I terremoti, i Turrisi, il colera e quattro sindaci
Nel solco fecondo tracciato dalla precedente amministrazione, che della toponomastica ha fatto un cavallo di battaglia (e qualche volta anche un cavallo di Troia), il nuovo sindaco, per non essere da meno, appena insediato, ha voluto anch’egli provare l’ebbrezza dell’intitolazione di una strada. L’insignita di turno è stata la poetessa Giuseppina Turrisi Colonna (foto 1).
Nelle convulse ore che precedettero la cerimonia successe, però, che colui che ascoltava non capì colui che parlava e colui che parlava non capì quel che stava dicendo così il tam-tam, anzi il Tummy-Tummy, di istruzioni innescò una serie di malintesi a catena tra il sindaco, l’assessore alla s-kultura, il consigliori per gli affari s-kulturali, gli uffici e gli addetti alla messa in posa della lapide. Il risultato netto fu che alla povera Giuseppina, poetessa femminista ante litteram e di ideali rivoluzionari, mancò poco che le venisse intitolato un accidentato viottolo di campagna nei pressi dello stadio comunale.
C’è da dire, però, che i meriti dei Turrisi erano già noti nell’Ottocento e l’attento toponomastico dell’epoca li aveva tenuti nel dovuto conto se all’intera famiglia Turrisi aveva intitolato la lunga (e stretta) via parallela al corso, su cui insiste il palazzo che fu la loro residenza castelbuonese.
A meno che l’ideologo di questa recente intitolazione non abbia pensato (chissà) che la via Turrisi fosse un omaggio ante tempus a Mario Turrisi, benemerito artigiano della pasta fresca, o al sommelier Matteo Turrisi, questa intitolazione alla poetessa Giuseppina appare vagamente impropria, prima ancora che pleonastica.
Così come impropria è la denominazione “Palazzo Turrisi-Colonna” impressa sulla lapide, scoperta sul prospetto principale lo stesso giorno (foto 2), in quanto tale palazzo, agli inizi dell’Ottocento era già di proprietà dei fratelli Mauro e Vincenzo Turrisi, due affermate personalità nel campo dell’imprenditoria siciliana, di cui si è già detto a proposito della Cartiera di Gonato. Quindi “Palazzo Turrisi”, per la precisione.
Turrisi-Colonna, infatti, sono i figli di Mauro, nati dal matrimonio con Rosalia Colonna Romano, vale a dire la pittrice Anna (foto 3), la poetessa Giuseppina e Nicolò, barone di Bonvicino.
Tutti e tre abitarono saltuariamente nel palazzo di Castelbuono e se è falso che Giuseppina vi nacque è, invece, vero che Anna vi morì, giovanissima, della malattia della punta, cioè di polmonite. Ma ciò accadde non nel palazzo della piazza ma nella loro fattoria di sant’Anastasia.
Il primogenito Nicolò (foto 4), dopo essere stato protagonista delle lotte antiborboniche, nel 1865 fu nominato senatore del Regno d’Italia quindi, per due volte, fu sindaco di Palermo e altrettante volte presidente della provincia.
Imprenditore dinamico e innovativo, nelle sue fattorie di Bonvicino, nei pressi di Isnello, e di sant’Anastasia, al fine di razionalizzare l’agricoltura e la pastorizia, introdusse i più moderni strumenti sperimentati in ogni parte d’Europa. Il barone Turrisi, autore di numerose monografie di amministrazione agraria, era anche proprietario dell’ex convento dei domenicani al Rosario (foto 5) e di tutto il terreno retrostante, fin quasi a Piano Marchese, nel quale il padre Mauro, per dire dell’ampiezza dell’orizzonte culturale dei Turrisi, già negli anni ’30 dell’Ottocento vi aveva impiantato un orto botanico, che era anche un luogo di pubblico passeggio, affidato alle cure del naturalista belga Maurimon. E’ stato scritto da Eugenio Magnano di san Lio che Castelbuono è una città di giardini e di ciò, prima o poi, si dovrà parlare.
Nell’ornatissimo Palazzo Turrisi di Castelbuono (foto 6), ospite dei proprietari che gli furono larghi di ogni favore, fece stazione il famoso fisico Domenico Scinà (foto 7) mentre imperversava lo sciame sismico del 1818-1819 che interessò tutte le Madonie, essendo stato incaricato dal governo di effettuare uno studio geologico sul campo e di stimare gli ingenti danni.
