U iùochî pignati, a vampa, e u manciar’i san Ciuseppi a pport’apìerti

(Di Massimo Genchi) – Anche se in via Sant’Anna vi era una chiesetta dedicata a san Giuseppe, che però il popolo chiamava san Cisippuzzu, successivamente sconsacrata e adibita a destinazioni d’uso fra le più diverse, da negozio di viveri a sezione del partito comunista a sala bowling, la chiesa consacrata al culto della festa di san Giuseppe, da sempre, è stata quella di sant’Agostino. In ragione di ciò, tradizionalmente, ogni anno come oggi, è stata festa ranni in quella parte del quartiere Cerasi delimitata dalla stecca di case della fine dâ Stratê Purpuri, il Cappellone, la strozzatura fra u canal’i pigna e lo slargo dove fu la loggia dei Guerrieri e il palazzo omonimo. Si parla, in altri termini, di quella zona che ricade sotto la giurisdizione di Liborio Noce il quale, non per niente, è universalmente riconosciuto quale sinnacu di Sant’Austinu.

Al giorno d’oggi, le adiacenze della chiesa, nei dì che precedono la festa, sono parate a festa e addobbate con archi di luci, accesi sul far della sera. Un tempo, soltanto la sera precedente la festa, ed era festa comandata, scritta in rosso sul calendario, i paraggi della chiesa si illuminavano con lucerne di terracotta ad olio, con lo stoppino, u mìeccu, che vi galleggiava come una zattera, sostenute da tavole sagomate, appese ai muri esterni delle abitazioni. Esse recavano «diversi sostegni per le lumere, disposte a disegno, e l’insieme di questa illuminazione ad olio rallegrava la vista e offriva un godimento come una piccola visione di un pezzo di cielo stellato».

La festa di san Giuseppe, da sempre assai sentita dal popolo, faceva registrare un gran numero di fedeli a sant’Agostino già dalle funzioni del primo mattino con la messa alla quale prendevano parte tutti i confratelli della congregazione di san Giuseppe, in massima parte legnaioli, boscaioli e bottai e alla fine, in sagrestia, era di prammatica una passata di taralli, viscotta, cafè e sfinc’i san Ciuseppi.

Si continuava a mezzogiorno ccû manciari i san Ciuseppi, sentita tradizione dell’Italia meridionale e insulare. «In molti paesi si usano allestire grandi tavolate di cibi riservate ai componenti di una mitica sacra famiglia: questi son rappresentati dai fedeli del paese oppure dai poveri. A Caltavuturo, a Polizzi, a Castellana le famiglie devote del santo usano invitare giovani o, in generale, persone non ancora sposate (partecipare al pranzo si dice perciò fari i virginieddi). A Gangi risulta diffusa una partecipazione molto più ampia, non soggetta a selezione, e il pranzo viene esteso a chiunque intenda parteciparvi nell’arco di tempo che va da mezzogiorno alla sera».

Ecco, da noi si faceva un po’ di tutto questo. Nel senso che le famiglie devote al santo potevano far’i virginìeddri, vale a dire organizzare un pranzo devozionale per i bambini più poveri del quartiere o per le orfanelle del Boccone del povero, ma potevano anche organizzare na tavulata invitando tutti i bambini del circondario. Il numero di invitati poteva essere rigorosamente fissato in numero di tredici oppure essere libero ma, come dicono le donne che li organizzarono, per giusta regola, i virginieddri si facevano con tredici commensali. Quando si voleva esagerare si organizzava u manciar’i san Ciuseppi a porti apìerti al quale chiunque – invitato o meno – poteva prendere parte, anzi prendere posto. E siccome allora non si andava tanto per il sottile, capitava spesso di mangiare anche in piedi, che poi è meglio per agevolare la deglutizione all’avido cannarùozzu.

L’ultimo manciar’i san Ciuseppi a porti apìerti che si ricordi, una edizione memorabile, fu organizzato diversi anni fa a casa di un notissimo politico di lungo corso per una sua personale forma di sdisòbbligu nei confronti del santo protettore dei lavoratori, essendo stato nominato assessore poco tempo prima. Successe non di rado che u manciar’i san Ciuseppi si organizzasse in strada, dove la tavolata si estendeva da cantinera a cantinera.

Ma cosa si preparava in occasione di queste tavolate? Diciamo che non c’era un menu canonico e, in definitiva, ognuno faceva ciò che più gli aggradava o poteva. Trasversale a tutti i menu era l’assenza di carne, la presenza dâ minescia maritata e delle arance. Ma anche sfinci di san Ciuseppi, cialde rotonde riempite e ricoperte con una crema a base di ricotta, zucchero, cannella e cioccolato.In generale, non mancavano i legumi: lenticchie e fagioli per condire la pasta. I fagioli, in particolare, si apprezzavano come condimento dû italìeddru e del riso, ma soprattutto delle tagliatelle, i tajjarini fatte in casa impastando acqua e farina e, una volta tirate, le foglie venivano rivoltate su se stesse più volte e affettate per essere poste ad asciugare, sparpagliandole sulle tavole cosparse di farina o appendendole alle canne. Ecco, i tajjarini ccû a fasola erano fra i piatti più frequenti del pranzo di san Giuseppe anche se non era difficile che come primo si preparasse a pasta ccû i sardi, se non altro per la presenza finucchìeddri e dî smuzzaturi che sono, insieme ê favi spicchiati, la base dâ minèscia maritata. Altro boccone ricorrente erano i sardi a bbaccaficu e i carduna fritti in pastella, specialmente con l’inserzione di filetti di sarda salata sminuzzati. Senza dimenticare u bbaccalà frittu. E soprattutto senza dimenticare la formosa Giusuppina, non propriamente una ca san Ciuseppi cci ava passatu ccû chianùozzu, cioè una ragazza col petto tutt’altro che piatto, piallato appunto. Giusuppina, titolare di una putìa i lùordu, bottega con vendita di prodotti a peso lordo, un negozio di generi alimentari, non passava inosservata nella scena pubblica del paese. Un giorno un chistianazzu tintu,un malizioso avventore, ammirando le pale di filetto di baccalà esposte ma alludendo chiaramente alla sua prosperosità, constatò: Giusuppì, nnô paisi bbaccalà comi u tua nuddru nn’avi. Ma lei, donna che si sapìeva cacciar’i muschi, lo spense al volo: Se, ma però di chissu vossìa un si nni mància!

