Le fascistissime feste dell’uva a Castelbuono


Quando i regimi nazionali (ma anche quelli locali, a dire il vero) vogliono magnificare il loro operato e accrescere l’indice di gradimento presso il volgo la ricetta vincente, da sempre, è stata la stessa: promuovere il divertimento. D’altra parte, elargire al popolo panem et circenses per tenerlo a bada è un rimedio tanto efficace quanto antico. E’ quello che fece il regime fascista istituendo la festa dell’uva, voluta dâ bbonarma nel 1930, e innalzata al rango di festa nazionale, per cercare di distogliere dalla crisi economica di quegli anni.

La prima festa dell’uva si tenne in tutta Italia il 28 settembre 1930, e si capisce che Castelbuono, paese fascistissimo più degli altri, visto che paisi comi u nùosciu un ci nn’è, non poteva non risultare all’altezza delle aspettative dal momento che, già allora, il mondo ci guardava (e ancora unn’a finutu di guardarci). Il commissario prefettizio Aleandro Petrucci, da pochi giorni chiamato a sostituire il podestà Antonio Gugliuzza messosi temporaneamente in congedo, si fece coadiuvare dal dottor Mariano Mitra, segretario politico del fascio castelbuonese, e dai fiduciari dei vari sindacati fascisti: il cavaliere Peppino Turrisi e l’avvocato Totò Guzzio per l’agricoltura, Vincenzo Mogavero per il dopolavoro, Giuseppe Tropiano per l’artigianato, Silvestre Zito per il commercio.

Silvestre Zito, impegnatissimo nell’organizzazione, soprattutto per l’addobbo degli esterni delle attività commerciali, per una volta non si cimentò con la macchina fotografica, compito che lasciò (non sappiamo quanto volentieri) al collega Salvatore Carollo, anch’egli bravo fotografo, attivo fra gli anni Venti e Quaranta, al quale si devono gli scatti della festa dell’uva edizione 1930.

La festa, secondo i desiderata del regime, doveva essere all’insegna del folklore e, tendendo a valorizzare tradizioni popolari locali, prevedeva, da noi, come un po’ ovunque in Italia, sfilate di carri allegorici nei costumi tradizionali locali.

Questa foto stampata su carta satinata, formato 13 X 18 cm, immortala gli istanti immediatamente precedenti l’inizio della sfilata. Al centro, davanti al municipio, allora come oggi, u sceccu. Noi scherziamo con le cose serie, ma la contiguità tra questo animale e la nostra comunità è almeno pari a quella esistente fra il toro e gli spagnoli o il canguro e gli australiani. Dietro, schierati lungo il prospetto del municipio, si contano più di una dozzina di muli, ciascuno già caricato della relativa soma, consistente in due fìscini stracolmi di uva rigorosamente locale e montato da un vurdunaru.

La gran parte di questa uva, da distribuire durante la sagra, ma anche utilizzata per gli addobbi, proveniva dalle vigne del cavaliere Gugliuzza ê Linati, del cavaliere Peppino Turrisi ô Lùocu, da quelle di Tudinu e dî Mannirazzi dei fratelli Marzullo che, ritornati dall’America, avevano acquistato anche il palazzo Turrisi nelle cantine del quale erano allocate delle botti così mastodontiche dove sarebbe stato possibile entrare a cavallo. Oltremodo caratteristico sembra il vecchio mulattiere, in camicia bianca e cravatta, se non altro per due elementi decisamente ottocenteschi, quindi già obsoleti negli anni trenta, vale a dire i basettoni bianchi alla Borbone e a bbirritta, il tradizionale copricapo del popolo di stoffa, di cotone o di lana, senza visiera, avente la forma di una calza che scende oltre la spalla.

Il municipio si trova pressappoco nella sua foggia originaria, con il portone centrale, anziché due, e i attuna, i beccatelli sotto i balconi laterali, ancora a squadra. I pilastri del portone d’ingresso sono in pietra squadrata e ai lati di esso si notano le lapidi che ricordano i caduti. Mancano solamente i due lampioni a petrolio ai lati del portone, già dismessi perché dal 1926 la pubblica illuminazione venne allacciata alla rete elettrica.

