, la prospettiva in la parte della piazza dal di sopra»; onze 4.6 a mastro Emanuele Gaudio «per aver portato l’acqua [corrente?] in detta casa».

Era sorto Palazzo Turrisi!

I fratelli Turrisi Piraino (don Giuseppe, don Pietro, don Vincenzo, don Nicolò, don Angelo e don Mauro) vivevano da sempre «in una società perfetta» e nel 1797 dichiaravano di voler continuare a vivere in società, cosicché «tutte le gabelle, arrendamenti, trafichi e negozii di qualunque siasi genere e specie e di qualunque siasi natura che compariscono e che appresso potranno comparire sotto il nome d’alcuno o d’alcuni di noi, o di noi tutti, o di nostra persona d’alcuno di noi e che in qualunque maniera si apparterranno in tutto o in parte, direttamente o indirettamente a noi, ad alcuno o ad alcuni di noi, che siano… di conto sociale di noi sudetti fratelli in rata uguale». Di essi sposò soltanto il barone Mauro, padre di Nicolò, Giuseppe, Antonio, Giuseppina e Anna Turrisi Colonna. Ognuno dei fratelli Turrisi Piraino morendo lasciava la sua parte del patrimonio comune agli altri fratelli superstiti. Così fece anche Mauro, che lasciò tutto al fratello superstite barone Vincenzo – l’unico che viveva a Castelbuono nel palazzo sito nella piazza del Collegio di Maria di Castelbuono –, alla cui morte nel settembre 1848 l’intero patrimonio fu ereditato dai fratelli Nicolò, Giuseppe e Antonio: le due sorelle Giuseppina e Anna, già decedute peraltro, erano state dotate con denaro contante reperito attraverso pesanti mutui che gravarono per decenni sul patrimonio dei tre fratelli.

Nel 1863 i tre fratelli procedettero alla divisione del patrimonio ereditato e i beni di Castelbuono spettarono al barone Nicolò, compreso ovviamente il palazzo, che per i notai dell’epoca continuò a essere chiamato palazzo Turrisi (senza Colonna). E quando nel 1882 l’amministrazione comunale di Castelbuono soppresse i quartieri e diede un nome alle strade, se il corso principale del paese dove prospettava il palazzo fu dedicato al vivente re Umberto I, la strada parallela dalla quale si accedeva al palazzo fu chiamata via Turrisi (senza Colonna). Dopo la morte di Nicolò nel 1889, il figlio Mauro, fortemente indebitato con le banche, vendette il palazzo al commerciante, nonché titolare di una conceria, mastro Pietro Cardella, dal cui figlio avvocato Antonio – che ne era proprietario nel 1915, quando vi si stipulò l’atto di fondazione della Banca Agricola “La Nebrodese” – lo acquistarono i fratelli Marzullo.

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