L’arrivo di Padre D’Angelo da novello sacerdote a Castelbuono

Articolo pubblicato nel 2019

Tutti conosciamo il sacerdote don Giovanni D’Angelo, parroco emerito della Parrocchia di Sant’Antonino, tutti ne ammiriamo la strabiliante autonomia fisica e automobilistica, che gli permette di muoversi liberamente a piedi o in macchina alla bellissima età di novantacinque anni con la stessa naturalezza di un individuo di primissima vecchiaia. Ciò che però colpisce maggiormente di questa vegliarda e cara persona è la duttilità con la quale in età tardissima – davvero non è mai troppo tardi – è riuscito a diventare, si potrebbe dire, un cyberpriest, un prete cybernauta. La sua incredibile lucidità mentale associata a una memoria elefantiaca, gli permettono di andare a spasso su Skype, intavolando chiacchierate transoceaniche con i suoi parenti americani e con amici sparsi in mezzo mondo, con la stessa non chalance con cui si potrebbe azionare l’interruttore dell’abat-jour. Utilizza i tablet per produrre e archiviare immagini con destrezza impressionante e, naturalmente, per lui armeggiare con le mail e gli allegati è come – per l’uomo medio – spezzare i biscotti nel latte.

Ciò che mi porta a parlare del mio professore di religione del liceo sono due fotografie scattate da Peppino Puccia e relative all’arrivo di Padre D’Angelo a Castelbuono da novello sacerdote.

Alla fine degli studi in Seminario a Cefalù, fu ordinato sacerdote il 31 maggio 1947 dal vescovo dell’epoca monsignor Emiliano Cagnoni (1884-1969). Da novello sacerdote, fece il suo ingresso in paese, accolto «dallo scampanio dei sacri bronzi», nel pomeriggio di mercoledì 4 giugno 1947, viglia del Corpus Domini. «Nel passato», ricorda il Nostro, «i sacerdoti novelli venivano accolti oltre che dalle autorità, anche da persone che si portavano al festoso incontro con cavalli bardati a festa e con spari di schioppi; in alcuni casi vi era anche la banda musicale». Quando Padre D’Angelo arrivò in paese la cerimonia fu alquanto sobria, non vi furono né cavalli bardati, né spari, né banda. All’ingresso del paese, allo stradone del Rosario ad attenderlo c’erano le autorità civili, militari e religiose.

Per la estrema frammentarietà di elementi di riferimento, non sono in molti a potere giudicare se questa fotografia di Peppino Puccia, del formato di 7×10 cm, sia stata scattata ô paisi o altrove. Invece, se si fissa l’attenzione sul fondo stradale, si può riconoscere il tratto caratteristico della pavimentazione mista in basole e selci (bbalati e mazzacani) che rese uniche, e non solo per colpo d’occhio, la stratalonga e la stratanova, (nome forse disusato per indicare la via principe Umberto), fino a quando mente fulgida non decise di spazzare via queste anticaglie sostituendole con il ben più aristocratico sampietrino, in altre parole il vile cubetto di porfido. Come si vede, noi ad amministratori – da tempo immemore – siamo stati messi sempre bene, non c’è che dire.

Comunque il punto di scatto di questa fotografia si situa nel tratto iniziale di via Principe Umberto, allora completamente sgombra di fabbricati, eccezion fatta per il seminterrato della caserma dei carabinieri e la casetta quasi dirimpetto, allora isolata, con un alberello sul davanti, dove mastro Vito Fiasconaro vi aveva trasferito la propria abitazione e il laboratorio per la produzione artigianale della pasta, la qualcosa faceva sì che fosse comunemente inteso màsciu Vitu u pastaru. Altri indizi che portano a localizzare con certezza il sito in via Principe Umberto sono u pizz’i Pùoddrina a destra, sullo sfondo e il muretto che si intravede fra i bambini, come confermato da quest’altra foto del 1949.

Si fissi l’attenzione sugli edifici bianchi alle spalle dei due ragazzi in primo piano, rigorosamente in giacca e càvisi curti, entrambi di nome Michele Bruno. Nessuno dei due è però il Michele Bruno,Cipuddruni, successivamente noto negli ambienti del Club Mediterranée, quindi della politica, nel ruolo di segretario del senatore Vincenzo Carollo e del presidente dell’ARS Guido Lo Porto. Bene, questi due fabbricati che prospettano nell’aperta campagna dove, solo quindici anni più tardi, si sarebbe cominciata ad abbozzare la via papa Giovanni, sono il forno di Bbellizza in via Cefalù, rilevato negli anni ’70 da Tumminello, mentre la casa ad esso adiacente, con le tende ai balconi, è quella di mastro Vincenzo Cicero, u piddraru. Infine, a sinistra sullo sfondo si indovina il tetto a padiglione del convento dei Benedettini e, verso destra, i corpi della porta san Paolo e le cime dei pini del parco delle Rimembranze.

