Tra Castelbuono e Goya: expertise di un manipolo di giovani artisti

Domenico Pollara, ingravescente aetate, destinato a periclitare verso i lidi postremi della maturità, nondimeno è rimasto fedele a se stesso e al suo gusto caustico, beffardo e sardonico dell’atto artistico.
Volti digrignanti, corpi martoriati, panorami ferocemente anticlassici e anticlassicistici, ribellioni seppur inani verso i luoghi comuni del ‘natio borgo selvaggio’, provincia di un mondo sempre più globalizzato che veleggia verso i compromessi del glocal: questo, verbis paucis, è l’universo stralunato e bislacco del nostro pittore che fa i conti con i tempi fugati di una giovinezza seppur attardata.

Ma essa straripa dalla scelta di congregarsi giovani talenti, cui in una modesta e laconica recensione è impossibile rendere giustizia. Piuttosto si dovrà dire che questa giovinezza, primavera di bellezza, dispiega un canto che squilla e va per erme contrade.

Un’officina prolifica di manufatti, un profluvio di colori e di tinte, ora sgargianti ora tenui ora addirittura funerei, a rendere “la luce e il lutto”, ove le Madonie, lembo della Sicilia e della sicilitudine, non sono più i luoghi aviti di una memoria nostalgica dei bei tempi che furono, ma una forgia, le cui proiezioni sono fanfare in apparenza cacofoniche caparbiamente intente a esplorare le latebre inesauribili dell’inconscio collettivo, in opposizione a un immaginario collettivo che va sempre più depotenziandosi.
Insomma, si licet…, sogni e incubi bunueliani sotto l’ancestrale usbergo di Goya.

Anonimo castelbuonese

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