Il corteo, preceduto dalla banda, e animato dalle donzelle in costume, si è mosso dal municipio attraversando corso Umberto dove tutti negozi, dal Caffé Pupillo dirimpetto alla fontana grande, a quello di frutta e verdura di Filippo Marguglio, erano addobbati a tema vendemmiale.

Sopra il ponte, il ristorante Hotollo, come si vede nelle due foto seguenti, è in grande spolvero con festoni, tralci, bandiere tricolore e grappoli di uva. Posano per la foto ricordo le belle vendemmiatrici dagli allegri costumi vistosamente fiorati curati dalla fiduciaria del fascio femminile, donna Franca Failla Gugliuzza, moglie del cavaliere Antonio. Il bimbo in groppa ô sciccarìeddru sardignùolu è il futuro avvocato Giannino Guzzio che formava una coppia di contadinelli con la bimba Rosetta Cicero che potrebbe essere l’ultima a destra. Guardando la foto, le belle insegne delle birra Paszkowski che ravvivano il terrazzino del ristorante riportano la mente all’autarchia e all’esterofobia di regime. Ma niente paura, è tutto sotto controllo, non c’è niente di scandaloso, niente di esterofilo, perché la Paszkowski, a dispetto del nome foneticamente mantecato, è una birra italianissima, e certamente fascistissima, prodotta a Firenze sia pure da nativi polacchi, ormai da tanti anni in Italia.

Il ristorante Hotollo cominciò a deliziare i palati degli arcigolosi indigeni a partire dal 1922 ma il caratteristico terrazzino, dove ancora non vegeta la famosa e umbratile prìeula, venne aggiunto soltanto nel 1927, allorché il gestore Nicolò – Cocò – Mazzola, per tutti Lotollu, comprò una piccola striscia di terreno demaniale che correva lungo il prospetto del ristorante per costruirvi un terrazzino coperto onde allargare il ristorante. Fortunatamente la copertura non si fece mai e devo dire che si apprezza di più così. Diversamente da quelli cui cercano di farci abituare oggi, più o meno autorizzati, più o meno belli, più o meno ingombranti, costruiti più o meno ad onta.

Dopo le vendemmiatrici, posano le autorità e il comitato organizzatore o meglio una sua parte, visto che fra i presenti non figurano né il cavaliere Turrisi né Silvestre Zito. A destra, con la paglietta e il bastone è il dottor Mariano Mitra, segretario politico del fascio e, alla sua destra, il segretario comunale Antonio Bertola, padre di Enrico Bertola Gambaro. Procedendo verso sinistra sembra di riconoscere, se non altro per le physique dû rôle, il commissario prefettizio Petrucci e, a seguire, assolutamente inconfondibile, l’ex podestà Antonio Gugliuzza con un cappello che sembra quello di Yanez, l’inseparabile amico di Sandokan. In vestito nero e la paglietta in mano è il poliedrico animatore avvocato Totò Guzzio, papà di Giannino. Alle spalle del signore che regge la bambina, si scorge seminascosto il futuro cancelliere Ciccio Raimondi e, accanto al carabiniere in alta uniforme, il direttore del Bancarello, Giovannino Lupo. Dalla porta del ristorante fa capolino la signora Liboria Matassa, moglie di Hotollo, mentre fra il pubblico del terrazzino si riconosce il figlio primogenito Totò, col gomito appoggiato al pilastrino. Dei tre personaggi comodamente seduti al centro, l’ultimo, col grappolo in mano, è il famoso pittore Antonio Liuzzi, cefalutano ma sposato con una castelbuonese, autore, tra l’altro, di belle decorazioni nelle volte di diverse case di Castelbuono, oltre che di pregevoli pitture nell’aula consiliare, che poi era la stanza del sindaco.

Dopo il set fotografico Sopra il ponte, il corteo si rimette in cammino per raggiungere la Piazzetta come si deduce dalla seguente spettacolare foto dall’alto della Strata longa, una volta tanto ripresa verso valle che permette di scorgere financo il palazzo dû Pitralisi â chiazza nnintra con accanto l’orologio e il campanile. Poi sopra il ponte, quindi la bassa Strata longa con gli avventori del bar di Micale sotto l’albero fronzuto, a quel tempo non ancora bersaglio degli attacchi dei Sioux locali, mandati dal grande capo Toro seduto, a privare il Grande albero del sacro scalpo. Non c’è ancora la palma, destinata tanti anni dopo a  fare una brutta fine, mentre c’è la fontanella che, per quanto non visibile da quel punto, lascia intravvedere uno dei tre lampioni che la sovrastano.

