Il basket delle origini alla Madonna del Palmento

Ad Antonio, Giovanni, Leonardo e Santi.
A quelli del Campo della Scuola Media
con i quali condivisi la spensieratezza
di quegli anni felici e lontani

(Di Massimo Genchi) – Per una di quelle strane coincidenze, una lezione di educazione fisica di seconda liceo e un articolo sportivo bastarono a infondere in una manica di sedicenni l’ebbrezza della pallacanestro. Occorsero poche parole tra compagni di classe e dell’altra classe, alcuni inviti estesi a fratelli e amici e una dozzina di giovinastri furono presto radunati. Per giocare ci voleva un campo coi canestri e il campo, giusto giusto, era stato costruito da poco (ma guarda un po’ che culo!). Soltanto un paio di anni prima, il nostro prof. Vazzana, che tutti chiamavano Carduni e che fu insegnante di educazione fisica di diverse generazioni di ragazzi, durante una lezione ci partecipò, con quell’euforia manifestata esorbitando gli occhi, che alla Madonna del Palmento erano iniziati i lavori per la costruzione della palestra. Naturalmente scoperta, puntualizzò subito Vazzana, perché quella coperta la vedranno, forse, i vostri figli. In quel periodo, nel cortile della Badia, era stato proprio Vazzana a farci conoscere i rudimenti della pallacanestro insegnandoci il passaggio a due mani dal petto e il cambio di direzione. Abituati al pallone di calcio, quello di basket sembrava pesasse una tonnellata e ricevere un passaggio, a tutta prima, era una grande sofferenza. Ma anche il cambio di direzione non si riusciva a mandare giù: di corsa, giunti davanti all’avversario, dovevi fare perno su un piede e fulmineamente scattare con l’altra gamba per lasciare sul posto chi ti contrastava. Era un movimento difficile da effettuare e il professore ce lo faceva provare e riprovare tante volte. Lui, con la sua stazza, soleva piantarsi davanti a noi a gambe larghe, piegate sulle ginocchia Una volta ci fu uno che eseguì un cambio di direzione alla perfezione, puntò sul piede sinistro fino in fondo, si protese in avanti col corpo e poi scattò in altra direzione ma nel fare questo, col testone, andò a intercettare il varvarozzo di Vazzana che barcollò all’indietro e contemporaneamente i suoi famosi occhiali spessi quattro centimetri volarono in aria, assieme ad alcuni santi declinati in ordine sparso. Naturalmente non facemmo mai più cambi di direzione. Chiusa parentesi.

Non ci voleva solo il campo ma anche il pallone e pensammo di accommarari con il celebre Super Santos, rigorosamente acquistato nnô Puddrinitu, un pallone fatto per essere preso a calci ma noi, per via del colore arancione, pensammo andasse benissimo anche per il basket. Avevamo il pallone, c’era il campo, potevamo giocare. Sì, se non fosse stato che esso ricadeva all’interno della Scuola Media. E allora? Andiamo a chiedere al preside, no? Il prof. Emanuele Cannizzaro, era stato nostro preside fino a due anni prima e anche se non avevamo mai avuto modo di interloquire, lui certo ci conosceva. Anche allora ci conoscevamo tutti in paese, senza bisogno di arrivare a oggi, e senza che ciò rappresentasse, a differenza di oggi, una velata minaccia. Parlare col preside, però, ci metteva in una comprensibile soggezione. Solo Giovanni Sottile, futuro coach della squadra, due anni prima non aveva avuto alcuna soggezione, trovandosi al cospetto del preside Cannizzaro che gli comminava tre giorni di sospensione per un rapporto redatto da padre Ricotta. Non appena il preside lo rassicurò che quel provvedimento non avrebbe avuto alcuna ripercussione sulla condotta, Giovanni – che un po’ ricordava Carlo Delle Piane anche nella comicità – rispose: “signor preside, allora ne dia altri due”. Naturalmente finì in una risata.

