I Niputi dâ zza Cicca e la maschera “nazional”-popolare. Appunti per una storia della maschera

(Di Massimo Genchi) – Quando nel 1977, dopo soli cinque anni, si chiuse l’epoca dei Figli di Nessuno, ad animare le serate di carnevale alle Fontanelle rimasero diversi gruppi, fra cui i Scarafuna, il Gruppo Poeta e il Gruppo 2001.
C’era anche un altro gruppo – I Giullari – costituito da un numero imprecisabile di elementi, che negli anni precedenti non si era proprio distinto per qualità di maschere rappresentate né per indice di gradimento. Accadde però che in quell’anno Antonio Di Garbo, che era un po’ l’art director di quel gruppo, decise di imprimere una svolta, operando una decisa sbicchiata a seguito della quale della vecchia compagnia rimasero solo lui e Enzo Meli. Tirarono fuori, non si sa bene da dove, Peppinello Barbarotto e si presentarono sul palco con questa agile e snella formazione. Per chiudere col passato, cambiarono anche il nome e da quel momento furono I Niputi da zza Cicca, traendo spunto dalla famosa canzone dei Cavernicoli. In molti pensammo a un semplice rimescolamento di carte senza grossi cambiamenti nella sostanza ma ben presto fummo smentiti seccamente.
La zza Cicca dei primordi aveva uno schema scenico non consueto: utilizzavano costumi bizzarri, molto vistosi o mutandoni e cuffie e camicie da notte. Si disponevano con le due chitarre ai lati e Enzo Meli al centro, non per esaltare il suo egocentrismo, ma per fungere da cerniera fra i due chitarristi. I motivi musicali erano semplici, popolari, cadenzati, facili da suonare con un paio di accordi e orecchiabili, quindi facilmente memorizzabili anche dal pubblico. Una delle prerogative della zza Cicca è stata la grande cura della mimica, l’interpretazione del copione, la cadenza nel cantare e nel recitare, il sapere porgere le battute. Enzo Meli dice sempre che le battute si devono pàsciri, cioè bisogna sapere imboccare il pubblico. Peculiarità della zza Cicca era l’assoluta padronanza del copione derivante da sessioni di prove interminabili. Allora si malignava sul fatto che loro già all’indomani di carnevale fossero all’opera con la stesura del nuovo copione e in estate cominciavano le prove, mentre tutti gli altri gruppi cominciavano a scrivere dopo l’Epifania. A parte le iperboli, provare tanto, anche un copione bello ma non eccezionale, produceva canzoni ben eseguite e pezzi recitati con buona mimica ed espressività, che facevano molta presa sul pubblico. In più, avere Enzo Meli al centro del palco che molto spesso, con quella sua risatina a manciacazzo, come oggi d’altra parte, ti sparava la battuta finale o Peppinello che in qualsiasi momento se ne poteva uscire con una trovata comicissima, tanto a lui il copione si può dire che non servisse, o Antonio che conoscendo a menadito l’intero copione lo interpretava a dovere, già dava la certezza del buon esito della rappresentazione. A più forte ragione quando, qualche anno più tardi, si liberò dell’onere della chitarra al collo passandola a Peppinello Sferruzza con risultati armonico-sonori di gran lunga più apprezzabili, soprattutto per il pubblico.
Le prime maschere dei Giullari avevano, in linea con lo schema classico, una ambientazione: quando in un consiglio comunale o in un museo, dove i visitatori potevano ammirare alcune pregevoli “facce di quadro antico”, quando attingendo alla saga dei Beati Paoli. Nel nuovo corso, sotto il marchio Niputi da zza Cicca, in uno schema di Cabarè, ma sarebbe più giusto dire in una disposizione tipo Cabarè, venivano inseriti pochi pezzi politici mentre il grosso riguardava fatti e personaggi della piazza. Quella piazza che allora era il cuore pulsante di una comunità viva e vivace, colma di botteghe e bottegucce di ogni sorta e capannelli di gente a ogni angolo. E che oggi, nel graduale spopolamento in atto, è diventata un deserto fisico e sociale, anche se il potere non vuole sentirlo dire, dato che difesa della propria vulgata, ha addestrato quattro seguaci che vorrebbero nascondere il sole col dito.
