Cu nn’eppi-nn’eppi dî cassat’i Pasqua | Innocenti divagazioni attorno ai dolci pasquali

(Di Massimo Genchi) – «La tradizione della Pasqua si caratterizza ancora oggi in Sicilia per la consuetudine di preparare, donare, consumare dei particolari pani (ormai spesso veri e propri dolci) di vario nome, forma e struttura, nei quali viene inserito un uovo o anche più uova, talvolta colorate». Questo è l’incipit del bellissimo saggio di geografia linguistica ed etnografica di Giovanni Ruffino sui Pani di Pasqua in Sicilia del 1995. Il ricco corredo iconografico ci restituisce svariati esemplari, alcuni veramente artistici, quasi sempre comprendenti l’uovo, cosa questa che giustifica la diffusa denominazione di pupu ccu ll’ova o quello alquanto equivoco di acìeddru ccu ll’ova. Diverse sono le varianti lessicali: dalla cuddrura messinese e catanese al cannilìeri che, da Petralia, attraversa longitudinalmente l’Isola fino a Palma di Montechiaro, al cannatuni di area trapanese, fino alle Palummeddre ragusane.

Castelbuono, da sempre paese non allineato, si conferma tale anche in ambito etnografico. I nostri dolci di Pasqua, infatti, sono privi di uovo e, dal momento che qui di solito si predilige fare molte cose in controtendenza rispetto al resto dell’universo, abbiamo stabilito che il pane con l’uovo che, come si sa, qui si chiama cucciddratu, fosse tradizionale non a Pasqua ma a Pasquetta. Così. Per il solo piacere di farlo ad onta. Esattamente come certe inaugurazioni di nessun interesse e valore fatte in concomitanza con la ricorrenza della morte di Cristo a due passi dal tempio dove si celebrava la Passione del Signore. Proprio a voler proclamare urbi et orbi (più orbi che urbi) che c’è chi può e chi non può. Io può!

Oltre ai pani votivi, la tradizione pasquale prevedeva la preparazione, nei giorni immediatamente precedenti la domenica, anche dolci di ricotta, i cassati, a base di pasta frolla, ripieni di ricotta e cotti al forno. In Sicilia, da sempre, alcuni particolari dolci si preparavano nei monasteri. Così, le monache del convento benedettino di Catania preparavano le minne di vergine, quelle del collegio di Maria a Geraci i serafineddri, qui da noi le suore del Collegio di Maria gli squisiti biscotti ad esse a base di olio di oliva e le monache del monastero di Santa Oliva a Palermo le cassate di Pasqua.

Si racconta che, essendo le cassate di Pasqua squisite, quindi richiestissime dai golosi palermitani, le monache arrivavano in ritardo sistematico alle funzioni liturgiche della settimana santa. L’arcivescovo – incazzato non si può dire ma indispettito sì – non volendo rinunciare ai lauti introiti della vendita delle cassate, impose che la consegna ai clienti dei dolci prenotati avesse termine con largo anticipo rispetto all’inizio delle funzioni. Così incaricò un uomo di fiducia perché, all’ora prefissata, mandasse via gli avventori dicendo loro: uscite! Per oggi basta! Cu nn’eppi-nn’eppi dî cassat’i Pasqua. Naturalmente questo modo di dire si è radicato nella parlata comune e ancora oggi ha una discreta vitalità, allorché si voglia dire: ‘la festa è finita, adesso è troppo tardi. Chi ha avuto, ha avuto’. Ormai non c’è più niente da sperare’.

L’usanza di preparare le cassate a Pasqua determinò anche il nome dialettale della festa, appunto Pasqua dî cassati, mentre la Pentecoste era a Pasqua dî çiuri. Nel nostro parlato è abbastanza vivo il modo di dire, fra i pochissimi detti ad essere esclusivo di Castelbuono: Ppi Pasqua dî cassati si vìestinu i criati, ppi Pasqua dî çiuri si vìestinu i signuri vale a dire a festeggiare la Pasqua, più che altro, è il popolo mentre la Pentecoste viene festeggiata dagli aristocratici.

Ma andiamo ai nostri dolci di Pasqua. I cos’i Pasqua, la cui denominazione appare un po’ anonima rispetto a quelle riscontrate nel resto dell’Isola, il cui primo termine, i cosi, connette subito a cosi duci, cosi chïni, cos’i mìennila. Ma “cosi” non significa solo ‘dolci’ perché ci sono anche i cos’i manciari e i cos’i scola. Per non dire cosi tinti inscenate dal tale allorchéapprese qualcosa di inaspettato e di poco gradito. A parte il fatto che chi si comporta in maniera repressiva, vabbè ci siamo capiti, risalta all’occhio pubblico come na cosa fitusa. E in virtù di ciò, si comprende come, anche il caso, tenda a mettere insieme i cosi ccu i cosi. Dunque “i cosi” andrebbero considerati come una totalità, una sorta di res cartesiana, quasi una «res extensa». Ma non fu certo per questo che il giornalista Mario Obole, campione di sottile umorismo, entrando in un noto panificio del paese disse: signorina mi dia un vassoio di res plena, intendendo ovviamente un chilo di cosi chïni. E, altrettanto ovviamente, la commessa trasecolò non avendo capito un bel niente di ciò che lo sfingeo Mario avesse detto.

