Cu l’abbruçiau a funtanê san Paulu?
(Di Massimo Genchi) – La roboante notizia dei giorni scorsi della messa in funzione della fontana di Porta san Paolo, dopo tanti decenni di torpore, ha destato anche in me un po’ di curiosità facendomi rispolverare notizie, rivedere immagini d’epoca, ripensare aneddoti e, come sempre succede in questi casi, qualche elemento che non ti aspetti inevitabilmente salta fuori.
Innanzitutto ho ripreso il fondamentale «Castelbuono capitale dei Ventimiglia», magistrale trattato di storia urbanistica del nostro paese, opera del caro amico Eugenio Magnano di San Lio, segnatamente la parte che tratta della Porta san Paolo, della fontana e del viale degli oleandri, giacché le tre cose sono interconnesse. Qui, prima di ogni altra cosa, non è inutile rimarcare, che la Porta nel posto dove la conosciamo oggi vi fu spostata agli inizi del Seicento in quanto, fino ad allora, sorgeva alla fine della Rrua suttana, l’attuale Via Collegio Maria e, in corrispondenza dello slargo, si apriva sull’attuale statale, dove si innestava la trazzera per Pollina. Per questa ragione, finché sorse in quel posto, si chiamò Porta di Pollina.
Del pari, non è inutile rimarcare che, immediatamente all’esterno di ogni porta sulla cinta muraria, sorgeva un abbeveratoio. Però la fontana di Porta san Paolo, pur essendo stata usata come abbeveratoio specialmente dopo il declino dei Ventimiglia, nacque come elegante fontana barocca, simile a quelle dei seicenteschi giardini italiani e francesi. La fontana di san Paolo, sbrigativamente la chiamiamo tutti così, venne progettata nel 1633 da mastro Antonino Conforto per ornare il Giardino grande dei Ventimiglia a Piano Marchese. Negli anni Quaranta del Seicento, allorché si andava sistemando la zona esterna alla Porta di san Paolo, davanti ad essa e in asse con essa, venne collocata «la splendida fontana barocca con vasca a pianta polilobata e profilo bombato».
Avevo osservato queste immagini più e più volte, ma come ripeteva sempre il mio amico architetto Peppe Failla, ogni fotografia porta con sé una marea di informazioni. Per trovarle la devi sapere guardare. Infatti, stavolta è come se le avessi guardate con occhio diverso. E puntualmente è venuto fuori qualcosa mai notato in precedenza.
Intanto, l’immagine di copertina svela un particolare di non poco interesse vale a dire che la fontana sorgeva su una sorta di pedana in declivio, in tutto e per tutto identica a quella dâ Chiazzannintra. A occhio e croce, anche questa piattaforma sembra ottagonale, e come quell’altra, fin quando la piazza fu selciata, formata da otto trapezi internamente nchiacatati.
La porta, come si può intuire ancora oggi, benché sia stata distrutta a ppicca a ppicca, aveva un aspetto monumentale con una coppia di colonne poste su piedistalli fiancheggianti l’arco di ingresso, che culminava in un vistoso stemma barocco. All’interno della Porta vi era un andito coperto da una doppia volta sulla quale sorgeva una piattaforma, così come sulle altre porte, per creare un camminamento lungo le mura di cinta per le guardie.
Dovendo la porta di san Paolo diventare l’ingresso principale di Castelbuono, cosa questa attestata dalla presenza nella sua parte sommitale del pomposo stemma, l’intervento migliorativo interessò tutta l’area, anche quella del piano san Paolo, fino all’inizio della trazzera per Pollina, per raggiungere la quale fu costruita la lunga e larga strada alberata con oleandri che, oltre a viale degli oleandri, prese subito il nome di Strata ranni ben prima che l’odonimo passasse a individuare l’attuale via Li Volsi.
Il viale degli oleandri o Strata ranni che dir si voglia correva, come si dice, a tajj’i sbalanzu vale a dire costeggiava la scarpata sui terreni sottostanti, come si può vedere in questa spettacolare immagine degli anni Trenta del Novecento, opera del fotografo Totò Failla.
In essa è possibile osservare, fra le altre innumerevoli cose, la Porta di san Paolo perfettamente in asse con la fontana e con il viale degli oleandri, che corre parallelamente allo stradone.
L’edificazione di tutta la zona della Porta e lo spostamento della vecchia traccia stradale verso destra, cioè verso il Parco delle Rimembranze, ha eliminato i vecchi punti di riferimento, creando l’illusione ottica che la fontana sia stata spostata e addossata ai fabbricati, ma non è affatto vero perché se oggi ci si mette sull’orlo della porta, guardando verso Pollina, si vedrà la fontana ancora in asse con la luce della Porta stessa, esattamente come vi fu posata a metà Seicento. Un altro errore in cui si potrebbe essere indotti a cadere è lo stato deteriorato dei conci in pietra calcarea della fontana. Ad occhio e croce, per confronto con le foto di cento anni fa, il loro stato di salute non appare peggiorato. Non è un elemento di poco conto.
