Italianway intervista Nicola Fiasconaro

Italianway intervista Nicola Fiasconaro

 

È dal 1953 che a Castelbuono, cittadina medievale in provincia di Palermo, si sfornano dolci della tradizione artigianale siciliana. I profumi che escono dal Bar Fiasconaro e che ogni giorno invadono la centrale piazza Margherita sono ormai conosciuti e amati in tutto il mondo. Creme, torroni, marmellate, passiti, cannoli, cassatine… e panettoni. Tutto fatto in Sicilia, con i prodotti di questa terra antichissima.

Abbiamo incontrato Nicola Fiasconaro, pluripremiato pasticcere e ambasciatore in tutto il mondo delle eccellenze dolciarie dell’isola. Con lui abbiamo parlato del passato, del presente e del futuro del suo lavoro.

Sessant’anni fa nasceva l’azienda Fiasconaro, per iniziativa di suo padre, Mario. Ci può parlare un po’ di lui?

Incominciarono mio padre e mio nonno. Misero su il primo piccolo bar in una stradina del paese. Dopo qualche anno si spostarono nella piazzetta principale, piazza Margherita, nella quale ancora oggi ci sono i nostri negozi e il nostro piccolo laboratorio. Papà sfornava bignè, profiteroles e pasta di mandorle. E le granite, fatte coi mandarini, i mandaranci, i limoni, i gelsi, le ciliegie di Sicilia e prodotte con il ghiaccio delle Madonie raccolto con i cavalli. Mio padre fu anche un pioniere della “banchettistica”, del catering. Lo chiamavano da tutti i paesi dei dintorni di Castelbuono – da Cefalù a Piano Battaglia – per matrimoni, cresime e comunioni. Portava le torte a cinque piani, i rosoli e i liquori ai gelsi e agli agrumi, i dolci alle mandorle… Poi, quando ci fu un po’ più di benessere, cucinava la “pasta’ncasciata”, o la pasta con le sarde…

E lei e i suoi fratelli?

Beh, noi a scuola non volevamo andarci, eravamo piuttosto pigri. I miei due fratelli, Fausto e Martino, stavano al bar a fare i caffè e io giocavo col cioccolato, le marmellate e la pasta sfoglia.

In quegli anni si innamora dell’arte dolciaria…

Sì. Osservare mio padre che lavorava con la farina e con il lievito, vederlo fare quelle cose meravigliose, mi fece perdere la testa per il suo mestiere, il più bello del mondo.

Ma l’idea che questo lavoro potesse diventare anche il suo, quando si rivelò?

Beh, molto presto… Probabilmente quando andai a Messina a trovare il fratello di mio padre, don Fedele, parroco di San Giuliano. Di fronte alla parrocchia c’era, e c’è ancora oggi, l’antica pasticceria Doddis. Là iniziai a “fare bottega”, naturalmente non retribuita. Abituato al piccolo laboratorio di famiglia, mi ritrovai improvvisamente in un ambiente molto più grande, organizzato in reparti: c’era quello dei cannoli, quello della pignolata, quello della frutta di Martorana. Ci lavoravano quaranta pasticceri… Ecco, posso dire che là ebbi l’“illuminazione” e contestualmente iniziai a prendere dimestichezza con il “sistema dolciario”.

E come continuò nella sua carriera?

Seguitai a peregrinare fra i pasticceri colleghi di mio padre: a Messina, a Palermo, e un po’ in tutta la Sicilia. E pure fuori dalla mia isola, perché volevo sapere che cosa succedeva a Napoli, a Roma, e anche nel nord Italia, a Torino, Milano…

A proposito di nord, la sua azienda produce anche panettoni…

Sì, ma strettamente “born in Sicily”. Fu per caso che mi appassionai al panettone. Ero a Chioggia Sottomarina, in provincia di Venezia, per seguire un corso all’Istituto superiore di Arti culinarie “Boscolo-Etoile”. In un’aula accanto alla mia c’era il maestro Teresio Busnelli che stava rivelando la magia della fermentazione naturale di una pallina di pasta madre… Tornai a casa e dissi a mio padre che dovevamo produrlo noi, il panettone, con materie prime siciliane – arance, mandorle, pistacchi, uvetta aromatizzata al Marsala… Era la fine degli anni Ottanta. Da allora Castelbuono esporta ovunque il panettone “made in Sicily”.