Ritornando ai cos’i Pasqua, fino agli anni Sessanta, la loro produzione fu esclusivamente casalinga ma la progressiva scomparsa dei domestici forni a legna determinò la fine dei cos’i Pasqua home made con ciò che ne derivò in termini di alterazione del gusto e non solo. Allora, diverse signore producevano i dolci di Pasqua per uso familiare e su commissione. Fra le tante, â stratê Pùrpuri, c’erano a zza Tufània e le dirimpettaie signorine Prisinzano che preparavano esemplari enormi, spessi due dita, che venivano trasportati non in un vassoio ma nnô scanaturi e, si capisce, duravano da Pasqua all’Ascensione, senza putìrisi strùdiri. Dolci di tal fatta venivano ordinati solo per cumpariri col fidanzato della figlia, con la fidanzata del figlio o con i bambini. Per questi ultimi, se màsculi, si facevano agniddruzza e cavaddruzza, detti âcìeddr’i Pasqua benché nella forma fossero tutto fuorché uccelli. Al fidanzato era destinato u cori di mìennila mentre per le ragazze o per le zzite, era di rigore a pupa. A pupê Pasqua, appunto.

Succedesse più di una volta che per una pupa o per un cori risultato poco gradito per la forma o troppo misiriusu per dimensioni ci fossero funci fra le famiglie dei fidanzati o che, addirittura, s’allavancassi u partitu. Ma successe anche il contrario. Qualche sera prima di una Pasqua di quasi cento anni fa, u zzu Ntòniu, fidanzato di fresco, di ritorno dal màrcato trovò in cucina ad attenderlo i fìmmini, la mamma e le tre sorelle, che con tutto l’orgoglio del caso gli mostrarono una bella pupa di mìennila che occupava mezzo tavolo, decorata di tutto punto, con la collana, fatta con palline di zucchero argentato e la borsetta. Questa è la pupa di Maratresa, disse la madre. Ti piaci? Il figlio, più taciturno del solito, disse solo: Mmmh! Alla maniera di Nero Wolfe. Indugiò un attimo poi, con gesto deciso, staccò la testa alla pupa e la mangiò. Le donne, disperate, si pistàvanu non riuscendo a capacitarsi. E ora come facciamo, disse una delle sorelle? Nenti! Ia a Maratresa ulla vùogliu cchiù, rispose u zzu Ntòniu, friscu na Pasqua, lasciando le povere donne nello sconforto.

I castelbuonesi gradiscono i cos’i Pasqua, specialmente se inzuppati, abbagnati, nel latte o nel caffè ma soprattutto nel vino perché spònzanu, si intridono, diventando assai gustosi. Il gusto è però determinato dal particolare impasto che da noi è di tre tipi: quello dei biscotti a esse, di taralli e di mìennila. L’originale pare u cos’i Pasqua di biscotto che, per la sua pasta soda, va steso per dargli la forma di un biscotto, benché di dimensioni maggiori. Più gradevoli al palato, perché l’impasto è più fluido e gentile, risultano quelli di taralli ma i più licchi preferiscono senz’altro quelli a base di mìennili atturrati ricoperti di cioccolato fuso. Va da sé che le mandorle utilizzate sono poco più del 10% di quelle di partenza per via dei reiterati prelievi a cura delle tante mani che si affaccendano lì attorno mentre s’attùrranu i mìennili ma soprattutto prima, quando la carusina ingaggiata per privarle del guscio tende più a mangiare che a schiacciare, rendendo verosimile l’ipotesi che il soprannome Scàccia-e-mmancia possa essersi generato in un contesto del genere.

Mentre i dolci sono in forno si prepara la glassa, che da noi si chiama argintatu, lavorando zucchero a velo, chiare d’uovo in modo da ottenere un fluido omogeneo e privo di grumi. Qualche goccia di limone lo rende anche più brillante. I dolci di biscotto si decorano cospargendo di diavulicchï la glassa spalmata uniformemente sulla superficie con una piuma di gallina. Quelli di mìennila, invece, prima si ricoprono di uno strato di cioccolato fuso quindi si guarniscono, così come quelli di taralli, con ghirigori di glassa e poi diavulicchï, cannittijji e chicchi di caffè per simulare gli occhi.

Fin da piccolo ho sentito raccontare di una visita pasquale fatta da una mamma con i suoi due figli ô Sarvaturi a casa di una certa zza Puppina nel corso della quale la signora, ddovirusa come sempre, ggiustu cci parsi, e fece una passata di cos’i Pasqua agli ospiti. Sui ragazzi non fecero tanta presa quegli agniddruzzi di biscotto ma a zza Puppina li invogliò: pigliativilli, ca bbùoni mi vìnniru auanni. Si convinsero ma, non appena li ebbero fra le mani, si accorsero che un chicco di pepe simulava l’occhio e che lo strato di argintatu era spesso e rigido – come u quacinazzu, diciamo noi. Furono coraggiosi a dare il primo morso ma non altrettanto per il secondo. La loro salvezza fu che a zza Puppina si allontanò un istante: non ci fu neppure bisogno di un cenno d’intesa per capire che una grasta posta all’angolo della saletta era la loro salvezza. Con la velocità del baleno sbriciolarono quegli agniddruzzi dietro la grasta e ritornarono a sedere. Quando a zza Puppina fece ritorno e vide le loro mani vuote disse: – Diciti a virità, comi vi pàrsiru? – Magnifichi, zza Puppì!, risposero. Temettero fortemente che la signora forte del gradimento riscosso dicesse: pigliativilli n’atri dui. Non accadde, per fortuna. La mamma, per evitare che si scoprissero spiacevoli altarini, trovando il giusto pretesto, fu bravissima a tagliare la corda: tardi si fici zza Puppì, ni nni iamu. Nei sessant’anni seguenti i due monelli, raccontando più e più volte quella storia, cercarono ogni volta di immaginare la faccia dâ zza Puppina allorché, l’indomani pulì la saletta e trovò tutto quel maggistèriu dietro la grasta

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