Insomma, andammo, parlammo, pensammo che saremmo stati licenziati in un niente. Il preside in effetti fu abbastanza sbrigativo dicendo in sostanza, “Va bene”! Quindi precisò che tutte le volte che ci sarebbero servite le chiavi di accesso alla palestra – significa chiavi del cancello di ingresso alla scuola e chiavi del cancello di ingresso alla palestra – le avremmo ritirate chez Piraino, allora il decano dei bidelli, e la sera stessa le avremmo riconsegnate. Ringraziammo, andammo, scendemmo gli scalini a quattro a quattro, nnê rrobbi un c’èramu! Miiinchia!, avevamo ottenuto le chiavi del campo! Senza bisogno di istruire pratiche, presentare richieste scritte e scartoffie burocratiche varie, senza essere legalmente costituiti in società né affiliati alla Federazione e avevamo appena sedici anni. Quando oggi si sente parlare di società costrette ad interrompere l’attività federale per la mancata disponibilità della palestra scolastica, di impossibilità legate a intricate situazioni, di artificiose norme burocratiche e di muntati ppi davanti messe ad arte, uno come me non può non pensare al preside Cannizzaro e riguardarlo alla stregua di un rivoluzionario o di un extraterrestre. E volgendo lo sguardo verso chi al giorno d’oggi dirige una Istituzione scolastica statale ma anche un Comune, per la totale insensibilità espressa nei confronti di chi svolge attività sportive di qualsiasi tipo e livello, non può che constatare: Ma dunni sìemu nfilati?

Quindi cominciammo a giocare. Ma chi aveva mai giocato? A poco a poco imparammo la tecnica del tiro, il terzo tempo e il tagliafuori, vedendoli eseguire durante le partite in televisione e riprovando più e più volte l’indomani. Si andava tutti i pomeriggi al Campo a giocare, finché non faceva buio e anche dopo, approfittando della luce dei lampioni dello stradone. Eravamo insaziabili. Intanto altri ragazzi si univano alla squadra e il 6 febbraio 1975 alla Madonna del Palmento si disputò la prima partita, contro le seconde linee della squadra cadetti del Cefalù. Loro giocavano da diverso tempo, avevano l’allenatore, avevano le scarpe da basket, avevano le canottiere. Noi non avevamo l’allenatore ma solo Giovanni Sottile che con molta buona volontà si improvvisava coach (ma la gente non capiva quella parola e lo chiamava u cùocciu), avevamo le maglie da calcio con le maniche lunghe, le scarpe da ginnastica comprate nni Mazzuleddra e nnâ Genchi, non avevamo neanche un pallone regolamentare, tanto che giocammo col loro, insomma facevamo un po’ ridere. Perdemmo, si capisce, ma non era andata malissimo. Molto peggio andò un paio di mesi dopo allorché sfidammo i titolari di quella stessa squadra. Finì 77-22 ma fummo salvati da un provvidenziale acquazzone che fece interrompere la partita a metà del secondo tempo.

Da quel punto potevamo solo risalire e così fu. Quasi subito avemmo la fortuna di incontrare due persone che ebbero il merito di cambiare il corso delle cose. Il primo fu Luigi Portinaio allenatore della squadra femminile del Palermo di serie B, col quale alla Madonna del Palmento facemmo delle sessioni di allenamenti che misero in risalto fin da subito i talenti, non dico mio, ma certamente quelli di Santi Bonomo, di Antonio Fiasconaro, di Nicola Di Blasi. In effetti, Santi, negli anni Ottanta, sarebbe stato protagonista in diversi campionati di serie D e di serie C. Il secondo incontro fu con Vincenzo Morici, il dottore oriundo di Castelbuono che giocava in serie B con l’US Palermo (nella foto in basso lo vedete al centro, accanto all’allenatore), col quale, per diverse estati, ci allenammo quotidianamente e duramente al Campo della Madonna del Palmento apprendendo parecchi fondamentali e soluzioni di gioco che tecnicamente ci permisero di crescere tanto.

