Prima che se ne perda la memoria: A vecchia nzìpita

(Di Massimo Genchi) – Non poteva mancare! Ogni anno, cadente cielo, accadeva press’a poco a quest’ora: poco prima dell’imbrunire di ogni 30 dicembre. Ma mica quei dicembre di oggi, col caldo afoso che sembra di essere al Cairo e non fa neppure impressione festeggiare l’arrivo del nuovo anno affettando non già panettone e pandoro ma u muluni rrussu. Ecco, in quei pomeriggi di dicembre di allora, musicati dalle raffiche di vento gelido che ti tagliava la faccia dopo avere accarezzato la neve dei Monticelli, in diversi punti del paese, stuoli di bambini festanti e vocianti portavano in giro per le strade un fantoccio, una pupa, fatto di bastoni e stracci che simboleggiava a vecchia, la befana.

Un simulacro di vecchia, scrisse il maestro Pippo De Luca, “che si adattasse per benino a raffigurare il vecchio anno che andava via e che aderisse anche alle trepide aspettative di un incontro con il nuovo che avrebbe colmato felicemente gli animi di tutte le soddisfazioni e di tutte le consolazioni”.

La pupa veniva preventivamente cunzata, mpupata – appunto, con vecchi abiti e stracci recuperati casa-casa. Una fadetta, una maglia, una cheppa, una scialletta quatriata di lana, legate tra loro e retti verticalmente da una forcella, quasi fosse il tronco della vecchia. Una lunga canna orizzontale che passava per le maniche dei vestiti rappresentava le sue braccia spalancate. Alla sommità, uno straccio più volte rigirato su se stesso perché somigliasse a una testa era avvolto in uno scuro drappo che copriva l’abbozzato viso della vecchia per tenerne nascosta la fisionomia. Infine, quasi a conferirle l’aspetto di un corriere Gondrand ante litteram, le caricavano un sacco rigonfio sulle spalle che tutti immaginavano pieno di giocattoli, dolciumi, vestiti ma anche di carbone.

La vecchia girava strati-strati retta da uno dei bambini e tutti gli altri dietro a far fracasso, gesticolando e schiamazzando, armati di campanacci di vacche e capre e pecore di ogni dimensione e tonalità. Da quelli più squillanti, i picurini e i craparischi che si apponevano alle pecore e alle capre, a quelli dal suono grave, i tubbiuna, adatti ai bovini più indocili, a quelli ormai rotti, stonati e quasi inservibili, i trucculazzi. E in questo frastuono l’allegra brigata procedeva saltando, urlando e cantando a squarciagola sulle note de La donna è mobile di Giuseppe Verdi:

A vecchia nzìpita

cci acchiana l’àcitu

u lignu e ffràcitu

e un servi cchiù

Non ho mai visto fotografie di nessuna epoca di questa particolare sfilata. Una volta, nei primi anni Novanta, in un freddissimo pomeriggio, udii l’inconfondibile troccolare dei campanacci: stava passando la vecchia. Era da tanto tempo che non se ne vedeva più una. Mi affacciai al balcone, erano ô Bbeddrividiri e andavano verso la Piazzetta. Pensai che era l’occasione propizia per immortalare quel particolare corteo ma esitai un istante. Scesi giù, presi la macchina fotografica, uscii di casa, li cercai dappertutto ma non li trovai. Sembrava che fossero stati inghiottiti. Quella fu l’ultima volta che passò la vecchia per le strade.

Finito il giro, la comarca faceva ritorno alla svelta nelle case; quella sera bisognava cenare di sommorgenza e andare a letto subito perché se la vecchia, che la tradizione dipingeva suscettibile e dispettosa, transitando, vedeva lùsciu, tirava ritta.

Nella tradizione popolare, a vecchia abitava a Milocca, non nell’albergo, ovviamente, ma nella montagna di Milocca, quella che noi chiamiamo a muntagna vecchia e molti si chiedono cosa diavolo significhi.

Ecco, a vecchia abitava lì, sotto a bbalatâ vecchia, in una grotta seminascosta che guarda verso i Pizzi gemelli e che pertanto chiamiamo a rutta dâ vecchia. Dunque, a muntagna vecchia, in origine, dovette essere a muntagna dâ vecchia, che chiarisce bene il senso del toponimo. La trasformazione fonetica da muntagna dâ vecchia a muntagna vecchia si è realizzata in tempi non recenti, visto che la montagna attigua è ordinariamente detta a muntagna nova e non certo perché sia nata dopo, rispetto all’altra. Ciò dimostra anche quanto sia radicata nel nostro paese la tradizione della vecchia che la penultima notte dell’anno scende in paese a dispensare doni, muovendo dalla sua grotta. E a tal proposito va ricordato, perché sapere è potere, che in quella montagna, che si affaccia sui Pedagni è ben visibile un’altra grotta, che noi per contrapposizione alla grotta della vecchia chiamiamo a rutta dâ picciotta.

Ecco, da quel posto accidentato, fra le balze di Milocca, la notte fra il trenta e il trentuno dicembre a vecchia, come ogni befana che si rispetti, a cavallo della sua scopa, scendeva in paese carica di ogni cosa e passava casa per casa, anzi tetto per tetto. E passando attraverso la ciminìa, si intrufolava nelle case dove lasciava ciò che voleva: pira sicchi, sorvi, ficu sicchi, pizzichintì, qualche altro dolciume, talvolta caramelle e cioccolatini, rarissimi giocattoli, qualche paio di calzette realizzate con ferri e aghi, qualche balocco da niente oltre all’immancabile calza di carbone. Ma i bambini erano felici lo stesso, pur nelle ristrettezze economiche di allora, riuscivano a godere anche di quel poco perché erano ricchi dentro, ricchi di insegnamenti, di valori, di spirito, di umanità. E non appaia paradossale constatare che oggi che abbiamo tutto, in realtà non abbiamo niente. Ci manca sempre qualcosa di importante. Quel quid che, per fortuna, non si compra e si acquisisce solo mediante altre pratiche dello spirito.

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