La piazza, dunque. A chiazzannintra, nella fattispecie, per tanti decenni fu incontrastato regno, oltre che di Ciccio Mazzola, di don Ninì, nostalgico fascista, ma persona certamente buona e di spirito, burbero e cordiale, appassionato di sport e juventino fino al midollo, al punto da somatizzare le sconfitte della zebra. Don Ninì di quel microcosmo fu fra i personaggi più gettonati per la smancia di carnevale e a zza Cicca ne confezionò una che mi piace ricordare anche senza l’ausilio del sonoro
L’aviti vistu passari un jaddrazzu
L’aviti vistu passari di ccà
E ssu jaddrazzu si chiama don Ninu
u cchiù abbramatu tifosu juventinu
Ma si ppi casu nuatri u ngagliamu…
si l’affirramu un baciuzzu cci damu!!!
Oh! Don Ninì, Oh! Don Ninì
asso portante dell’M.S.I.
Caru don Ninu, un s’avi arrabbiari
certu, u capisci, faciemu babbiari.
Comu finiemu, si ssi fa ngagliari
u bicchirinu nnu iamu a pigliari.
Si pua vossìa eni ancora arrabbiati
nuatri cci offriemu cincu limunati
Oh! Don Ninì, Oh! Don Ninì
Siddri nni ngaglia, su argi accussì.
Poi, sul finire degli anni ’70, le sale cinematografiche nel disperato tentativo di colmare i deficit derivanti dalla ostinata proiezione di film impegnati ca un ci iava nuddru (ecco da dove nascono le profonde analisi economiche del sindaco sulla inopportunità di un cine-teatro) abbracciarono – si fa per dire – il filone porno che in paese era detto, non si sa bene perché ma si può capire, a carpenteria. Nelle sere stabilite, perché u ggiàngalu mica era ogni sera, al cinema era bizzarro vedere arrivare personaggi anche assai in vista del paese imbacuccati di tutto punto per non farsi riconoscere e all’intervallo, a luci accese, spalancare un quotidiano davanti al viso. Cos’i rrìdiri, insomma. Ma era pur sempre un fenomeno di costume e come tale raccontato sul palco di carnevale, fantasticando – perché no – su cosa sarebbe successo ritornando a casa col cervello semi evaporato. A zza Cicca lo immaginò e lo cantò così, sulle note di Cuando calienta el sol:
Quannu tracoddra u suli
a urmarìa
O cine Astra trasmìettinu:
carpenteria!
Tutta la genti abbramata
mprima fila è situata:
ccu l’ucchiazzi sbarracati!
E pua a casa c’è…. eheheh…. eheheh ….
a battagli’e Macallè…. eheheh…. eheheh ….


A cavallo fra il 1980 e il 1981 due fatti in particolare, fra i tanti accaduti, furono passati allo scanner dei gruppi mascherati. Il primo fu l’arrivo al Banco di Sicilia, nel ruolo di cassiere contabile, di Liborio Noce che fece versare fiumi di inchiostro e saturare copioni e copioni, quell’anno e anche nei tanti altri a venire, fin oltre il raggiungimento della tanto meritata quiescenza. Ma, si capisce, quello non era stato un accadimento di tutti i giorni. Così come non lo fu la nevicata dei primi giorni di gennaio 1981 che non si vedeva da tempo e non si sarebbe più vista. Il paese sepolto, per i nostri standard è ovvio, due giorni senza energia elettrica, produzione di pane interrotta, attività paralizzate, strade bloccate, gatto delle nevi in azione, famiglie isolate nelle abitazioni di campagna, al crepuscolo un silenzio tombale. Ce lo ricordiamo ancora. Non so quanti ricordano, ma molti sicuramente sì, come i Niputi dâ zza Cicca, che quella sera vestite da sorelle Matamè ostentarono le migliori cosce maschili di sempre, da satiri provetti qual erano, resero sul palco quei due fatti non proprio ordinari. Qui sotto potete ascoltare l’audio ottimizzato della registrazione dal vivo di quei due sketch tratti dalla maschera Le sorelle Matamè, rappresentata martedì 3 marzo 1981, naturalmente alle Fontanelle. Una opportunità per chi c’era di riportare alla mente attimi goduti, per chi non c’era di sapere e capire. Alla prossima.
non ho mai visto rievocare il passato con una tale insistenza e continuità come negli ultimi anni. E’ un fenomeno nazionale, la televisione ci propone continue rievocazioni, ubriacature di passate glorie culturali, industriali, artistiche e anche sportive. A Castelbuono questa fenomeno ha un’incidenza anche maggiore, basta vedere quante pagine sono dedicate a celebrare presunte passate glorie, e quante a presentare prossimi o futuri avanzamenti. Se si guarda un giornale degli anni ’60 e ’70 forse anche prima metà ’80 non è così. Sarebbe da studio sociologico, ma è forse vedere un paese che inesorabilmente si svuota che porta ad aggrapparsi a queste forme di difesa, come lo studente che non capisce l’Algebra e dice che è il professore che non sa spiegare. Tacciono fragorosamente quelli che fecero pezzi “unni un ci iavi nuddri” come il Processo a Galileo, I mistero di Adamo, gli adattamenti di Pirandello…
Caro amico
“giornalista giornalaio”
che, non firmandoti con il tuo nome e cognome, non so chi sei.
