Una minaccia incombe su di voi. «Mih, quante StoriE state facendo»!

(Di Massimo Genchi) – Ridendo e scherzando e, talvolta, anche con qualche fugace e leggero passaggio nella seriosità, senza neanche accorgercene, abbiamo notato che CastelbuonoStoriE ha superato le settanta puntate. E chi se ne frega?, direte voi. Sì, giusto. Ma, a parte gli scherzi, riteniamo che questo appuntamento, leggero ma non leggiadro, che si è dipanato con periodicità assolutamente irregolare fin dal 2012, con tutte le pecche e le negatività che volete, abbia finito col rappresentare un momento di piacevole (o spiacevole, a seconda dei punti di vista e dei gusti) lettura su fatti, fatterelli, fattacci, comiche, del passato del presente e, qualche volta, anche del futuro, così, per abbondare, visto che, per dirla alla latina, melius abundente quam deficiente.

Allora, per festeggiare il traguardo, anche qui bizzarro: né cinquanta né cento ma posto a metà strada, quasi a spàrtiri a ddifferenza, abbiamo pensato di farvi cosa assolutamente sgradita, pubblicando in volume la stragrande maggioranza delle StoriE che avete avuto la bontà ma anche la pazienza di leggere, in buona parte.

Diciamo subito che tante cose sono state tralasciate, tante altre sono state aggiunte, altre modificate, altre ancora corrette per onor di verità. Abbiamo cercato di rinnovare anche il corredo fotografico con nuove e accattivanti immagini. Abbiamo voluto eliminare quella successione, generalmente casuale, con cui si susseguirono le varie puntate di CastelbuonoStoriE su CastelbuonoLive, cercando di accorpare i singoli racconti, se si può dir così, per macro argomenti. Non è stato per niente facile e non ci siamo riusciti del tutto ma adesso hanno un loro discutibile ordine. Diciamo che adesso siamo riusciti a creare se non proprio un ordine disordinato, almeno un disordine ordinato. Così, ci sarà un capitolo dove si parlerà di attività industriali, artigianali e imprenditoriali del passato, uno dedicato a varie tradizioni e consuetudini popolari, naturalmente tanti personaggi e (mis)fatti storici, e uno dedicato alle nostre pratiche culinarie tradizionali. Mancare non poteva una passeggiata nel nostro passato urbanistico, poi, ancora, la politica, naturalmente, e alcune storie per immagini.

Il libro, dall’inevitabile titolo «CastelbuonoStoriE», con l’affabile sottotitolo «passeggiata semiseria nel tempo per immagini e racconti», di cui potete vedere un’immagine della copertina provvisoria, sarà di grande formato, pressappoco A4, per riuscire a contenerlo all’interno delle 300 pagine. Rispetto alle puntate apparse su CastelbuonoLive sarà abbondantemente annotato, conterrà bibliografia, indici di luoghi e persone e tante altre cose ancora.

Ora la vostra domanda, facile facile, oltre che spontanea è: «Quando uscirà?». E la risposta altrettanto immediata è: «Non lo sappiamo». Vedremo. Quanto prima. Vi terremo aggiornati, che è sempre molto meglio di tenervi annottati. Ma dal momento che a voi deve essere già venuta a ngùlia, riteniamo farvi cosa gradita offrirvi un’anticipazione, costituita da un pezzo pubblicato su CastelbuonoLive il 3 giugno 2013, dal titolo pruriginoso Lessico politico castelbuonese che, rispetto all’originale, è stato in larga parte modificato non nelle gaffes ma nella struttura. Ma non preoccupatevi, nell’edizione cartacea troverete una versione ancora diversa e più aggiornata. Intanto, buona lettura e a presto

Lessico politico castelbuonese

Tutta la politica locale recente – sul modello di quella nazionale – si connota più che altro per le preziosità linguistiche che per i contenuti che è in grado di esprimere. Ma quand’anche si volesse prescindere dalla scarna sostanza, le forme, orali o scritte che siano, veri e propri florilegi morfosintattici, riuscirebbero a fare impallidire finanche Cetto La Qualunque, lo squinternato politico calabrese creato da Antonio Albanese più simile di quanto non si creda al politico medio di oggi, dalle Alpi alle Piramidi, dal Parlamento nazionale alle Amministrazioni locali.

Ed è la sfrenata cura della lingua nazionale, che fornisce la ghiotta occasione per affrontare un tema antico – quello degli strafalcioni – che ha stuzzicato e continua a stuzzicare la curiosità di molti.