In primo piano, a sinistra, col caratteristico balcone ad angolo, si nota la casa che fino a pochi anni prima aveva ospitato la fabbrichetta di marcatravi, i fiammiferi di legno e, poco più in basso, il particolare finisciuni lùongu. Adiacente ê canaleddra, si distingue quella che non è ancora la sede del fascio, il secondo piano della quale è già abitato dalla famiglia del maestro Giovanni Mazzola, noto esponente fascista locale, che perciò di lì a poco farà casa e putìa. Al balcone, si individuano, infatti, la moglie Anna Barbato e i suoi due bambini Mimì e Nicolino.

La foto evidenzia la struttura della sfilata, aperta dalla banda, col preciso compito di dare “la nota gaia alla colonna in festa durante la distribuzione dei sacchetti di uva” alla folla assiepata sui marciapiede ed è chiusa da due carretti siciliani, trainati da cavalli ingualdrappati di tutto punto. I carretti sono adorni di bandiere, di tralci e di grappoli di uva per ricolmare, via via che si svuotano, i fìscini posti sui muli. Questi ultimi sfilano ai bordi del corteo, quasi rasente i marciapiedi: in fila indiana per due, come avrebbe detto un italianista di imperitura fama.

Alla Piazzetta il commissario Petrucci, mostrandosi pienamente soddisfatto della riuscita della manifestazione, fece un piccolo discorso salendo non proprio sul palco – che non si usava neanche allora – ma a casciuni  di qualche trabiccolo di proprietà comunale, dicendo: «compagni e amici, io â chiazzetta il comizio lo dovevo fare, perché qui ci sono nato…». No, veramente questo non lo disse lui. Comunque non mancò di esaltare le benefiche qualità nutritive e dietetiche dell’uva, ricordando che anche in Germania se ne fa largo uso. E noi non facemmo passare neanche tanto tempo, e con la Germania ci allineammo non solo sulle virtù dell’uva ma su tutto e così, oltre all’uva, ben presto si fìciru i ficu. Poi il corteo si rimise in moto e dopo avere percorso a strat’e Pùrpuri, costeggiato sant’Agostino, quindi san Francesco, scese per la Rrua fera e si concluse â chiazza nnintra lasciando tutti felici e contenti di tanto scialo e soprattutto di essere stati utili all’Italia, al duce e al re.

Dal momento che la propaganda è il sale di ogni regime, chiusa la prima festa dell’uva, passò poco e si diede inizio all’organizzazione dell’edizione successiva, promossa dal capo del governo in persona. L’edizione 1931 si tenne il 27 settembre e Castelbuono, da sempre paese gaudente e scialoso, anche stavolta spese le sue migliori energie per la perfetta riuscita dell’evento. In quegli anni, in particolare, gli amministratori avevano non pochi problemi da risolvere ô mannaruni ma, come si sa, i problemi possono attendere, esattamente come il pagare e il morire, ma il giàngalo no.

Il cliché della festa dell’uva 1931 riproduceva in tutto e per tutto quello dell’anno precedente. La foto che segue, scattata da Silvestre Zito, ritrae un momento – sotto la pinnata – stranamente non immortalato nel corso della sagra dell’anno precedente.

