La tradizione delle quarare e delle fave a san Giovanni

(Di Massimo Genchi) – A differenza di tante sagre e feste artificiali e artificiose di oggi, immediatamente etichettate come “tradizionali” già alla prima edizione, quella di  San Giovanni, che a Castelbuono si celebra dalla notte dei tempi, fra le feste popolari è la più tradizionale, amata e viva non solo perché dà l’occasione di trascorrere una serata conviviale in strada, all’insegna dell’allegria, della musica, suonata e non sparata, canti, balli e vino di botte. Il vino, poi, non guasta mai: in vino veritas in scarpe adidas, dicevano i latini. No, quello lo ha detto il grande Beppe Viola. Il vino, dicevo, accompagna mirabilmente le abbondanti fave e patate bollite consumate a stricasali, vale a dire condite con olio e aceto e insapidite a dovere con pepe e sale.

Un tempo, per consacrare un legame di amicizia per la vita tra un ragazzo e una ragazza, era usanza che lui, il giorno di San Giovanni, lanciasse un garofano a lei che stava alla finestra in segno di preferenza e di scelta. Ma anche fra maschi ci si faceva cumpari a san Giuvanni scambiandosi un garofano e una stretta di mano, legandosi attraverso il vu in un’amicizia particolare, suggellata sotto l’egida del santo e recitando la seguente filastrocca dopo avere intrecciato i mignoli e staccato un capello che veniva soffiato via:

E ccumpari ccû piricuddru

quanni mànciu un vùojju a nnuddru

â finuta di manciari

vùojju a ttutti i ma cumpari.

Piliddru d’oru, piliddru d’argentu

sìemu cumpari ppi tuttu l’annu.

A parte ciò, la tradizione – non sappiamo da quando ma possiamo dire da sempre – associa alla festa di san Giovanni il rito delle quarare e del fuoco – che è al contempo simbolo del ringraziamento per i raccolti e auspicio di fertilità della terra. Quel caldaio di fave all’aperto, al centro della strada, rappresenta una manifestazione di gioia collettiva e, come la festa sull’aia, o i canti della vendemmia, rappresentava l’apoteosi del lavoro contadino, dato che il raccolto di fave costituiva la ricchezza, la provvista per tutto l’anno.

San Giovanni 1949 alla Rua Fera

Per il loro elevato apporto proteico, nel corso dei lunghi mesi invernali, in tempi in cui spesso mancava il necessario, non era da disdegnare un piatto caldo a base di fave bollite o di favi a ccunìjju, fave secche cucinate in un sughetto a base di salsa di pomodoro e cipolla o ancora di favi pisciati, sobbollite in acqua salata e, successivamente, cotte al forno o anche di favi pizzicati, cioè incise con la punta del coltello e cucinate con salsa e cipolla. Senza dire che la pasta ccu i favi spicchiati o ccu i i favi a ddu scorci costituisce ancora oggi una prelibatezza, non solo per chi è dedito alla ricerca di antichi e significativi sapori.

Dopo la rituale messa mattutina, che si celebrava nella chiesetta campestre di San Giovanni, nel primo pomeriggio quasi in ogni strada cominciavano i preparativi. Ora, sia detto per inciso, si poteva tollerare tutto, anche che si organizzasse una quarara senza vino o con poche fave, ma non era pensabile una quarara sulla quale non campeggiasse il quadro del Santo così com’è ritratto nell’iconografia ufficiale, con l’agnello in braccio e il bastone. Proprio per questo, nei giorni precedenti, si scatenava una febbrile corsa per le case del circondario per cercare di assicurarsi il prestito il quadro del Santo. Il donatore, ppi cumprimientu, la sera della festa, avrebbe ricevuto un bel piatto fumante favi vujjuti.

In onore di san Giovanni, per tutto il vicinato e anche per gli avventori, che facevano il giro delle quarare del paese, ci sarebbero state fave del nuovo raccolto in abbondanza e vino. E poi musica e canti e balli e tanto divertimento. Allora veramente, semel in anno. O poco più. Assai meno ci si dovette divertire quelle rare volte – accadde anche questo – che per imperizia o in maniera fortuita o perché il vino aveva già prodotto i suoi prodigiosi effetti, sotto il vigoroso e incontrollato impulso impresso ai cucchiaioni di legno la quarara si abbuccò e con essa tutte le fave che, trascinate dall’acqua, se ne scesero a pinnina, mentre i santi acchianàvanu li mura.

Pesco fra i tanti racconti quello di un San Giovanni campestre di quasi cento anni fa festeggiato fra vicini di un crocchio di case di campagna ai Pedagni. Peppe, un mezzadro che si spezzava la schiena tutto il giorno, dopo la frugale cena – incurante della quarara, già gorgogliante sul fuoco della tannura, si mise a letto precipitando subito in un sonno profondo. Non solo il poveretto era schiantato dalla fatica ma dovette anche subire gli scherni di quei malfattori dei suoi vicini. Non per niente, ricorda la saggezza popolare, cu avi un mali vicinu, avi un mali matinu. A volte, però, anche na mala siritina. Come nel nostro caso. Non appena le fave furono al punto giusto, un paio di scialacori salirono sul tetto della casa di Peppe, in corrispondenza del suo letto, cominciando a scanalari,a togliere un po’ di tegole, fino a intravvedere Peppe che dormiva come un sasso. Cominciarono a fare un gran baccano, come quando si fa la battuta alle volpi, percuotendo grandi contenitori di latta con pietre e pezzi di legno. Intanto dall’alto, con una corda, gli calarono fin quasi sulla testa una pignata di fave appena scolate, intervallando il frastuono con il refrain: Sùsiti Peppi ca i favi su ppronti! Ma Peppe sembrava sprofondato nel sonno di San Giovanni che, come si sa, durò tre giorni. Alla fine, forse, riuscirono a svegliarlo, non ricordo più. Ricordo invece – ed era l’amaro epilogo di quella narrazione – che, per le ristrettezze economiche in cui versava, il povero Peppe fu costretto a lasciare la campagna e ad arruolarsi come volontario nelle forze nazionaliste durante la guerra civile spagnola, dove, in luogo di migliori condizioni di vita, trovò la morte. Davvero una tristissima storia.