La foto mostra Padre D’angelo visibilmente emozionato, a destra di monsignore Francesco Cipolla – che tutti, grandi e piccoli, in segno di stima e affetto chiamavano ordinariamente patri accipreti, senza nessun’altra specifica. Non so se prima di lui si usasse fare altrettanto, certamente non è più successo dopo. Fra i due, quasi si insinua un bimbo dal viso impertinente, si tratta di Ciccio Spallino che poi, da vigile urbano, sarebbe diventato tristemente noto presso gli automobilastri locali, per la sua presunta inclinazione ad elevare multe e per questo venne soprannominato «Sartana non perdona», prestito dall’omonimo film di Balcazar del 1968. A destra del novello sacerdote, un po’ girato mentre interloquisce con un misterioso personaggio (che poi si ricava essere il cancelliere della pretura di Castelbuono, il dott. Francesco Raimondi) è il pretore Nicola La Ferlita con, alla sua destra, il maresciallo dei carabinieri Antonino Miraglia e un po’ indietro, con il saturno in testa, don Nicola Raimondi, zio di don Paolo Raimondi e rettore della chiesa di sant’Antonino.

Il pretore La Ferlita, nel corso dei quasi vent’anni di servizio presso la pretura di Castelbuono, si distinse, soprattutto – ma non solo – durante il difficile periodo dell’occupazione militare alleata, per grande equilibrio, straordinario senso di umanità e della giustizia manifestando per la comunità «amore, zelo, ed interesse come se fosse stato un nativo del luogo». Quando, nel 1949, chiese e ottenne di essere trasferito a Palermo, l’amministrazione comunale presieduta da Filippo Bonomo, deliberò di conferire al dott. Nicola La Ferlita la cittadinanza onoraria del Comune di Castelbuono «quale giusto e doveroso riconoscimento dei suoi alti meriti di civismo … esempio e monito di ben fare e operare nell’interesse della collettività».

Dietro la bandiera dell’Azione Cattolica si riconoscono un giovanissimo Giovannino Palma, operaio nella fabbrica delle gazzose, sita nei locali adiacenti al forno di Bbellizza in via Cefalù e poi orefice nelle adiacenze della chiazza nnintra e, completamente canuto, il papà del novello sacerdote masci Puppinu u Gnuru che teneva una bottega di dolciumi e alimenti fra i più disparati, dalla farina, ai fichi secchi, dai legumi ê diavulicchï, nell’angolo dove, provenendo dalla matrice nuova, si svolta per via  Garibaldi.

Dal Rosario, il corteo si è diretto alla Matrice nuova, allora unica parrocchia di Castelbuono. In questa bella e interessantissima fotografia scattata davanti al monumento ai caduti e stampata in formato 13×18 cm, dove compaiono svariati personaggi di primo livello di quell’epoca, è possibile cogliere diverse caratteristiche della piazza di allora.

Il portone in fondo a sinistra è quello che oggi offre il privilegio di accedere alla esclusiva sala di acconciature pour femmes di Mario Bonomo. Inoltre, proprio davanti a quel portone si può notare un largo marciapiede. In fondo, le case che danno inizio al vicolo Badia e le due porte al centro tuttora esistenti, di cui quella di sinistra si può ammirare ancora oggi nella sua foggia originaria ccû accìettu. Non ci sono ancora i ficus attorno al monumento, invece la ringhiera che lo delimita è ancora in legno. Qui bisogna precisare che nel 1927, una volta ultimato il monumento, esso fu cinto con una elegante cancellata in ferro battuto in stile liberty disegnata dallo scultore Antonio Ugo, come mostra la foto in basso.

Nel 1940, allorché dopo l’oro alla patria a bbonarma pretese anche il ferro per la produzione di armi, la ringhiera venne vergognosamente requisita e sostituita con quest’altra assai spartana in legno.

Quando mio nonno Sariddru Genchi, che la realizzò, la stava montando, Vincenzo Pupillo, titolare del rinomato Caffé omonimo, sito nei pressi della fontana grande, passando da lì gli disse sarcastico: Cumpari Sarì [erano cumpari a san Giuvanni], ma se il duce avrà bisogno pure di legna per fare andare i treni e le navi cchi fa, veni a leva puri chissa, pua???

Fin dal suo sorgere quella cancellata fu ricettacolo di bambini mpinniliati e anche questa foto è coerente con la tradizione. Fra i tanti bambini, il primo a sinistra è Peppe Leta che da picciùottu avrebbe suonato la fisarmonica nel gruppo The Moderns di Peppino Raimondo mentre, penultimo a destra, accovacciato, e già imperturbabile nell’espressione, è Nicolino Venturella, Marrabbuni, assurto però a notorietà con lo pseudonimo di Hombre. Non sapremo mai se tale alias abbia i suoi addentellati coi gringos, i cactus e il Mexico o invece con la lombardo-veneta ombra de vin.

