La Costituente denuncia: alle Fontanelle cancellate con l’escavatore preziose testimonianze archeologiche del teatro seicentesco

Da quando in estate i lavori alle Fontanelle sono stati fermati per una rivalutazione archeologica, a seguito del ritrovamento di reperti di valore descritti dall’archeologo Giovanni Spallino, la Costituente ha fatto accesso agli atti per avere chiaro quanto stava succedendo. Oggi apprendiamo che i saggi sono quasi completati e l’archeologo Spallino ha inviato una nuova relazione che cambia un po’ le cose.

La storia del Cineteatro le Fontanelle, risalente agli anni ’50, e del teatro costruito dai Ventimiglia nei luoghi in cui sorgeva la medioevale chiesa di San Filippo è una storia triste per il nostro paese, fatta di parole buttate al vento, di impegni disattesi, di raggiri colossali, di scelte politiche incomprensibili o, forse, fin troppo evidenti.

Chiariamo una volta per tutte, affinché si metta fine ad un travisamento forse speculativo sulle origini del teatro di Castelbuono, che non si può parlare di edificio ottocentesco, bensì seicentesco. La nostra affermazione si basa su dati scientifici pubblicati dal prof. Eugenio Magnano di San Lio in “Castelbuono capitale dei Ventimiglia” (1996) in cui si fa risalire l’esistenza del teatro al 1659, e su dati ancora più circostanziati pubblicati dal professore emerito di Storia moderna dell’Università di Palermo nonché storico di Castelbuono, Orazio Cancila, in “Pulcherrima civitas Castriboni” (2020), in cui vengono riportati atti ufficiali che testimoniano l’esistenza del teatro fin dal 1684. Altro che teatrino ottocentesco come lo ha sempre chiamato il progettista, che in tutta questa vicenda ha più volte dismesso i panni di tecnico e ricoperto un ruolo politico di supporto a scelte, a nostro avviso, scellerate.

Come quella di demolire frettolosamente il Cineteatro Le Fontanelle, cosa che ha causato un enorme spreco di denaro pubblico per distruggere un edificio staticamente idoneo che non andava demolito. Una scelta incomprensibile soprattutto alla luce della perizia dell’ing. Antonello Sferruzza, richiesta e pagata per volontà del sindaco Cicero, nella quale si afferma che l’edificio non presentava problemi di carattere statico. L’edificio avrebbe potuto essere oggetto di un intervento di riduzione dei volumi per abbassamento del tetto, eliminando così “l’ecomostro” tanto caro alla retorica del sindaco, con costi molto più contenuti e maggiori risorse per le strutture a servizio di un vero teatro. Che avrebbe potuto comunque essere utilizzato come centro polifunzionale mentre, lo abbiamo ripetuto tante volte, non è vero il contrario. È molto grave inoltre che l’intervento di demolizione sia stato operato con mezzi pesanti in un’area da almeno sette secoli interessata dalla presenza di manufatti prima religiosi e poi civili, importanti per la storia di questo centro e per la ricostruzione di essa.

Ma al nostro sindaco piacciono le demolizioni con gli escavatori, almeno tanto quanto tagliare e capitozzare alberi. Chi ci guadagna? Forse l’ambiente? Perché questa furia devastatrice che ha causato la demolizione di muri dell’ottocento, del seicento e chissà forse anche opere risalenti alla antica chiesa di San Filippo preesistente all’antico teatro, o all’antica cinta muraria del baglio esterno del Castello, o comunque di epoca medioevale, normanna o, non sapremo forse mai, araba o bizantina.

Abbiamo appreso che la struttura a due archi presente nella parte settentrionale del muro ad ovest, nella zona dei camerini del vecchio teatro, fondata direttamente sul substrato geologico e quindi la prima ad essere costruita su quel sito, è stata rimossa con mezzo meccanico. Il tutto sotto il controllo della Soprintendenza che in passato aveva ritenuto di elevato valore i reperti descritti nei saggi del 2013, tanto da chiedere una variante di progetto compatibile con la loro conservazione.

Oggi invece leggiamo che i rinvenimenti descritti come tracce del perimetro seicentesco del teatro, brandelli forse riferibili all’antica cinta muraria del baglio fortificato del nostro castello, non sono elementi storici di particolare interesse, in quanto riferibili all’età moderna. L’età moderna inizia con la scoperta dell’America. Quindi reperti del ’400 sono privi di particolare interesse? E cosa è di interesse?