Come è noto, a seguito di quella serie di terremoti, crollò la cupola e, successivamente, anche i due campanili della Matrice Nuova (foto 8-9). Nel suo Rapporto, Scinà scrive: “In Castelbuono patirono le case, che nella linea son situate, la quale dal Castello si stende fino ai Cappuccini. I campanili della cattedrale di Castelbuono, goffi come sono, e pesanti, sebben puntellati, minacciano ancora rovina”.

Foto 8-9: Estratti da due mappe settecentesche in cui sono ben visibili i campanili e la cupola della Matrice Nuova
La via Turrisi corre lungo la direzione che Orazio Cancila fa coincidere con l’asse viario dell’antica Sichro e sbocca in uno slargo, popolarmente detto u furn’i Marcellu(foto 10), perchè ricorda un antico forno che sorgeva proprio in quei pressi (foto 11) e dovette essere veramente grande se nella parlata comune, almeno un tempo, per dire di un ampio ambiente chiuso si usava la similitudine è granni quant’u furn’i Marcellu. E, dal momento che mangiare in maniera smodata si dice ordinariamente nfurnari, di uno che mangia a quattro palmenti si suole constatare: e cchi è furn’i Marcellu!
Nei pressi del forno di Marcello, più precisamente nella stradina che corre parallelamente sotto il piano della matrice, denominata Vicolo Guarnieri (foto 12), fu commesso un gravissimo fatto di inaudita efferatezza.
Nel 1848, anno di sollevamenti e di tumulti,la Sicilia era flagellata da una epidemia di colera che tante vittime aveva mietuto pure a Castelbuono.
Credenza diffusa era che il colera fosse un potentissimo veleno che i Borboni, tramite persone di fiducia, provvedevano a spargere, si ittava, perché le sue esalazioni sterminassero il popolo in rivolta. Per sfuggire all’alito del terribile veleno tutti stavano tappati in casa e il paese doveva versare in uno stato di squallore. Anche ai giorni nostri quando le strade sono deserte, la piazza è desolata e i negozi sono vuoti si dice e cchi cc’è u qualera?
A fronte di quell’ecatombe il sindaco dell’epoca, il notaio Luigi Calascibetta (foto 13), pensò bene di fare arrivare in paese un certo quantitativo di alcol denaturato da usare come disinfettante. Alla vista di quelle damigiane, che un mulattiere stava scaricando al municipio, il popolani fecero due più due (che, come è noto, non sempre fa quattro) e dedussero che al municipio era arrivato il colera, che si trovava dentro le damigiane, che lo aveva ordinato il sindaco il quale, evidentemente, era al servizio dei Borboni. Si aprì una terribile caccia all’uomo. Il sindaco riuscì a nascondersi nei pressi di casa sua (fig. 14), ma una donna del posto, una vicineddra, svelò il suo nascondiglio agli inferociti inseguitori i quali lo stanarono con bastoni e forconi. In questo caso, più che mai, fu valido il detto cu avi un mali vicinu avi un mali matinu.

Foto 14: La casa del sindaco Calascibetta al piano della Matrice nel retro della quale il sindaco venne stanato e torturato
Barbaramente lapidato, il sindaco fu legato per i piedi a un mulo lanciato al galoppo e trascinato per le strade del paese. Secondo quanto riportato da Giuseppe Mazzola Barreca, Luigi Calascibetta, già morto, fu esposto, alla stregua di un trofeo, sotto il portico della matrice vecchia. Nella ricostruzione di Giuseppe De Luca, invece, il corpo sarebbe stato lasciato davanti al municipio, ma cambia poco. Era il 22 febbraio 1848 ed era stata appena scritta la pagina più vergognosa della storia di Castelbuono.
E’ strano che questi tragici fatti siano stati taciuti dallo storico di Castelbuono Antonio Mogavero Fina nel suo fondamentale Castelbuono nel travaglio dei secoli e anche i toponomastici ottocenteschi, che pure furono spettatori di tanta truculenza, non ritennero doveroso ricordare opportunamente la vittima di cotanta barbarie.
La commissione toponomastica istituita nel 1996 dal sindaco Ciolino, su mia proposta, aveva previsto di intitolare a Luigi Calascibetta il vicolo Guarnieri (foto 15), strada dove ebbe inizio il martirio del povero sindaco. Dal documento prodotto da quella commissione, il precedente capo dell’amministrazione comunale prelevò i nomi di Matteo Cangelosi, Antonio Mogavero Fina, Giovanni Lupo, Francesco Cipolla, Sandro Pertini, intitolando loro le strade individuate da quella commissione e spacciando l’idea dell’intitolazione come propria. Luigi Calascibetta, più che certamente perché la sua discendenza si è estinta, non è stato ritenuto degno di riguardo.
