In controluce, nel passato castelbuonese | Caleidoscopio Natalizio (parte 4)

In controluce, nel passato castelbuonese
CALEIDOSCOPIO NATALIZIO
di Giuseppe De Luca

Dissolta la ricorrenza del Santo Natale, malgrado il freddo, malgrado la stanchezza, i primi a saltare fuori dal letto, il giorno di Santo Stefano, erano, sorprendentemente, proprio i più piccoli. Iniziava altra attesa: fra pochi giorni sarebbe arrivata la Vecchia: la si immaginava frattanto tutta intenta a preparare i doni nella sua grotta sull’alta montagna: a ben guardare le Madonie, chissà, la si sarebbe potuta intravedere, ma si sapeva che quella, proprio per le tante faccende, non si sarebbe mostrata mai. In verità, in quei tempi, vi era ben poca possibilità di scelta, essendo il mondo del mercato del tutto arido e inadeguato ai bisogni dei fanciulli; ma ognuno non ci metteva niente a credere nella perfetta essenza del suo personale comportamento ed a sperare in particolari benevolenze per… meriti speciali.

Erano quelli i giorni in cui ciascuno cercava di non farsi richiamare dai genitori: ci si precipitava ad ogni chiamata, si andava con gioia a prelevare l’acqua dalla fontana, in massima celerità; si portava al pascolo la capretta, legata alla corda, facendola rimpinzare per benino; si curavano con sollecitudine ed attenzione i tanti compiti di scuola che i maestri d’allora «lasciavano» proprio numerosi anche per le vacanze di Natale; non si bisticciava con nessuno e si scansavano meticolosamente le zuffe; si evitava con somma perspicacia di provocare nei cari familiari abituali, lusinghiere, deliziose, carezzevoli espressioni come: Sbriugnatu! Si t’arrìsichi a ncugnari intra, ccu na argiata ti mpìccicu ô muru! oppure Quannu scura nni parramu! Facci di chiaccu! Facci di furca! Appena s’arricampa u pà ccu na pidata t’ha fari vulari nta l’aria. Ognuno cercava il modo e la maniera di mimetizzarsi angelicamente sotto le apparenze di un agnellino, anche se, in cuor suo, pensava già che sarebbero dovuti passare quei frangenti e che finalmente… avrebbe potuto rifarsi, specialmente se la Vecchia non fosse arrivata nelle condizioni previste. E frattanto, nei momenti in cui si veniva lasciati in pace poiché anche i familiari in quei giorni profittavano dell’arrendevolezza dei ragazzi, ci si accordava per il rito di ogni anno.

Bisognava preparare un simulacro di Vecchia che si adattasse per benino a raffigurare il vecchio anno che andava via e che aderisse anche alle trepide aspettative di un incontro con il nuovo che avrebbe colmato felicemente gli animi di tutte le soddisfazioni e di tutte le consolazioni

Si andava pertanto alla ricerca collettiva di miseri panni smessi o raramente usati – erano pochini, in verità – ci si affiatava amorosamente fra amici, vicini e compagni di scuola, dimenticando i precedenti litigiosi, e si mpupava (addobbava) la Vecchia con tanto di veste imbottita, legata attorno ad una forcella d’amolleo; una canna in croce simulava le braccia spalancate, una scialletta svolazzante la riparava dal freddo, uno scuro fazzolettone serviva a nasconderne la fisionomia sconosciuta: tutte le sembianze, in perfetto assetto di fatica, completate da un sacco rigonfio di paglia, caricato sulle di lei spalle – e che, immaginosamente, racchiudeva i doni – avrebbero destato sicuramente, in ciascun membro di qualsiasi giuria internazionale, l’irrefrenabile istinto di conferire a quei ragazzi il primo premio assoluto, l’Oscar, per il migliore spaventapasseri addubbatizzu della storia dell’umanità. E, se, nel vicinato, si poteva ottenere in prestito, magari con la raccomandazione di rito: «Attenti! un la sfasciati!», una bisunta sedia sfunnatizza e sciancatedda, si raggiungeva veramente il colmo della realizzazione creativa. Si tiravano, quindi, fuori da tutte le stalle, campane, campanelli e campanacci di capre, agnellini e vacche e… via per le strade, per tutte le strade del paese. In quei giorni, in un crescendo… rossiniano, fino alla vigilia del fatidico trentuno, si viveva immersi in un roboante concerto di greggi e mandrie, che, sebbene in concreto mancassero assolutamente del belato e del muggito degli animali, tuttavia assordavano dovunque si trovavano a passare. A questa musica, ritmata in tutte le sfumature più sottili e più cupe, in tutti i toni acuti, più teneri o più violenti, in tutte le cadenze più vivaci e più stonate, si aggiungeva il vocìo gaio e festoso, scattante e petulante dei fanciulli di ogni età: i grandicelli guidavano i piu piccoli – Di ccà si piglia! – e costoro, seppur stentavano a seguirne il passo intraprendente ed entusiasmante, affrontavano comunque la fatica con fiducia, tenacia e sicurezza: ognuno coltivava in cuor suo i suoi sogni segreti e non voleva essere da meno degli altri!…

Ed arrivava infine la tanto sospirata mattina dell’ultimo dell’anno: la nuova generazione, abituata alle vetrine dei negozi di oggi, a questo punto si guarderà attorno e penserà a tutte le fantasticherie del mondo.