Rimane da capire come mai alcuni rinvenimenti non sono stati oggetto di saggi: rarissimi frammenti di invetriata islamica o normanna, ceramica a superficie schiarita, spiral ware, ritrovati nell’area meridionale dell’edificio, o i muri ritrovati in prossimità dell’angolo S-E dell’edificio, in corrispondenza della porta di accesso da via Sant’Anna, dove sono stati ritrovati un muro seicentesco e, sotto a questo, una struttura più antica di circa 80 cm di altezza, con la fossa di fondazione intatta, anch’esso direttamente in contatto con il substrato geologico e quindi la prima costruzione in situ, probabilmente riferibile alla chiesa di San Filippo o a un insediamento che potrebbe addirittura essere coevo o precedente anche al Castello. A sostegno di ciò basterebbe ricordare che la parte di muro del prospetto sud, comune al teatro e all’attigua casa Spoleti, oggi Failla-D’Ippolito, per quanto riferito da Mogavero Fina e successivamente da Magnano, ha contenuto un ampio affresco che negli anni Cinquanta finì sotto l’intonaco della nuova costruzione, prova più che evidente del fatto che quello era un muro della chiesa di San Filippo.

Ma a chi ci governa la storia non interessa perché la storia la conosce chi studia, e sugli studiosi è stato sempre buttato fango.

Riguardo alla motta, apprendiamo che finalmente la sua valenza storica e archeologica è stata riconosciuta e siamo fieri di tale evidenza perché la Costituente lo ha segnalato alla Soprintendenza fin dal 14 marzo scorso. La motta o scarpa, che circondava una volta il Castello dei Ventimiglia, venne alla luce, e probabilmente danneggiata in occasione di lavori di dubbia legittimità e senza alcuna sorveglianza da parte della Soprintendenza, condotti alcuni anni fa per creare il fatto compiuto di una preesistente fantomatica stradella che conduce dal viale retrostante il castello fino al Cineteatro “Le Fontanelle”. Oggi è stato riportato alla luce un ampio tratto della motta nel lato del Castello che si affaccia sul quartiere Salvatore, assieme a un doppio muro alla base della scarpata che costituiva il perimetro dell’area fortificata che circondava il castello medievale. Apprezziamo il lavoro dell’archeologo Giovanni Spallino che con determinazione ha dimostrato la portata storica del rinvenimento della motta, risalente al tardo Duecento, come sostenuto dall’arch. Rodolfo Santoro in una relazione sui lavori di restauro del castello, di sicuro risalente al Quattrocento ma forse addirittura trecentesca, in cui possono essere rinvenuti manufatti che consentivano nei secoli passati l’accesso al castello dalla Porta di San Cristoforo e addirittura di tracce del primo insediamento intorno al Castello

Nella nostra segnalazione denunciammo l’intenzione di realizzare palificate nella zona della motta per sostenere la strada o stradella o viottolo (secondo le varie denominazioni in progetto), di cui peraltro sfugge ai più l’utilità ai fini di una restituzione allo scopo culturale del manufatto, mentre è chiaro a tutti che queste palificate comprometterebbero irrimediabilmente una zona molto importante dal punto di vista archeologico.

Qual è l’interesse pubblico o privato di questa stradella, tanto da sacrificare la motta, tanto da cancellare la storia? Non possiamo accettare che un’importante testimonianza storica e valore aggiunto al paesaggio dell’area castellana sia sacrificata sull’altare di una inutile stradella.

Chiediamo quindi, ancora una volta con forza, che venga evitata la distruzione della motta e che venga recuperata INTERAMENTE.

Non si potranno dimenticare le distruzioni già operate, e saranno opportunamente segnalate, e neanche la foto del Sindaco trionfante accanto alla ruspa e alle macerie, ma adesso è chiaro che nessuna strada, stradella o viottolo palificato sono compatibili con una rilevanza archeologica di tale valore e i lavori devono prevedere una opportuna variante che ne tenga conto.

I sindaci passano, le loro velleità pure, ma le scelte sbagliate rimangono a perenne memoria. È questo il momento per inserire in variante tutte quelle modifiche richieste a gran voce dai castelbuonesi che hanno a cuore un teatro degno di questo nome.

Affinché Mario Cicero non passi alla storia come il sindaco delle demolizioni e Castelbuono come uno dei pochi paesi d’Italia a non avere un teatro.

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