Mi permetto di approfittare di questa mia rubrica per invitare il sindaco Tumminello a volere rimediare a sì grave manchevolezza affinché, sia pure 165 anni dopo, il Comune di Castelbuono possa sdebitarsi moralmente con questo suo nobile e sfortunato figlio. Invito, altresì, il sindaco ad attivarsi affinché il quadro raffigurante Luigi Calascibetta, di proprietà dell’ingegnere Sandro Morici, possa essere acquisito dal Comune ed esposto nell’aula consiliare, assieme agli altri quadri raffiguranti illustri amministratori. Sperando che questo mio auspicio non venga interpretato da qualche ex amministratore come un invito a presentarsi da Tumminello con il proprio ritratto sotto il braccio.
Caro Massimo,
sapevo che anche in questo lunedì di Vigilia, puntuale come sempre, non avresti mancato l’appuntamento con una delle tue “storie”. Stavolta le tue gradevolissime divagazioni storico-toponomastiche riportano alla nostra memoria la nota e tristissima vicenda del notaio /medico Sindaco Calascibetta ,che proprio recentemente ho avuto modo di ricordare con il nostro caro Sandro Morici, visto che si tratta di un antenato comune a lui e a Mario Mitra, mio marito: la figlia Giuseppina, infatti,come sai, sposò Antonio Minà La Grua, l’illustre studioso di cui spesso abbiamo parlato.Naturalmente anche io conoscevo l’orrore di quella morte sia per averne sentito parlare in famiglia sia per averne letto il racconto proprio nel testo di Antonio Mogavero Fina da te citato; mi sorprende che ti sia sfuggito. Nella mia edizione- che presumo sia l’unica- del 1950, la cronaca dei fatti del 1848 viene riportata alla pagina 171, e anche se non così ricca di dettagli, è fedele alla versione che anche tu riferisci; l’episodio viene definito “raccapricciante e barbaro”, si parla di “ignoranza e avventatezza” della massa di esagitati che “con selvatico furore lo legarono alla coda di un cavallo, e, trascinatolo per le vie del paese ,lo fecero perire miseramente dilaniato”. Mi è sembrato giusto fare questa precisazione per amore di verità.Con la stima di sempre, Rosanna
P.S. Sul ” notaio/ medico” ti dirò in seguito.
Ringrazio di cuore la professoressa Cancila per la precisazione e chiedo scusa ai lettori per l’avventata affermazione. Purtroppo sono stato indotto in errore dal fatto che Antonio Mogavero Fina riporta questo drammatico episodio come accaduto nel 1854 e non nel 1848, come realmente è stato. La fretta di consegnare il pezzo per essere pubblicato all’ora ormai canonica del primo pomeriggio di ogni lunedì mi ha portato a limitare la consultazione fino al 1850. Tutto questo, però, non vuole costituire prova per la mia assoluzione.
Eccezionale racconto, come sempre. Mi unisco all’appello del professore Genchi. L’orrore perpetrato dai castelbuonesi di allora non ha spiegazione e non puó essere dimenticato. I castelbuonesi di oggi dovrebbero ricordare la memoria di un loro concittadino additato quale capro espiatorio della loro ignoranza.
Non me ne vorrà il professore Genchi se mi intrufolo nelle sua “storia”, ma penso che, conoscendo bene il mio interesse per la storia locale,mi permetterà di aggiungere al racconto un particolare.
Un’altra interessante testimonianza viene ad arricchire il quadro di quella rivolta del ’48, evidenziando ulteriormente le terribili conseguenze causate (in ogni tempo) dai pregiudizi, dai giudizi sommari e dalle sentenze pronunciate da una “piazza” inferocita, da un popolo accecato dall’odio”
…la plebe, dopo aver trucidato barbaramente don Luigi Calascibetta, si diresse verso la casa di don Croce Piraino, che era il “giudice di pace” il quale, per non cadere vivo nelle mani di quei forsennati, preferì uccidersi con un colpo di pistola.”
Ho appreso la notizia da una fonte che si può ritenere attendibilissima: il giudice Michelangelo Ugo Collotti, nipote del barone Francesco Guerrieri Failla,nato nel 1888 e morto nel 1974, anch’egli appassionato cultore della storia e delle tradizioni di Castelbuono e autore di numerosi “pezzi” pubblicati su Le Madonie .