Vincenzo Morici organizzò tantissime partite alla Madonna del Palmento con squadre di livello che annoveravano dei veri e propri talenti, molto spesso giovanissimi, della stessa nostra età, ma che diversamente da noi, si allenavano da anni, tutti i giorni, sotto la guida di validi allenatori. In questa foto scattata verso la Rua Fera con una Madonna del Palmento ancora scoperta di case, compaiono, ancora ragazzini, Massimo Orecchio (10), Enzo Russo (4), Willy Mirone (14) che di lì a poco sarebbero diventati delle celebrità della pallacanestro regionale e non solo, così come l’allenatore Piero Musumeci.

Oramai il treno era partito, ci costituimmo – non alla polizia, come qualcuno di voi amorevolmente auspicherebbe – ma in associazione, partecipammo al primo campionato federale di Prima Divisione, avevamo financo lo sponsor, la Pizzeria U Trappitu. Le maglie da calcio ormai erano solo un ricordo. Ora avevamo le borse, le tute, le canottiere e i pantaloncini di raso: una figata! E anche le scarpe cominciavano ad essere vagamente da basket.

In quel campionato d’esordio, prima di ogni partita, il coach Giovanni Sottile ci sottoponeva ad uno strano rituale a metà fra lo stregonesco e il propiziatorio, facendoci bere una misteriosa pozione che lui chiamava u bisolfitu, alla quale attribuiva miracolose virtù dagli effetti infallibili ai fini della nostra buona prestazione. A dire il vero, nessuno di noi capì mai bene cosa avesse di taumaturgico quel beverone prescindendo dal quale, il campionato andò benino nel senso che con le squadre più scarse vincevamo e quelle più forti erano ancora troppo forti per poterle battere.

Il Campo della Madonna del Palmento, in quegli anni, fu a tutti gli effetti la nostra seconda casa in quanto stavamo lì tutto il giorno e nella bella stagione ci fermavamo fino a sera inoltrata non necessariamente a giocare, anche a parlare, a scherzare e talvolta a sbocconcellare qualcosa. Ricordo che verso la fine della scuola capitava spesso che Leonardo Sottile avesse qualche interrogazione di fine anno da sostenere e allora portava con sé i libri e si sistemava all’ombra di un albero a studiare. Naturalmente non si capì mai come riuscisse a concentrarsi con quel frastuono e soprattutto quanto realmente furono fruttuose quelle sessioni di studio.

Eravamo allora prigionieri di alcune fisime, prima fra tutte quella dell’altezza. Ci misuravamo ogni giorno per vedere se ci si allungava di qualche centimetro; non so se qualcuno di noi ebbe l’idea (magari lo fece e non lo disse) di dormire ccu i pìeri ammùoddru. Un traguardo prefissato, specialmente presso i meno alti, era di riuscire a toccare il ferro del canestro. Naturalmente di schiacciare non se ne parlava neppure. Giovanni Sottile, sempre estremamente fantasioso, già allora aveva ben chiara l’importanza della comunicazione e della forza impattante delle immagini. Perché destasse una qualche sensazione, non si capì mai bene nei confronti di chi, suggerì di fare delle foto mentre schiacciavamo la palla nel canestro avendo cura, però, che venisse ripresa solo la parte superiore dell’azione. Il resto non si doveva assolutamente vedere perché alla base di tutto quel magistero c’era un tavolo sistemato sotto il canestro su cui ci eravamo arrampicati per arrivare a portata di canestro. Naturalmente tutti coloro che videro quelle fotografie a colpo capirono il trucco.