Non solo panettone, naturalmente…

La Sicilia ha un patrimonio culturale che scaturisce dalla storia millenaria di una terra visitata, nel bene o nel male, da tantissimi popoli e cresciuta in un crogiuolo di culture. Qui sono passati greci, romani, bizantini, arabi, normanni, francesi, spagnoli… Tutti hanno lasciato tracce: nella lingua, nell’architettura. E nella cucina. Della quale vorrei che la tipicità sia preservata…

Che intende dire?

Che è necessario “fare sistema” nella nostra isola. Bisogna far conoscere il nostro patrimonio culinario in tutto il mondo, metterlo in rete. Ma per farlo bisogna adottare criteri rigorosi. Da poco è nato il “Distretto del dolce tipico siciliano”, di cui sono coordinatore. Questo può essere un primo passo per arrivare alla protezione e alla regolamentazione delle nostre tipicità gastronomiche, delle nostre tradizioni alimentari. Mi spiego meglio: le ricette della vera cassata, della vera frutta di Martorana, del vero cannolo, della vera pasta di mandorle devono rispettare determinati criteri e procedimenti, in primo luogo quello dell’utilizzazione di prodotti locali. Non si può confondere la slealtà con la fantasia. Non si possono usare le mandorle californiane per fabbricare dolci dozzinali che poi vengono spacciati per prelibatezze siciliane. Quello che accade per il pandoro e per il panettone settentrionali, deve accadere per i dolci della mia isola: bisogna determinare requisiti precisi. Noi collaboriamo con istituzioni universitarie – ad esempio con il Dipartimento di Scienze delle produzioni agrarie e alimentari dell’Università di Catania – per standardizzare certe produzioni, per renderle sicure, degne del nome che portano.

Quali sono le cose più urgenti da fare a suo avviso?

Beh, oltre a quello che ho appena detto, mancano molte altre cose. In Sicilia, ad esempio, non ci sono accademie scientifiche di arti culinarie. Sono anni che vorrei istituirne una. Tra le colline di Castelbuono c’è un albergo in disuso, ma a norma, che potrebbe essere utilizzato per questo scopo. Del resto la nostra azienda è già “in rete” con importanti accademie americane e con gourmet del calibro di Heinz Beck, Davide Oldani, Filippo La Mantia. Poi mancano le aziende di trasformazione. Per i semilavorati dipendiamo ancora dal Nord Italia. Dobbiamo riuscire a istituire una filiera sicula. Ancora: non abbiamo una fiera. A Messina fino a una quindicina di anni fa c’era quella del gelato e del dolce, c’era la Fiera del Mediterraneo di Palermo. Ora non c’è più nulla… Siamo sempre costretti a emigrare: al “Cibus” di Parma, al “Sigep” di Rimini, e anche all’estero.

Come vede il futuro in questo senso?

Guardi, sono comunque ottimista. Spero che le istituzioni ci aiutino e confido nella lungimiranza di alcuni uomini politici che hanno veramente l’intenzione di cambiare questa terra: il Gattopardo non deve abitare più qui. Poi il futuro è soprattutto dei giovani. Noi stiamo investendo su di loro. A Castelbuono c’è una squadra di ragazzi che vogliamo formare come manager capaci. Chiamiamo consulenti esterni perché insegnino loro a gestire un’azienda che cresce. E anche io continuo a imparare. Non bisogna mai smettere di imparare.

Lei ha conosciuto molte persone famose. A marzo ha donato una colomba pasquale siciliana a papa Francesco e qualche settimana fa, a Milano, ha regalato a Bruce Springsteen una chitarra in cioccolato di Modica Igp identica, per forma e dimensione, alla celebre Fender Telecaster del cantautore americano…

Springsteen non se l’aspettava. Quando l’ha vista, il Maestro ha esclamato: “Oh my God!”. Qualche ora dopo saltava e cantava come un trentenne di fronte a migliaia di persone… Papa Francesco è un uomo straordinario, l’incontro con lui mi ha colpito molto. Del resto, con la Santa Sede – ma anche con la curia siciliana – abbiamo una bella consuetudine. Lo consideriamo un grande privilegio.

Ultimamente ha conosciuto anche lo sceicco del Qatar…

Ha visitato il nostro storico laboratorio di Castelbuono e ci ha subito chiesto di farne uno anche nel suo Paese. Mi ha anche nominato ambasciatore italiano dell’alimentazione in Qatar. Molto presto farò la mia prima “visita ufficiale”…

(www.italianways.com)

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