Il riferimento si trova nell’ “Indice dei nomi, persone e cose” a cura del Collotti, in appendice al diario “Quindici giorni a S. Ippolito” ( scritto da Enrico Collotti Galbo, padre del giudice)e pubblicato nel libro ” A volo d’uccello” , di Rosalba Anzalone e Maricetta Morici, stampato nel luglio del 2011 dalla Tipografia Le Madonie.
Non te ne vuole, e tu lo sai. Le aggiunte e le correzioni sono il sale per l’avanzamento delle conoscenze, in ogni campo dello scibile.
Spero tanto che con quel malizioso “in ogni tempo”, fra parentesi, tu non voglia, in maniera spericolata, esibirti alle parallele asimmetriche. Perché una cosa è la massa di bifolchi che, accecata dall’ignoranza, giustizia una persona e induce un’altra al suicidio; altra cosa sono, per esempio, i fatti pur sempre tragici che iniziarono a Dongo (anzi vent’anni prima) e si conclusero a Piazzale Loreto.
Non conosco bene Emmeucci, posso prendere per buono ciò che scrive, ma per me fonte attendibilissima significa che ricostruisce con documenti alla mano. E su Castelbuono, documenti alla mano, hanno scritto Orazio Cancila, Rosario Moscheo ed Eugenio Magnano di san Lio. E nessun altro.
Pregiatissimo Professore, rimango lusingato per le sue conoscenze storiche letterarie castelbonesi e oltre…
Le scrivo sull’ideologia di intitolare il palazzo ai Turrisi Colonna. Da uno studio strutturale fatto nel palazzo si evince che le fondamenta e gli archi portanti del piano terra sono di manifattura di fine settecentesca. Nel 1809 il Barone Mauro Turrisi sposò in seconde nozze Donna Rosalia Colonna Romano e Branciforti, figlia di Don Giovanni Antonio Colonna Romano dei Duchi di Cesarò e di Donna Eleonora Branciforte dei Principi di Butera. In quel periodo il palazzo si limitava ad avere un piano terra utilizzato come magazzino, un primo piano utilizzato come abitazione ed un secondo piano a basso soffitto non visibile da via Umberto utilizzato per: cucina, lavanderia e alloggio servitù. Successivamente il palazzo venne ampliato con la costruzione di un altro piano ultimato nel 1837 dedicandolo esclusivamente alle due figlie Annetta e Giuseppina. Tengo a precisare che nel soffitto dell’entrata vi è il blasone della famiglia, l’unico a cui si è a conoscenza, presente in Sicilia!
Concludo con la mia modesta umiltà che il palazzo venisse dedicato alla famiglia Turrisi Colonna, così come la storia ci insegna…
-Antonio Salerno
Mi permetto di significare, avendone titolo e piena contezza, che la “fonte attendibile” cui accennava l’eccellente prof.ssa Cancila è mia madre, la prof.ssa Maria Concetta Morici. Tale fonte, affonda la sua ratio di attendibilità nella consanguinea circostanza che mia madre è discendente diretta, per parte di madre ( id est: mia nonna, la baronessa Giuseppina Buscemi Collotti) del barone, avv. Enrico Collotti e del Barone Francesco Guerrieri. La mia famiglia, per anni, ha custodito il diario del barone Collotti. Qualche anno fa si è deciso di trascriverlo. Ed è stata mia madre la discendente cui si è affidata mia zia per il completamento dell’opera. Il risultato è stato il libro ” A volo d’ uccello”. In esso è stato trascritto il diario del mio tris nonno, avv. Enrico Collotti. Uno scritto ricco di elementi storici intimamente connessi con la nostra Castelbuono. Donde, la citata fonte, è certamente ad oggi la più attendibile, poiché proveniente dalla mano di uno dei protagonisti indiscussi della storia locale. Mi stupisco della circostanza che la Sua persona faccia finta, in tale sede, di non aver contezza di tale ricostruzione. RammentandoLe che nel periodo di stesura del libro si Ella si recava nella mia villa alle Mandrazze per uno scambio di materiale fotografico sul mio discendente. Mi ha anche inviato delle foto via mail che poi sono risultate inutili, poiché Le mie zie possedevano le originali. Ciò detto, la verità storica, non sempre è la Sua. Basata anche su racconti non aventi precisa fonte. Ma è anche quella degli interessati e delle famiglie di tali personalità che, certamente, posseggono molte più informazioni di chi si fregia del titolo di storico, ma certe volte pecca. Cordialità
Vedo con piacere che le mie storie vengono ancora lette a distanza di anni. Con grande disappunto constato, invece, che talvolta chi commenta mostra di non conoscere né il registro linguistico adeguato alle circostanze né il protocollo dell’interloquire civile. Capisco che lei è abituata ad utilizzare ordinariamente questi toni furenti ma le consiglio di usare nelle sue relazioni dei toni più pacati soprattutto quando una risposta non è commisurata all’evento che l’ha determinata. Perché, sa, la vita è breve e, in definitiva, ciò che conta – più del ricordo che portiamo – è il ricordo che lasciamo.