Fu proprio in quel periodo che la calma, che di norma avvolgeva l’atmosfera del Campo – fatta eccezione per le infuocate partite contro il Cefalù – fu turbata da un evento dagli effetti incalcolabili: l’inizio dell’attività della squadra femminile. Se oggi un evento del genere non fa alcuna impressione, cinquant’anni non era per niente naturale, anzi destava parecchia curiosità vedere una schiera di ragazzine saltellare in pantaloncini corti. Noi assidui frequentatori del Campo, sempre lì come la morte, al primo allenamento dî fimmini ci accomodammo comodamente a bordo campo a guardarci le viste. E devo dire che fin da subito rimanemmo magnetizzati nel vedere che i movimenti delle ragazze, e un paio di esse erano davvero più che notevoli, evidenziavano delle peculiarità che quando giocavamo noi non saltavano all’occhio. E l’occhio, che com’è noto vuole la sua parte, godeva beato, il lazzarone. Pensammo stupefatti: Però!, convinti che avremmo continuato a godere indisturbati di tutto quel paradisiaco sciaguattìo. E invece… al successivo allenamento delle ragazze al Campo c’erano almeno quattrocento masculazzi di varia età e stato civile: liberi, schietti, zziti, maritati. Non tutto ma di tutto, gente che finiva anzitempo di lavorare per venire a vedere l’allenamento. Perché? Ma perché appena le ragazze cominciavano a correre palleggiando, a saltare a canestro, con ciò che ne conseguiva immediatamente, quei depravati avevano le pupille degli occhi che non sapevano bene dove posarsi perché giravano all’impazzata, come le palline del flipper.

L’anno seguente partecipammo di nuovo al campionato di Prima Divisione e stavolta le cose andarono diversamente perché ce la giocammo con tutti e – incredibile ma vero – riuscimmo a battere la prima squadra di Cefalù, quasi tutta composta da ragazzi che giocavano in Promozione.

Accadde una domenica mattina di aprile 1977 con la formazione della foto (io come vedete non giocai, e in ciò potrebbe risiedere il motivo più profondo della vittoria) al termine di una partita che era stata punto a punto ma che a tre minuti dalla fine ci vedeva sotto di dieci punti. Però, come spesso accade nel basket, in quel finale travolgente noi non sbagliammo niente e loro, invece, tutto. Alla fine vincemmo di due punti e i cefalutani erano increduli e furiosi per la bruciante sconfitta subìta contro una squadretta che, a differenza loro, giocava da poco più di un anno. Ciò fu la cagione principale dell’inasprimento dei rapporti con tutti i giocatori e i dirigenti di Cefalù che si protrasse per tantissimi anni.

A quel punto ci sentimmo pronti per partecipare al campionato di Promozione e lo facemmo con le nostre poche risorse finanziarie e con le sole nostre forze tecniche, oltre che con la nostra grande passione, volontà e irresponsabilità di sempre. Eravamo tutti di Castelbuono, più o meno gli stessi che avevamo cominciato due anni prima, soltanto un po’ più cresciuti e smaliziati. Ma le altre squadre erano assai collaudate, con tanta gente matura che aveva militato nelle serie superiori. Così, pur giocando bene tantissime partite, spesso le perdemmo nel finale. Invece col Cefalù in casa, animati da grande determinazione e concentrazione, vincemmo largamente (quella volta, però, io giocai e realizzai anche una ventina di punti). Di quel primo avvincente campionato di Promozione ricordo in particolare l’ultima partita della regular season in casa. Giocavamo contro la Libertas Termini in cui militava Antonio Sperandeo, un tiratore straordinario. Perdemmo 98-96 (un mû pùozzu scurdari) ma quel giorno successe una cosa che probabilmente né si era mai verificata né si sarebbe mai più verificata. A partire dalla metà del secondo tempo noi segnammo ad ogni azione offensiva e ad ogni nostro canestro Antonio Sperandeo, roba da non crederci, rispose segnando dalle posizioni più disparate e scomode. Non provò, ma quel giorno certamente avrebbe segnato tirando anche dâ chiazza nnintra.

Alla fine del campionato ci salvammo vincendo i play-out dopo essere usciti vivi e vittoriosi dall’inferno del campo di Castellammare che, non per niente, si trovava in via del Cimitero e dopo la più rocambolesca delle partite giocate alla Madonna del Palmento dove noi, in cinque, avemmo bisogno addirittura di tre tempi supplementari per imporci sul Ginnic Club ridotto in tre, tutti gli altri essendo usciti per falli. Una cosa non proprio di tutti i giorni.