L’aria è da festa grande. I due carretti, con le sponde pluridecorate a temi tratti dall’opera dei pupi, e addobbati di tutto punto, fanno da quinte alla scena sotto la pinnata. Il primo a sinistra in abito chiaro e camicia, naturalmente nera, è il maestro Giacomo Maggio, fiduciario degli avanguardisti e futuro podestà, poi lo stagnino Peppino Ciolino, seminascosto, il famoso pasticciere Vincenzo Pupillo, quindi il giovanissimo avvocato Ciccio Failla, nipote del barone Francesco Guerrieri, poeta e patriota e il segretario comunale Antonio Bertola. A seguire, the man in black non è Johnny Cash ma il nuovo commissario prefettizio Francesco Cannata che da circa un mese aveva sostituito Petrucci e al suo fianco l’avvocato Totò Guzzio. Ultimo a destra, seminascosto dal braccio, è u sceccu che, come si vede, un manca mai. Sotto la pinnata, fra festoni, bandiere, panieri d’uva e feticci vari, all’estrema sinistra, accanto alla colonna, si riconosce la fiduciaria del fascio femminile donna Ciccia Gugliuzza e, a destra, col cappellino scuro in testa, mescolata fra le piccole italiane, la maestra Sarina Galbo; entrambe coordinarono sia il gruppo delle piccole italiane, sia quello dei piccolissimi in costume tradizionale campagnolo siciliano. In fondo, dei tre uomini con gli occhiali, quello di mezzo è il maestro Giovanni Mazzola, all’epoca fiduciario dei Balilla.

Il giovane Nuccio Bartolotta, in camicia bianca accanto  al carretto di destra, ha in mano la cartolina ufficiale della seconda edizione della Festa dell’uva e diversi altri esemplari identici si vedono, in fondo, sull’altare innalzato all’idolo. E’ raccapricciante come l’idolatria renda cieca la gente, prima ancora che di dubbio acume. Non sappiamo se in quegli anni qualcuno dovette calarsi nella parte suo malgrado, o se invece aderiva coscientemente.

I bambini che vediamo ritratti in questa foto, stampata su una non frequente carta a effetto buccia d’arancia, fanno parte del gruppo allegorico allestito dal giornale il Bancarello, come si può leggere sul nastro che adorna il cesto di vimini pieno di pampini e di grappoli d’uva su uno dei simpatici trabiccoli, in altri termini delle originali piccole carriole di legno di abete.

Dietro i due monelli di sinistra (ca pari ca un ci cùrpanu pròpria) in abiti di piccole italiane si riconosce Antonietta Bannò, l’areoplanu, per via del fatto che alcuni membri della famiglia, trasferitisi negli Stati Uniti, spesso viaggiavano da e per l’Italia, naturalmente prendendo l’apparècchiu , l’areoplanu, appunto. Al centro, la bimba altissima col grembiule di pizzo è Margherita Ippolito, non già figlia di masci Sariddru u strummularu ma nipote,  e Il bimbo che regge la carriola di destra, già gigantesco nonostante i suoi otto anni, è il futuro medico Peppino Raimondi, fratello di Amalia Raimondi De Luca, la corrucciata bimba con la bandana chiara in primo piano, che alza il grappolo d’uva. Dietro di lei Laura Fiasconaro, sorella della maestra Anita, della quale abbiamo detto nella prima puntata di Memoria Fotografica. La bimbetta a destra in primo piano con lo sguardo sperso ha appena due anni ed è Vincenzina Lupo, figlia del direttore del Bancarello, mentre dietro di lei si riconoscono Antonietta Fiasconaro, quella più alta, sorella di Laura e Anita e, col panciotto allacciato sul davanti, Antonietta Di Garbo, sorella del ben più noto Alfonsino, in una espressione che è scurciata suo nipote Gian Luca Paparuni all’epoca in cui aveva la stessa innocente età.

Altre edizioni della festa dell’uva si susseguirono, con i medesimi toni trionfali. Qui vediamo una foto dell’edizione del 1932 dove, a parte la pompa di addobbi e la bella parata di musicanti, si notano diversi bimbi presenti anche nella edizione precedente e altri personaggi già visti, tra cui il direttore Giovannino Lupo a sinistra, il maestro Maggio, a destra in alto, e il pittore Liuzzi, accanto al muretto della pinnata, a destra.

L’ultima edizione della festa dell’uva fu quella del 1940, con l’Italia già abbondantemente lanciata alla conquista del mondo, che da parte sua preferì non farsi conquistare, ma che ancora ci guarda e, ieri come oggi, esterrefatto continua a ripetere: “mmah!, un finissi mai di diri mmah!”. Dunque la festa dell’uva finì e, a proposito di uva e di vino, sarebbe proprio il caso di dire che finì comi a festa â Santuzza.

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