Mi permetto di farle notare che «la fonte attendibile cui accennava l’eccellente prof.ssa Cancila», contrariamente a ciò che lei ha voluto arbitrariamente intendere, è Michelangelo Ugo Collotti. Scrive testualmente la prof. Cancila proprio qui sopra: “ho appreso la notizia da una fonte che si può ritenere attendibilissima: il giudice Michelangelo Ugo Collotti”. Quindi “si può” – se si vuole – non “si deve”, necessariamente. Tutto ciò che si legge fino al quart’ultimo rigo ritengo sia fortemente inessenziale.
Ciò detto, con la mia storiella della vigilia di Natale del 2012, ma anche con le altre – io non ho voluto affermare verità storiche. Perché, diversamente da quanto si asserisce nell’ultimo rigo del suo intervento, io non mi fregio di nessun titolo se non di quello di professore, da non confondere con quello di maestro. Così, per la precisione. Storico non lo sono neppure lontanamente, come ebbi occasione di puntualizzare – a scanso di equivoci – su questa pagina: https://www.castelbuonolive.com/la-palma-della-strata-longa-pretesto-per-alcuni-appunti-a-puntate-di-storia-semiseria/
Ma capisco che quel titolo – Castelbuono storiE – con quella E finale messa ad hoc inganna, sicuramente sfugge a chi legge di corsa e senza interesse.
Ora, non essendo uno storico, non mi corre l’obbligo di farmi soccorrere dalle fonti. Racconto e basta. Racconto ciò che mi pare ed eleggo miei informatori le persone che più mi vanno a genio, senza dovere dare conto e ragione a nessuno delle mie scelte. Ritengo che questo sia di mia competenza. O no?
Infine, le anticipo che esorbita dalle mie intenzioni intavolare contraddittori con lei, per cui non ci sarà una mia ulteriore replica. Anche perché, non so lei, ma io ho un infinità di cose da fare e non ho altro tempo da perdere. E queste non sono storiE.
Si stia bene.
Faccio presente al prof. Massimo Genchi che la delibera del Consiglio Comunale N.53 del 21/7/2010 prevede l’intitolazione di vicolo Guarnieri al Sindaco Luigi Calascibetta. Speriamo, avendo previsto buona parte delle somme in bilancio, di dare esecuzione, entro questa consiliatura, a quanto deciso dal Consiglio.
Sebbene con un pò di ritardo, desidererei fare una riflessione sul racconto del prof. Massimo Genchi, peraltro apprezzabile perchè ricorda una (triste) pagina della storia di Castelbuono. Penso di averne facoltà, visto che sono l’unico erede ancora vivente del sindaco don Luigi Calascibetta: mio nonno materno (anche lui di nome Luigi e figlio del notaio Giovanni Calascibetta) era nipote diretto del nostro don Luigi Calascibetta. Egli ereditò la casa di famiglia di Castelbuono posta al piano Matrice (cfr. la foto 14 del racconto), che poi vendette all’inizio del ‘900 perchè si era trasferito definitivamente a Palermo.
Il quadro-ritratto (riportato nella foto 13 del racconto) è tuttora custodito in casa mia: ogni volta che le mie figlie (ed ora i miei nipoti) combinavano qualche marachella, erano “punite” nel guardare il volto bieco, direi truce, del nostro avo….forse a quei tempi l’autorevolezza del sindaco si misurava con l’intensità del suo sguardo sinistro!
E qui vorrei entrare nel merito della proposta di intitolare un angolo del paese a quel sindaco, pur vittima della ferocia popolare. Certo, personalmente mi farebbe piacere, ma credo occorra tener presente che i fatti si svolsero nel 1848, in un’atmosfera rivoluzionaria di masse di popolo contro lo strapotere dei Borboni e dei loro affiliati. E’ presumibilmente vero che quel sindaco sia stato ucciso per colpa di credenze false mentre invece cercava una soluzione per fermare l’epidemia di colera, ma per un giudizio sereno occorrerebbe analizzare il suo intero operato di amministratore pubblico con visione globale, integrale, scientificamente valida. Lascerei quindi la parola agli storici.