Tra curiosità e sfacinnamìentu: a porta ccû accìettu

Fra le prime iniziative che si tennero nella Badia restaurata di fresco nella primavera del 1994, vi fu una mostra curata da Enzo Sottile dal suggestivo titolo “Castelbuono: Uso e abuso del territorio”. Il senso della mostra si inscriveva nell’idea di coniugare vecchie e nuove tipologie costruttive in un tessuto urbano che non dovrebbe evidenziare cesure e lacerazioni col passato ma svilupparsi nel tempo con armonica continuità.

Particolare impatto ebbero su di me le diverse porte ccû accìettu, alcune veramente particolari, messe in mostra da Enzo insieme a tanti altri elementi costruttivi, dalle tegole giganti munite di apposita apertura per farvi passare la canna fumaria alle svariate fogge di mattoni di terracotta per pavimenti. Da allora molte porte ccû accìettu sono state spazzate via dalla circolazione, molte altre sono state documentate prima che fosse troppo tardi. Talvolta qualcuna viene postata e magari si cerca scherzosamente di localizzarla. L’altra sera, una di queste, pubblicata su fb dall’amico mio carissimo Gioacchino Cannizzaro, ha spostato il fuoco della discussione sulla origine della parola accìettu sulla quale qui voglio ritornare.

Intanto bisogna dire che vi fu un tempo in cui in paese le porte ccû accìettu dovettero essere in numero confrontabile con quello delle case di civile abitazione. Le tantissime stalle, ma anche le modeste case, avevano tutte una porta d’ingresso di siffatta tipologia.

Per i più giovani e anche per i meno addentro a questioni etnoantropologiche va ricordato che âccìettu sarebbe lo sportellino posto al centro di questa particolare porta. La sua presenza aveva due funzioni: innanzitutto dare luce al vano terrano della casa, dove regnavano le tenebre perenni, ma anche di permettere la chiusura della porta dall’esterno sprangandola con uno o due nottolini interni – a Castelbuono chiamati natìcchi – che, scorrendo lungo le guide, penetravano nello stipite della porta. Se dovendo chiudere dall’interno non c’era alcun problema, perché bastava azionare i nottolini della porta e dello sportellino, per chiudere dall’esterno prima si doveva necessariamente annaticchiari la porta allo stipite, infilando il braccio nell’apertura, e poi chiudere a chiave lo sportellino, con quelle chiavi del peso di un quarto di chilo cadauna fatte appositamente dai chiavettieri per quelle antiche serrature piatte dette a lapazza.

Una porta ccû accìettu di un certo riguardo, se si può dir così, aveva lo sportellino bordato con una cornice sinuosa e, a volte, si allannava cioè si ricopriva con una lamina di lamiera fissata con chiodi. Caratteristica di molte porte ccû accìettu era u attalùoru, la gattaiola, un’apertura circolare di circa 12 cm di diametro praticata nella parte bassa per consentire ai gatti (ma anche ai topi) di entrare e uscire.

Ma, per esempio, la porta su cui abbiamo recentemente dibattuto, quella verde qui sopra, non ne aveva perché chiudeva un magazzino di formaggi, e in una situazione del genere u attalùoru avrebbe significato invitare a nozze gatti e soprattutto topi. In casi come questi accìettu veniva chiuso con una grata e, di conseguenza, bisognava tenere conto che non sarebbe stato possibile introdurre il braccio nello sportellino e chiudere la porta dall’esterno per cui bisognava munirla, come la nostra porta verde, di una serratura posta lateralmente affinché le mandate si inserissero direttamente nello stipite.

Molti, soprattutto della mia età e anche più vecchi, ricordano asini e muli affacciati allo sportello, a fare bella mostra di sé, un po’ come avviene coi cavalli nei box delle scuderie. Talvolta fugacemente si affacciava qualche viso di uomo o di donna. Stefano De Luca, in uno scatto del 1988, è riuscito financo a immortalare un gatto accovacciato, in equilibrio quasi indifferente, sul bordo dello sportellino.

Ma cerchiamo di fare luce sull’origine della parola accìettu. Innanzitutto va detto che nella Sicilia settentrionale il termine accìettu è attestato soltanto a Castelbuono, a Pollina e a Mistretta. Ovviamente una delle prime cose che viene in mente per spiegare l’origine della parola è il supino latino acceptum del verbo accipio ‘accetto’. Ciò connetterebbe immediatamente acceptum con accìettu rendendo questo elemento della porta funzionale ad ‘accettare chi bussa’. Insomma una sorta di ‘bussate e vi sarà aperto’ previo controllo dell’identità di chi è alla porta. Ciò pone, però, due obiezioni. La prima è che ‘accettare qualcuno’ a Castelbuono non è reso con accìettu ma con accittamìentu, come quando si ufficializzava il fidanzamento in casa della fidanzata (per es. assira cci fu âccittamìentu); la seconda è che sembrerebbe curioso che con quelle dimensioni accìettu potesse svolgere la medesima funzione degli spioncini delle porte degli appartamenti di oggi. Ma c’è di più. In una casa di quel tipo, e in quel tempo, nel corso della giornata, accìettu rimaneva sempre aperto per consentire, a chi della famiglia rincasasse, di entrare senza bisogno che scendesse qualcuno ad aprire, anche perché di quelle chiavi se ne possedeva una per tutta la famiglia. E ancora, per sincerarsi su chi bussasse, sia di giorno che di sera, ci si poteva affacciare benissimo alla finestra. In altre parole, questa funzione di reception, di portineria, è difficile pensare che âccìettu possa mai averla avuta.

Ma allora cosa c’è veramente all’origine della nostra parola?

Secondo il professore Giovanni Ruffino emerito di linguistica italiana, direttore dell’Atlante Linguistico della Sicilia, Accademico della Crusca, nonché fra i redattori del monumentale Lessico Etimologico Italiano, la parola si sviluppa nella Sicilia Sud-orientale, nella zona compresa fra il meridione della provincia di Siracusa e il licatese, su una forma accettu – occhietto – latino oculum – e si propaga sotto diverse varianti accetta, acchiettu, acciettu tutte col significato di ‘occhiello’, ‘asola’ oltre che ‘sportellino dell’uscio delle case di campagna, da cui s’introduce il braccio per azionare il paletto che chiude l’uscio dall’interno’. Inoltre, a Ragusa, acciettu è una ‘botola nel pavimento per scendere in un locale sottostante’. Dunque oculus, ocellus cioè occhio, occhiello, della porta. E se è vero che accìettu è troppo grande per essere un derivato dell’ucchìettu, letteralmente occhiello, è anche vero che a Ragusa nell’acciettu, cioè nella botola che immette in un locale sottostante della casa, non si sta accettando nessuno.

D’altra parte la sparuta attestazione del termine in questione in appena tre centri della Sicilia Occidentale, fra cui Castelbuono, conclude il professore Ruffino, deve essere interpretata non come una propagazione ma come un passaggio diretto per mezzo di gente arrivata da quelle parti, cioè come un prestito linguistico. Quindi accìettu sembra derivare da ‘occhietto’ e non da ‘accetto’.

E proprio perché la ricerca dell’origine della parola ha dato luogo a un impegnativo esercizio, non si può non chiudere questo pezzo con la simpaticissima quanto acuta considerazione dell’amico Giovanni di Liberti, noto ai più come Giovanni Gioia-mia, il quale quasi a suggello del dibattito sull’origine di accìettu ha affermato: «Pensa quanto sarebbe stato contento u mulu o u sceccu di tutta questa raffinata disquisizione affacciandosi di nn’accìettu».

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