La palma della Strata longa. Pretesto per alcuni appunti a puntate di storia (semi)seria – Terza ed ultima puntata

 

La vividezza e la vivacità della Strata longa ha avuto il suo centro di irraggiamento nella zona attorno ai canaleddra e alla palma grazie alle botteghe artigiane (foto 1) e commerciali e ai personaggi che vi gravitavano.

 

Certamente l’ultimo di essi è stato màsciu Caliddru, singolare figura di bottegaio, per un trentennio emblema della Strata longa. Ogni anno, pochi giorni prima della festa di sant’Anna, si riforniva di un’enorme quantità di angurie che ammonticchiava davanti al suo negozio e fra le angurie, in quelle sere, soleva coricarsi affinché non gliene trafugassero qualcuna. Cosa che invece accadeva sistematicamente e al mattino, non appena se ne accorgeva, inveiva contro tutto e tutti strillando come un ossesso come quella volta che gli si rovesciò una cassa colma di arance e lui, imprecando, si misurò in una disperata corsa giù per la Strata longa con le beffarde rotolanti arance che già tagliavano il traguardo di Ncapû ponti.

Per questi buffi e imprevisti accadimenti màsciu Caliddru veniva dileggiato in quella maniera sottile, che solo i castelbuonesi di una volta sapevano fare, dal suo dirimpettaio Martinu u Meli. Difficilmente chi transitava per quei pressi poteva sottrarsi alla scurciddra di don Martino e, se il tipo non gli andava a genio, rivolto agli immancabili frequentatori della sua bottega commentava con eloquente torsione del capo verso la spalla: bbella pìersica!

Adiacente alla sartoria di don Martino era la falegnameria di mastro Fanino Sottile, artigiano di rara precisione e perizia. Mastro Fanino era tanto valente quanto burbero. Non ebbe mai apprendisti (caso unico al mondo, in quell’epoca) perché non voleva nessuno tra i piedi. Una volta chiese a mio nonno, che aveva la sua ebanisteria accanto al ficus, quindi di fronte alla sua, di mandargli suo figlio affinché lo aiutasse in un lavoro. Mio padre, poco più che bambino, forse ringalluzzito da tanto onore, non appena arrivò da mastro Fanino cominciò ad armeggiare con i suoi sacri attrezzi, ma l’anziano falegname lo bloccò al volo e lo rispedì al mittente dicendogli: talè, va fa addivèrtiri a tto pà!

Sopra le botteghe di don Martino e di mastro Fanino vi era la casa del fascio (foto 2).

 

Negli ultimi giorni di luglio del ’43 gli antifascisti di Castelbuono con una scala a pioli vi penetrarono e tutto ciò che vi si trovava, documenti, mobili e quant’altro fu scaraventato giù dal lungo balcone a cominciare dallo stemma littorio che campeggiava sul prospetto. Poi vi versarono la benzina e diedero fuoco. A mezzogiorno era tutto cenere. Quando rifecero la Strata longa c’era ancora il segno, come il letto di un falò.

Il ficus, che tutti chiamavano u spìezziu per via dei frutti simili a grani di pepe, era il ristoro per gli avventori del bar Tre Stelle (foto 3) ubicato accanto ad esso e gestito da Micu Micale, anch’egli personaggio sui generis della Strata longa di quegli anni.

 

Nel locale adiacente alla sartoria di don Pitrinu (vedi puntata prec.) Micale custodiva le balle di neve ghiacciata e in quello ancora più a monte vi produceva i gelati e le granite di limone che erano rinomati, al pari di quelli di Pupillo. La neve sciolta durante la lavorazione, anche grazie al sale che vi si aggiungeva, detta sciacquatura, era assai ricercata nel periodo di sant’Anna perché utilizzata come refrigerante per le angurie.

Micale, che qualche volta riusciva ad essere sadico come quando, dopo la cattura di un topo, gli incendiava la coda e lo liberava per strada rischiando seriamente di provocare un incendio, era sostanzialmente un buontempone. Spesso soleva sistemare una carta da due lire in mezzo alla Strata longa e, seduto davanti al suo bar con aria sorniona, aspettava che il pesce abboccasse. Accadeva sempre che di lì a poco un passante, incredulo alla vista di quella banconota, si avvicinava, dapprima con circospezione, poi con slancio, ma appena si abbassava per farla propria, don Mimì, rapidissimo, tirava il filo di cotone bianco che aveva legato alla cartamoneta lasciando con un palmo di naso il malcapitato che veniva coperto da una tempesta di scherni da parte degli avventori del Tre Stelle.

Allora quasi nessuno conosceva questo trucco e in molti, per tanto tempo, vi cascarono al punto che parecchi anni dopo, negli anni ’60, continuava a essere ripetuto con successo in quell’altro covo di burloni che era la sartoria di Ciccio Mazzola â Chiazza nnintra.

Ma il tempo passava e con esso, inevitabilmente, anche alcuni dei personaggi di cui abbiamo parlato rimpiazzati da altri, come lo scarparo màsciu Nzulu nfurna pàssuli nella bottega che, in ultimo, sarà quella di  màsciu Marianu u stagninu. Nella foto 4, scattata alla fine degli anni ’50, si riconoscono mastro Nzulo dietro il deschetto, alla sua sinistra il celeberrimo Puppinu çè-çè e màsciu Caliddru seduto di traverso.

 

 

Alla Strata longa il fluire del tempo, almeno da un certo momento in poi, fu scandito dall’accrescimento senza sosta della palma (foto 5) che ora non aveva più bisogno dell’acqua di don Pitrinu (vedi puntata prec.).

 

E sotto quell’ormai maestoso esemplare (foto 6), sul finire dei ’60 spesso, al sabato sera, si esibivano dei cantastorie e qualche volta saltimbanchi venuti da non so dove.

 

Parecchi anni dopo, osservando che sotto la palma una panchina non avrebbe guastato, Pino Pollara e Vincenzo Lungoscalpo fecero pendere una luna illuminata dalla palma, vi sistemarono sotto una panca e, al passaggio della vecchia al penultimo dell’anno o forse di uno dei primi carri di carnevale, si fecero trovare seduti intenti a leggere, incuranti di ogni cosa. Uno humour un po’ più inglese rispetto a quello dei decenni precedenti, ma sempre all’altezza di quello che alla Strata longa storicamente si riusciva ad esprimere.

Con l’avvento del XXI secolo (foto 7) , la palma cominciò a subire le ingiurie degli anni.

 

Dapprima, durante un Natale, fu sfarzosamente bardata di luci. Peccato che dopo l’Epifania dimenticarono di toglierle, ma anche di riaccenderle nelle successive feste natalizie così la palma, per diversi anni, rimase strettamente legata da quei fili, esattamente come un falsomagro.

Quindi, quasi dimenticata – mentre in paese si parlava esclusivamente delle palme di Sopra il ponte – la sua chioma fu colonizzata da uno sterminato stormo di uccelli che con i loro escrementi insultarono a lungo la vecchia palma e tutto ciò che vi stava attorno.

Infine, divenne terra di conquista dell’ingordo punteruolo rosso che ne divorò il midollo determinandone l’attuale stato comatoso.

Oggi, benché capitozzata (foto 8), la vecchia cara palma della Strata longa continua a mantenere intatto il suo austero portamento, ben diverso da quello del derelitto palo in ferro battuto che le hanno conficcato accanto, al quale, con aristocratico distacco, sembra dire: «giovanotto, stai alla larga ché noi due abbiamo storie ben diverse per durata e dignità».

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