Entrando oggi fra le colonne della Porta di san Paolo si avrebbe una visione come quella ricavata da questa immagine degli anni Cinquanta. Eccezion fatta, si capisce, per la maestosa fronda del frassino che, irrompe sulla scena da destra. Evidentemente, il poveretto non incappò fra le grinfie degli specialisti capitozzatori, altrimenti la sua zazzera avrebbe avuto vita men che breve. Ma allora, si sa, le cose al Comune erano abbastanza terra-terra mica ad alti livelli come oggi.
Sulla superficie laterale della fontana, rivolta verso la porta, vi è una epigrafe dalla quale si deduce che l’opera venne posta in situ mentre erano in carica i giurati Don Simone Schicchi, Mariano Lacerda, Geronimo Maimone e Carlo Maccarrone la qual cosa permette di datare la messa in posa fra 1641 e il 1642. Avere, oggi, riletto il testo di quella epigrafe permette di convincersi che la fontana dovette essere progettata per un altro sito ma, soprattutto, di dare finalmente una spiegazione sensata all’origine del soprannome Maccarruni. Infatti, la presenza di tale Carlo Maccarrone, originario di Regalbuto, sposatosi a Castelbuono nel 1633, permette di inferire che, con ogni probabilità, siamo di fronte a un soprannome di tipo decognominale cioè che si è originato da un cognome, analogamente a quanto è successo con Cela, Napulìeddru, Nigrì, Trummetta ecc. Poiché Maccarrone non ebbe figli maschi che si sposarono il soprannome deve essersi propagato per via femminile ma la verifica di ciò richiede un bel po’ di tempo e sfacinnamìentu. In ogni caso, non ho mai creduto a giustificazioni fantasiose su questo soprannome del tipo: una antenata di questa famiglia facìeva sempri maccarruna o anche il bisnonno aveva una aspetto fisico che assumigliava a un maccarruni. Che poi, come dobbiamo considerare un maccarruni? Alto e magro?, Basso e grosso? Alto e grosso? Boh.
Ancora, frugando fra le carte, ho osservato quest’altra foto, fra tutte, decisamente la più antica dove si possono notare i conci già fortemente danneggiati, le facce arrostite dal sole della donna che ginocchioni sta facendo il bucato e del contadino con la scazzetta, ma anche la punta delle orecchie dell’asino, gli alberi del Parco delle Rimembranze che, pur essendo appena degli alberelli, sono pur sempre una foresta in confronto al deserto che ci hanno regalato oggi. Però siamo fortemente fieri di sapere che «per l’impegno profuso giornalmente nella salvaguardia del nostro territorio sul piano ambientale, riteniamo di poterci annoverare tra le comunità virtuose per la tutela dell’ambiente». Mi-inchia!
Ma la cosa che mi ha fatto sobbalzare e, diversamente da un attimo fa, esclamare capperi!!!, è stata la costruzione che si vede alle spalle del contadino. Abituati come siamo a vedere in quel medesimo posto il muraglione della scuola elementare è come se non vi si facesse caso. E invece quello che stiamo vedendo è un documento eccezionale perché mostra, meglio che nella foto panoramica colorata, uno scorcio, forse la parte basale, della cinta muraria di Castelbuono, esattamente il vertice di Nord-Est. Non penso che esistano fotografie di altri tratti di mura. Il dipinto di Paolo Cicero della Porta di san Paolo restituisce un piccolo tratto di cinta muraria nelle sue adiacenze ma oltre a queste due testimonianze non è rimasto più nulla. O meglio, era riemerso il tratto di cinta muraria nei pressi delle Fontanelle ma, figurati, con la velocità del lampo, in un giornata con condizioni meteorologiche proibitive sappiamo tutti che fine ha fatto. In quei paraggi i lavoretti ben fatti sono stati eseguiti sempre in giorni tempestosi o festosi, anzi festivi! Che gente!
Infine, rimane aperto un grosso interrogativo, il più inquietante: cu fu ca abbruçiau a funtanê san Paulu? Chi vi appiccò il fuoco? Naturalmente, non c’è bisogno di tirarla per le lunghe per convincervi che si tratta di uno scherzo. Un tempo veniva fatto, ponendolo sotto forma di accusa molto grave, solitamente diretta verso un fessacchiotto, al quale gli si diceva, puntandogli il dito in faccia: Tu fusti ca abbruçiasti a funtanê san Paulu!, per mettergli un po’ di spavento e fargli capire che avrebbe passato un guaio. L’accusa, strutturata in tal modo, era costruita ad arte per realizzare un paradosso col fuoco che riesce ad incendiare l’acqua. Esiste, infatti, una variante di questo scherzo dove l’accusa si formula in questi termini: Tu fusti ca dasti luci all’acqua! che, a ben pensare, è ancora più paradossale. Ma anche sotto questa formulazione si riusciva a incutere una certa paura. Sono convinto che anche oggi, che ci riteniamo tutti più svegli, questo scherzo potrebbe ben riuscire! Provate a farlo magari lunedì prossimo, come pesce d’aprile, magari dopo avere satatu i vaddruna, al cospetto di una tavola riccamente addubbata, visto che è anche pasquetta. Con una prospettiva del genere, più che dari luci all’acqua, sarà molto più semplice astutari svariate bottiglie di vino.