In merito a quanto hai scritto, posso provare a darti una mia risposta, rivolgendoti l’invito a riflettere un po’ su quello che di seguito ti scrivo.
Noi che, abbiamo vissuto la nostra giovinezza, a cavallo degli anni settanta e ottanta dello scorso secolo, a mio modesto parere, abbiamo forse vissuto la stagione più bella dell’intera esistenza umana.
Infatti abbiamo potuto godere di tutto quello che hanno costruito i nostri genitori e nonni all’indomani della tragedia di due guerre mondiali nonché di secoli di miseria, fame e arretratezza culturale.
Diciamo fino agli albori degli anni novanta del XX° secolo, quando poi, sia sul piano nazionale che su quello strettamente paesano, grazie anche all’intervento della Magistratura, sono successi una serie di avvenimenti che ci hanno portato allo stato attuale.
Eccoti a mio parere, spiegato il perché spesso ci giriamo a guardare il passato.
Un po’ come quando ognuno di noi, ormai avanti negli anni, guarda con nostalgia le foto che lo ritraevano al tempo della propria giovinezza.
Per quanto riguarda il prezzo scritto dal professore Massimo Genchi, che anche a nome degli altri componenti del mio gruppo ringrazio, oltre a tutto quanto ho descritto io, immagino che voglia invitare tanti miei, suoi ed immagino anche tuoi compaesani, a svegliarsi da quel torpore al quale si sono lasciati andare, al punto che per il piacere di pochi (ma forse di uno soltanto, che per il momento,molti assecondano incondizionatamente) ci stanno togliendo IL TEATRO non inteso come struttura (in quanto quel manufatto andava razionalizzato sia internamente che esternamente) ma come istituzione.
Spero di essermi fatto capire e di aiutarti a non cavalcare l’onda momentaneamente prevalentemente, soltanto perché
” Camora tutti dicini d’accussi’ “
caro Antonio,
leggendo la tua educata risposta a una mia riflessione, che peraltro non era contro nessuno, vedo una frattura generazionale. Eppure la vostra generazione ha visto gli anni di piombo in tv in bianco e nero, i delitti di mafia in Sicilia ma evidentemente vedevate un futuro migliore. La mia è stata da ragazzi abituata a una narrazione di incertezza e precariato, liceali a cavallo di due millenni e poi in giro per il mondo con erasmus. é stato bello ma ci ha anche fatto capire quanto eravamo messi male come paese. forse non aver avuto confronti sarebbe stato meglio, forse. forse non ci hanno educato ad accontentarci. Sullo scritto nulla da dire. sul teatro mi dispiace tanto. ma se il voto poteva sovvertire un destino, non lo ha fatto. La struttura era chiusa da che mi ricordi io. Poi non è che nell’altro teatro ci sia la rassegna di pezzi ogni domenica. Non so perchè onestamente. io non volevo cavalcare alcun onda. volevo riflettere su come oggi si tenda a vivere di passato perchè evidentemente un futuro non lo vediamo. trovare shakespeare o Bakett piacerebbe anche a me, tornando,
Caro “giornalista giornalaio”
Premetto che non vorrei che tutto ciò si trasformasse in un dialogo tra noi due, in quanto non farebbe altro che tediare i lettori di questa pagina.
Aggiungo che tu sai chi sono io mentre io non conosco chi puoi essere tu.
Dallo pseudonimo che hai usato, mi auguro che non sarai la persona che io immagino.
Nella mia precedente risposta non mi pare di avere lasciato intendere che la tua riflessione fosse contro qualcuno, cosa che peraltro non è stata la mia risposta precedente né tantomeno vuole esserlo questa.
Ho tentato semplicemente cercato di spiegarti, secondo il mio punto di vista, perché oggi si rivanga spesso il tempo passato.
Da quello che hai scritto deduco che tra me e te ci sia una differenza generazionale di almeno trent’anni, di conseguenza, con tutta la buona volontà che potrò metterci, non credo che di essere in grado di farti capire quello che è stato il tempo della mia adolescenza e poi gioventù.