Nel pomeriggio, la festa di san Giuseppe continuava in forma chiassosa nello slargo di sant’Agostino, per via dei diversi giochi popolari a premi che vi si svolgevano. Un gioco molto antico di cui si è completamente persa la memoria è u iùochî pateddri. Una moneta d’argento da cinque lire veniva attaccata sul fondo affumicato di una vecchia padella che pendeva da un filo oscillante. Il concorrente, tenendo le braccia dietro la schiena, doveva riuscire a staccarla con i denti ma intanto, durante i ripetuti tentativi, il suo viso si cospargeva di fuliggine. Era difficilissimo addentare la moneta anche perché i soliti lazzaroni, appena il poveraccio era lì per riuscirci, toccavano il filo e la padella si metteva ad oscillare carezzandogli il viso di nerofumo. Quando, infine, si erano divertiti abbastanza, si faceva in modo che il tale riuscisse nell’impresa. Allora quello, tutto contento, intascava la moneta, correva alla fontana di san Francesco, si lavava la faccia alla men peggio e sfrecciava verso la più vicina taverna per andare a investire la vincita. Fra gli ultimi accaniti partecipanti al gioco delle padelle vi fu uno fra i personaggi più popolari del secolo scorso, Marianu Piriddru che qui, oltre con la sua coppola alla Gatsby, è ritratto nel suo ordinario assetto da combattimento.

A parte la corsa nei sacchi, che nella peggiore delle ipotesi poteva riservarti una qualche caduta e qualche varvaruzzata sulle selci, altri giochi erano congegnati ad arte per aumentarne il grado di difficoltà ma anche per ridurre il partecipante in uno stato pietoso, oltre che inguardabile, per via del grasso, dû sivu, o dû sapuni mùoddru. Di queste sostanze si rimaneva unti, allorché si dava la scalata alla ntinna, l’albero della cuccagna, o si tentava più e più volte di ghermire i premi posti alla sommità dû tavulazzu, un piano inclinato abbondantemente cosparso di sostanze lubriche e per questa ragione chiamato anche sciddricalora.

Poi, all’imbrunire, dopo i giochi, l’appuntamento solito con la vampa, la luminaria di San Giuseppe. Nei giorni precedenti, grandi, piccoli, donne, tutti, ci si recava in campagna, nei fondi ai margini del paese, lungo i viottoli a reperire legna di tutti i tipi, mentre i contadini si occupavano di trasportare le voluminose fascine di sarmenti e la legna accatastata ormai da tempo, derivante dalla sbècchia, la pota pesante degli alberi. La sera di san Giuseppe se ne faceva una catasta da riempire tutto lo slargo, fino all’altezza delle finestre dei primi piani delle case circostanti. Quando finalmente si appiccava il fuoco, scoppiettavano i sarmenti e sfrigolavano le ramaglie e la vampata con le sue lingue si librava superando in altezza le case e «le faville e le lumachine, a mille e mille, si diffondevano verso l’alto e si disperdevano nella immensità del cielo; salivano in massa e si allargavano nello spazio, dando uno spettacolo tanto antico, ma sempre tanto bello, che infondeva una emozione di gioia, come di una conquista, un trionfo, della luce sul buio, del calore sul gelo; una vittoria dell’uomo sulla natura».

Ma, più di ogni altra cosa, l’attrattiva della festa di san Giuseppe era u iùochî pignati, che altrove, in Italia, è il gioco della pentolaccia. A una fune posta di punta e punta dal balcone di Liborio Noce a quello di fronte Vriulìeddri venivano sospese una dozzina di pentole di terracotta e, dentro ciascuna di queste, premi fra i più disparati: scarpe, indumenti, maglioni, calzettoni, cord’i sasizza ma anche cenere, circìeddri e acqua sporca. Come è noto, il gioco consiste, muovendosi a tentoni, a capo coperto o a occhi bendati, nel colpire con un bastone la pentola, cercando di fracassarla. Non era facile, e molto spesso si lisciava di brutto, anche perché, sovente, da uno dei due balconi, la fune veniva fatta oscillare, soprattutto se a cimentarsi era uno dei tanti sempliciotti del paese col quale ci si voleva divertire. A costui, i sadici sovrintendenti, che erano a conoscenza del contenuto, riservavano la pentola con l’acqua sporca, anche se poi lo facevano rifare con un’altra, magari quella con la salsiccia mentre i vestiti facevano in modo che se li aggiudicasse qualcheduno un po’ più indigente.

Fortemente focalizzata nei miei ricordi di bimbo è una edizione di metà anni sessanta dû iùochî pignati che si svolse sotto una pioggia torrenziale. Tutti gli spettatori assistettero riparandosi sotto l’ombrello, io – stoicamente – sotto la pioggia sferzante: mi l’assuppai tutta. Quando mio padre, dopo avermi cercato ovunque, mi rintracciò bello, friscu e pittinatu, lui di certo si risollevò, io, invece, fui sollevato da terra con due schiaffoni che produssero, nell’aere e dentro di me, un suono sordo come quello del bastone che frantuma il fondo della pignatta.

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