Eh!… Già!… Anche allora erano salti acrobatici di esultanza!

Ma cerchiamo di scoprire i «doni» di quei tempi: un nuovo paio di pidunetti (calze), sferruzzate a mano di nascosto, uno scialletto di lana grezza d’agnina (di agnella), una cùoppula previdentemente ampia e spaziosa che immediatamente avrebbe coperto anche le orecchie, alcuni quaderni con la copertina nera ed il bordo rosso, e poi… i dolci: parecchi, troppi dolci per le pance di quei tempi!… Qualche pizzichintì, quattro pastine, due mustazzoli, un susameli, tri cosi chini, du pira azzuoli, castagne al forno, fichi secchi ncunati e scunati (sia infilzati in piccia, che sfusi), collane di pere e sorbe essiccate al sole di agosto…

Tutta questa roba mangereccia, che, per via delle privazioni perdurate dodici mesi, scompariva, in precipitoso esaurimento, al più tardi, entro le due ore di notte (l’ora canonica che cade due ore dopo l’avemaria) del vecchio anno, nei primi momenti dell’anno nuovo, spesso, provocava immantinenti spasmodici laceranti dolori addominali notturni, che, al solito, culminavano, nella prima mattinata, nella sonnolente visione e nella forzosa somministrazione di due dita di olio di ricino luccicanti in fondo ad un bicchiere ricoperto dall’odiato mezzo foglietto di candida carta da farmacia. Così il giorno di Capodanno iniziava in una inconsueta fase di spiritosa allegria e trascorreva fra un vivace andirivieni dal retrait ubicato dietro la porta di casa e tra quattro… salti a pancia vuota sulla  strada: chi tentava di allontanarsi arrivava, tutt’al più, nel posto più recondito della Calateddra o dû cùozzu û Rusàriu, dove era costretto a fermarsi e… dove si fermava… si fermava…

E, grazie a Dio, anche allora si arrivava al giorno in cui, sfiniti, si poneva fine ai diversivi natalizi.

Questo giorno giungeva per la Tufanìa (Epifania), quando durante la solenne Messa Cantata, celebrata nella Madrice Nuova, a cui partecipava un nugolo di sacerdoti, si sentivano vanniari i festi di l’annu dû pùrpitu appinninu. Tutti accorrevano, per l’ultima festa, a sentire il sacerdore officiante che, salito sull’ambone, con rito solenne, declamava in cantilena le date delle feste più importanti del nuovo anno: il possesso di un calendario costituiva, allora, una rarità ed un lusso che solamente le persone facoltose ed istruite riuscivano a permettersi e ad interpretare: lo scorrere del tempo, in quell’epoca, come del resto ai nostri giorni, però, continuava, come continua, senza l’ausilio di alcun foglio di carta: provvedeva, come provvede, a regolarlo provvidenzialmente l’Onnipotente Iddio…

Canto popolare natalizio
 
Ninu,Ninu lu picuraru friscaletti cci nni su’ un paru
sunamunilli tutti dui
ca Gesuzzu si prea chiui;
ha vinutu lu craparu
nun avìa chi ci purtari
purtau latti nta la cisca ricuttedda e tuma frisca;
arrivau lu cacciaturi
nun avìa chi ci purtari
purtau un liepru e un cunigghiu
ppi la Matri e ppi lu Figghiu;
ha vinutu na picciuttedda
ha vinutu di muntagni
purtau ntesta na truscitedda
ccu nuciddi e ccu castagni;
arrivau lu vurdunaru
nun avìa chi ci purtari
purtau un fasciu di lig na ranni
ppi asciucaricci li panni.
Si nun su’ boni, cumpatiti
e st’affettu riciviti;
cumpatiti, Matri mia,
pirchì semu a la campìa!
E sta notti disiata
ca nascìu Gesuzzu Eternu
c’a scinnuta so’ sacrata
ralligrau stu friddu mmiernu

(Cantilena raccolta, alcuni decenni addietro, dalla viva voce di un’arzilla vecchierella, che il vicinato chiamava «a za Prizzita nchianaticchiena», vedova di un pastore a me ignoto; conosceva e canticchiava parecchie nenie che mi rammarico, purtroppo, di non aver potuto trascrivere nella loro completezza. – G.D.).

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