Dietro i bimbi, oltre la cancellata, si nota UNA macchina. Sì ce n’è proprio una in tutta la piazza. Un sogno che non sarebbe durato a lungo, purtroppamente. Si tratta di una FIAT Balilla 508 C millecento degli anni ’30, quasi certamente di proprietà dell’ex podestà Antonio Gugliuzza che nella foto è esattamente al centro, in vestito chiaro e cravatta scura, davanti al prete in fondo col saturno in testa che si identifica immediatamente con il poliedrico don Giuseppe Ricotta.

Con non poco sforzo e accurate indagini è stato dato un nome a quasi tutti i personaggi presenti, diciamo più di settanta, che è possibile abbinare ai volti passando col mouse sull’immagine. Aggiungerò qualche notizia solo per qualcuno di essi. In prima fila da destra, il papà di Padre D’Angelo, il cancelliere Ciccio Raimondi (a Castelbuono, per tutti u cancillìeri) e alla sua destra Patri accipreti. Ora il ragazzino alle spalle di Padre Cipolla non è, come si potrebbe essere indotti a credere, Tony Sperandeo ma… Santi Barraccuni, Prisinzano per l’anagrafe, più tardi colonna, sia pure in senso figurato, della distribuzione della posta per diversi decenni.

Quindi, l’attore protagonista della giornata, il novello sacerdote don Giovanni D’Angelo, il pretore La Ferlita e il maresciallo Miraglia, alle spalle del quale, con gli occhiali alla John Lennon, troneggia don Iachinu Pupillo. In effetti, cronologicamente, forse fu John Lennon a prendere il modello da don Iachinu. Dietro, alle spalle del prete col saturno, è il maestro Giovanni Librizzi, sicuramente uno dei migliori maestri che la nostra scuola elementare abbia mai avuto. Dai suoi banchi sono usciti fior di professionisti e di esemplari cittadini. Non è difficile individuare nel giovane smilzo prete alla sua sinistra un giovanissimo don Paolo Raimondi, non ancora parroco della Matrice Vecchia e neppure terrore di tutte le cantinere del paese allorché sfrecciava con la sua DAF col cambio automatico.

Si potrebbe continuare a lungo ma sarò breve dicendo che in fondo, a destra dei tre preti è Silvestre Zito, sportivo della prima ora e fotografo raffinato, del quale presto analizzeremo qualche foto. Inconfondibile dietro di lui, con gli occhiali, il segretario comunale rag. Antonio Farinella. A destra, in basso, discosto da tutti, il giovane con le mani riunite è il pacioso Vicinzinu u Pitichinu, molto conosciuto negli ambienti della piazzetta e della strata i Purpuri fino agli anni ’80. In diagonale, partendo dal papà di Padre D’Angelo, i tre personaggi sono don Peppino Coco, Patàcchiu, titolare del più celebrato bazar di tutti i tempi, che aveva sede all’inizio di Corso Umberto, di fronte ê bbabb’ i l’ ìtria. A seguire, con i capelli alla moda, don Mimì Morici inteso Pinnalùoccu che teneva un negozio di tessuti all’angolo fra via Garibaldi e la strata longa.  Don Mimì è uno dei tanti personaggi del nostro passato, di una comicità irriproducibile, di una comicità fatta di gesti, di smorfie, di repentini cambiamenti delle espressioni del viso. Uno di quei tipi che salivano sul palco del veglione ed erano in grado di far sbellicare il pubblico per un tempo stabilito da loro, senza avere uno straccio di copione. In altre parole, l’arte di riuscire a fare scompisciare dalle risate quasi senza profferire parola. Insomma dei Keaton, dei Chaplin o dei Jacques Tati in minore, ma pur sempre immensi. Non penso che, dopo di loro, nessuno sia stato capace di fare pallidamente altrettanto. Ultimo della diagonale, benché mosso, si riconosce facilmente essere mastro Sariddru Culotta, Funciazza, prodromo degli agenti funebri, un personaggio assai noto in paese, nato come falegname e poi convertitosi in commerciante di mobili, guardandosi bene dal mollare l’agenzia, conscio del fatto che, mai al mondo, possono rimanere mùorti supra terra con tutto ciò che questo implica. Mastru Sariddru col veglione non c’entra niente o forse sì, essendosi ritrovato coinvolto, suo malgrado, in un pasticciaccio brutto. Ma non è questo il momento di parlarne.

Dopo «la benedizione solenne, preceduta da un sentito fervorino di ringraziamento», in casa del novello sacerdote, in onore del festeggiato, è stato offerto un rinfresco di dolci e liquori dove certamente non sono mancati i biscotti all’uovo, i bocconi di dama e il rosolio fatto in casa. L’indomani nella Chiesa madre, il novello sacerdote celebrò la prima messa. A dicembre di quell’anno fu trasferito ad Alia, dove rimase esattamente dieci anni. Ritornò a dicembre del 1957, essendo stato nominato parroco della neo parrocchia di Sant’Antonino.  Ma di questo parleremo un’altra volta.

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