Quell’anno il campionato finì tardissimo, a metà giugno, ma avemmo il tempo, per Sant’Anna come al solito, di organizzare un altro torneo estivo e, addirittura, di vincerlo. In semifinale liquidammo il Cefalù che, oramai non ci faceva più paura, avendolo battuto tre volte in un anno.

Poi, in finale, incontrammo la solita rappresentativa di giocatori palermitani militanti in varie categorie, guidata dal sempre più temibile Massimo Orecchio, che stavolta però affrontammo a viso aperto e piegammo, sia pure di misura: 73-71.

Nel corso di quell’estate 1978 stavano ultimando i lavori del palazzetto Totò Spallino, dove di lì a poco ci saremmo trasferiti. Sul nostro vecchio, sbrecciato, mal ridotto ma sempre caro Campo della Scuola Media scorrevano i titoli di coda; detto senza alcuna retorica, si stava chiudendo un’epoca. Sia perché molti di noi superavano i vent’anni o i diciotto sia perché stavamo traslocando, lasciando in quel posto tanti cari ricordi, sia perché ci salutavano alcuni compagni con cui animammo e vivemmo di giorno e di notte d’estate e d’inverno, con la pioggia e sotto il sole, l’epopea degli albori della pallacanestro in paese. Al loro posto arrivarono, prelevati dalla squadra di piccoli, i vari Carmelo Conoscenti, Franco Purpuri, Mario Gugliuzza, anch’essi nati nel Campo della Madonna del Palmento e poi affermatisi al Totò Spallino. Ma questa è davvero un’altra lunga e avvincente storia.

Dicemmo più e più volte che saremmo dovuti ritornare alla Madonna del Palmento giusto per un’altra partita. Lo dicemmo così tante volte che non lo facemmo mai. E ora è certo che non lo potremo fare mai più.

Da qualche anno, per certi avvicendamenti ciclici che la vita riserva, mi sono ritrovato a passare da quel posto quasi ogni giorno. Mi sono fermato a guardare il Campo dallo stesso punto di vista di quegli spettatori di allora che parcheggiavano a bordo strada per guardare la partita rimanendo comodamente seduti in macchina. Ho visto così il nostro Campo di mattina, popolato di tanti alunni della Scuola, di pomeriggio con i soliti ragazzini che vi si intrufolavano attraverso qualche buco nella recinzione per andare a correre dietro a una palla. L’ho visto di notte, al buio o con la luna, andando con la mente a una sera di quarant’anni prima quando con Antonio, con Giovanni, con Leonardo, con Santi e con gli altri, quando, approfittando del chiarore lunare, andammo a tracciare col ducotone le linee rette e circolari del campo e poi colorammo di verde l’interno delle aree dei tre secondi e il cerchio del salto a due.

Nel corso di questo 2022 l’ho visto, il nostro Campo, sparire giorno dopo giorno, assistendo impassibile all’entrata trionfale delle ruspe, alla demolizione dei canestri, alla devastazione dello stato dei luoghi, allo sventramento, allo sprofondamento delle vecchie quote fino al piano dello stradone al fine di potervi inserire un inutile conglomerato di scatoloni in cemento privi di ogni funzionalità, privi di una palestra coperta. Di quella palestra che il prof. Vazzana nel 1971 pronosticò per i nostri figli e che quasi certamente non vedranno neanche i loro nipoti. Ma siamo in Sicilia, dato non trascurabile, e il copione della farsa che mortifica questa sciagurata terra – che non diventerà mai bellissima, semmai poverissima – si ripete sistematicamente con l’ennesima enorme quantità di denaro pubblico bruciato, funzionale soltanto a mantenere a galla la committenza, una classe di politici di nessuno spessore, e funzionale, di riflesso, alla visibilità politica dell’amministrazione locale che, nella logica usuale e inconsistente dell’abbané ppi cchissu,ha accettato passivamente il finanziamento di un’altra opera inutile e orribile, definita da molte parti, ormai, come “una cagata pazzesca”.

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