Si abbiamo vissuto gli anni di piombo così come i delitti di mafia, attraverso la tivvù in bianco e nero e appunto speravamo in un futuro migliore. Senza dimenticare però che, quel presente era già molto migliore del passato e ci eravamo illusi che il futuro sarebbe potuto essere ancora migliore.
Poi sono arrivati gli anni ’90 e la tivvù già a colori, ci teneva informati su quello che interessava farci sapere, tacendo però su tutto il resto.
Voi liceali a cavallo di due millenni, giravate il mondo con erasmus, mentre noi rimanevamo stanziali.
Ti dico soltanto che la mia prima gita scolastica è stata in quinta elementare, al cimitero.
Si hai capito bene.
Con la gita di terza media abbiamo visitato Enna e Piazza Armerina e poi l’ultimo anno di scuola superiore, abbiamo fatto quello che era il classico giro per quegli anni in quasi tutte le scuole della nostra zona. Vale a dire, parte dell’Emilia Romagna, delle Marche e Venezia.
Sapevamo di realtà ben diverse rispetto alla nostra, anche perché in quegli anni, in estate tornavano in paese moltissimi nostri compaesani emigrati al Nord dell’Italia e all’estero che ci riferivano delle realtà in cui vivevano, di conseguenza sapevamo come eravamo messi.
Tutto ciò non era altro che uno sprone a migliorarci, sia noi che la realtà in cui vivevamo.
Ci abbiamo tentato. Ci siamo riusciti?
Io ho svolto il mio corso di studi superiori a Cefalù, quindi a diretto contatto con ragazzi di realtà diverse che, seppure a distanza di pochi chilometri, posso dirti che allora ogni paese aveva una propria peculiarità, anche se minimamente, diversa l’una dall’altra.
Allora quando mi veniva chiesto di quale paese ero, io con orgoglio rispondevo che ero di CASTELBUONO.
Per quanto riguarda il teatro a Castelbuono, devo purtroppo dirti che sei informato male.
Ricordo infatti che sin da piccolo, con mio papà andavo spesso a teatro in quanto venivano diverse compagnie da fuori, a cominciare Franco Zappalà a finire alla compagnia “il granserraglio”
Fino alla fine degli anni sessanta, non c’erano compagnie locali, tuttavia durante il periodo di carnevale, il veglione non si teneva soltanto per due sere come adesso o tre a partire dalla seconda metà degli anni settanta e sino a quando non è stato chiuso il teatro comunale. Ma per diverse sere, non so dirti con precisione quante, ma posso assicurarti che si avvicinavano a dieci serate.
Tu eventualmente avrai vissuto solamente il periodo in cui è scaduta la concessione data alla gestione “ARPA” e di conseguenza, siccome la struttura necessitava di notevoli opere di sicurezza, è stata abbandonata sino al degrado attuale.
“ L’altro teatro“ per noi “il cinema Alessandro“ non è mai stato un teatro, è stato semplicemente un cinema dove ai piedi dello schermo cinematografico è stata realizzata una modesta struttura che, quando da quando è stato chiuso il teatro le fontanelle, per necessità è stata adibita a palcoscenico.
Senza camerini, ma con bagni all’occorrenza adibiti a tale uso, al punto che ti dico per esperienza personale, una sera mentre stavo per cambiarmi per andare in scena, mi si è presentato uno spettatore con “l’armamentario” pronto per andare in bagno.
Nonostante tutto, qualche compagnia da fuori mi pare abbia calcato quelle tavole.
Se non ricordo male, fra le altre, la compagnia “Armonia“ di Cefalù che ha messo in scena una commedia dialettale dal titolo “Non ti pago”
In ultimo, non ho scritto che stavi cavalcando l’onda, semmai ti invitavo a non lasciarti tentare dal farlo, in quanto a mio modesto parere è importante il pensiero del singolo e non il movimento della massa.
A sua volta guidata da un singolo.
Chiedo scusa per la lunghezza, ma mi sono limitato all’essenziale.
Scusi mister, chi è Bakett?
sfuggita una c battendo … chiedo venia ai “pillucusi”
https://it.wikipedia.org/wiki/Samuel_Beckett
Credo che da studio sociologico sia chi ritiene non degno di nota il passato che costituisce le radici di un popolo, che diventa storia maestra di vita. Ma non per chi fa tabula rasa del passato, forse perché non ha nulla di onorevole nel suo.
Incapaci di immaginare un futuro, ricordare un passato ordinario è quello che ci resta.
Io comunque leggo con piacere i cunti del professore