Benché in quei tempi non venissero indetti concorsi per la quarara più caratteristica, più originale, più creativa non lo dico perché, giusto in questi giorni, sarebbe come parlare di corda in casa dell’impiccato, tutti si adoperavano per addobbare al meglio il loro angolino, il loro cantone, sia pure nella semplicità di allora.

San Giovanni 1925 â Strata longa, angolo stratê Culotta

Questa, per me bellissima, fotografia scattata in via Collotti nel 1925 dà l’idea di quanto già allora ci si ingegnasse per creare qualcosa di originale. Su quell’edizione, Il Bancarello scrisse che “la buona annata della raccolta delle fave permise ai cittadini di mettere su in abbondanza le tradizionali quarare. Una simpatica festa si svolse all’imbocco della Via Collotti, proprio nel quadrangolo geniale! Paparone – Strombolaro – Mimì – Di Galbo Cangelosi”. Nunzio Paparone, personaggio centrale della scena pubblica di allora, almeno quanto i suoi nipoti Paparuna oggi, lo si può notare al centro dell’affollata scena, con la coppola, e con in braccio la figlioletta di pochi mesi che, a dispetto dell’età, sembra avere adocchiato le fave nel piatto e verso di esse è protesa. Come si può notare, la quarara, per mezzo di due robusti ganci, è posta in sopraelevazione, sospesa a una lunga trave che collega due case dirimpetto. Imponente è l’addobbo che adorna il grande quadro di San Giovanni e i musicanti, grancassa, piatti, flicorno, e non solo, sono pronti ad attaccare.

Quest’altra foto, scattata nello stesso punto ventidue anni dopo, dove si nota ancora un particolarissimo allestimento, è connessa alla precedente, nella quale il bimbo vestito a lutto accanto alla bimba che tenta l’assalto alle fave è lo stesso Rosario Minutella, ormai adulto, con i baffetti, accanto a Giovanni Lupo sul palchetto della musica intento con la sua chitarra ad allietare la serata assieme ai tanti volti noti dell’orchestra, che allora, subito dopo la guerra, si chiamava azzibbanni, ovvero jazz band. Ebbene sì, già allora il jazz. E senza direttori artistici…

Lo stesso Sariddru Scalunìeddru, con Peppino Napulìeddru e Mimì a Puviriddrami avrebbero poi suonato in tante feste di san Giovanni, a partire da quelle che, dagli anni Settanta, si organizzarono in piazza, nello slargo del Cycas, forse la più celebre quarara di sempre, sicuramente la più partecipata, l’organisescion della quale fu appannaggio di Peppino Mazzola, di mastro Santo Vignieri, del cavaliere Di Liberti e di tutti i personaggi che, ogni giorno, animavano la piazza in quei pressi e in quegli anni. Se in quel sito, a san Giovanni, la musica dal vivo fu di prammatica, anche la satira non volle essere da meno e, a metà degli anni Ottanta, fece il suo esordio con l’esibizione degli Amici di Bertoldo.

Fu la prima volta che una maschera venne rappresentata in pubblico non a carnevale. Per dire della notorietà assunta in tutto il paese da quella quarara, anche noi del Gruppo 2001 vi dedicammo un pezzo in una delle tre maschere preparate per  il veglione 1981. Con una sua opportuna riduzione, chiudo questa puntata, non prima del sentito e dovuto ringraziamento, per le foto che figurano in questo scritto e non solo, a Sasà, che visse intensamente l’atmosfera di quella quarara, e che continuerà a vivere le feste di san Giovanni nel cuore dei suoi tanti amici.

E’ tradizioni di tutti l’anni

festeggiari u san Giuvanni

e ogni famiglia dû vicinatu

regala favi, vinu e puri i patati

Ma a quarara cchiù rrinomata

a quattru cannola è sistimata:

Napulìeddru e Pitrinu Carrata

su i veri maistri dâ scuticchiata

Pirchì Napulìeddru persuna cortese

invita a simposio tutto il paese.

Nzumma iddru voli i persuni cchiù ntisi:

nnâ na parola, mìenzu paisi

Sempri presenti è ppua Pizzilìa

ca è tuttu chinu di furniçìa

e quannu a quarara è ô primu vugliuni

iddru s’afferra li favi ammucciuni.

Ma appena a quarara è scinnuta nterra

fra i convenuti scoppia la guerra:

cu spinci d’un latu cu di l’àutru latu

arrestanu urmi i cchiossà dî mmitati.

Ha riferito un partecipante,

tipo assai fine aspetto aitante,

ca in occasione di na scuticchiata

ebbi na fava e menza patata.

Morale della festa:

a sira favi, sunati e cantati

e un dumani matinu: bbumm! MASCHIATI!

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