C’è un libro di Guido Quaranta, grande giornalista de L’Espresso degli anni Settanta, significativamente intitolato Scusatemi ho il paté d’animo che raccoglie sciocchezze dette o fatte da politici, onorevoli, ministri, Capi di Stato più o meno importanti, conosciuti nel corso della sua lunga carriera di giornalista parlamentare. Quindi il problema degli schiaffi all’italiano è abbastanza vecchio. Chiaramente tutti abbiamo commesso delle gaffes o preso degli scivoloni lessicali ma – dice Quaranta – «ho sempre notato che molti sarebbero curiosi di sapere se dicono strafalcioni, prendono topiche o commettono gaffes anche coloro che ci governano, ci amministrano e fanno le leggi». E qui c’è da dire che alcuni gaffeurs di oggi , o forse molti, Quaranta ha avuto la fortuna di non conoscerli. Beato lui!

Confesso che, al pari di Quaranta, sono stato contagiato da questa curiosità e, ci fu un tempo in cui mi dedicai con sincero trasporto a raccogliere diversi aneddoti, autentici e anche piuttosto divertenti, altri mi sono stati passati dal mio amico Gioacchino Cannizzaro.

Ho cominciato a scuola, grazie a una preside che, da sola, con le sue perle linguistiche, avrebbe contribuito a redigere un bestiario in due volumi.

Diede fuoco alle polveri con una lapidaria lettera alla segretaria, andata in ferie un paio di giorni prima, di questo tenore: «La signoria vostra è pregata di riassumere servizio per motivi di servizio» e non si fermò più, al punto che non fu possibile raccogliere tutti i suoi preziosismi linguistici per via della frequenza folle alla quale si succedevano. «Preside, in che aula ci mettiamo per questo incontro?», chiesi un giorno. «Professore, non faccia domande importune, classi ce n’è ad abundans». Naturalmente, sorvolando su classe sinonimo di aula e sull’importuno che già importuna da sé, è da osservare che da laureata in lettere qual era, sapeva meglio di chiunque altro che la preposizione latina ad regge… il nominativo (come no!). E nel corso di un collegio dei docenti, dove ci si stava snervando per via del solito rimuginare da parte di alcuni colleghi su beghe e ruggini passate, esplose: «Qua facciamo sempre pestare il mortaio, mentre il professore (arrivato, ahi lui, da pochi giorni in quel paradiso) vuole sapere una retroguardia di questo discorso». La retroguardia, naturalmente, per noi che conoscevamo bene il suo lessico, era un resoconto.

Altre perle mi è capitato di raccoglierle in giro. Un più che noto personaggio della piazza, ormai appartenente al passato quasi remoto, aveva la rara capacità di imbastire frasi con termini di significato iperbolicamente improprio. Il top fu raggiunto allorché disse: «I medici, dopo avermi visitato, hanno fatto la loro diocesi». E a una cliente che si mostrava un poco scettica per via del colore giallo, decisamente vivo, di una camicetta le disse: «Signora, ma guardi che quest’anno il giallo è in grande vigore». Quasi fosse una legge. Ma se il nostro caro personaggio della piazza non poteva badare a una sì minuscola sottigliezza. Per contro, tanti anni dopo, un consigliere comunale con tanto di laurea, a proposito di un certo provvedimento che era all’ordine del giorno, si espresse dicendo che il Consiglio, cioè noi, «non possiamo legiferare in tal senso». Se è per questo, in nessun senso, visto che il consiglio comunale non legifera. Ragione per la quale, in ordine all’arco temporale in cui rimane in carica un consiglio comunale, non si può parlare di legislatura, come nel caso dei vari Parlamenti, ma di consiliatura.

Che poi un navigato politico autoctono continui a parlare di legislature per collocarvi determinati deliberati di giunta e di consiglio, è in perfetto accordo di fase con l’argomento di cui si parla. ma anche coi politici che ci amministrano.

La legislatura 1985-90, come direbbe l’appena citato politico di lungo corso, fu l’ultima per l’ingegnere Guarcello, che era stato anche sindaco fra il 1968 e il 1969. Una sera, durante una seduta consiliare di quel quinquennio, che per il «restauratore delle sorti» di questo paese rappresenta l’Anno Zero della storia e l’uscita dalle Tenebre eterne, l’ingegnere si produsse in un intervento iper tecnico sulle briglie del torrente San Calogero. Quando ebbe finito, l’anziano consigliere, spossato a seguito di una lunga giornata di lavoro a Palermo, si mise a sedere e si appisolò. Seguirono altri interventi sul tema, finché fu la volta di un consigliere, ancora in erba ma che già allora mostrava di dominare perfettamente la lingua italiana, il quale così esordì: «Come ha detto l’ingegner quasi Guarcello…». L’ingegnere, a quelle parole, aprì di colpo gli occhi, aggrottò le sopracciglia e disse abbastanza contrariato, brandendo l’indice destro ben teso: «Senza quasi». E si riappisolò. Per l’altro, invece, quella sera, si inaugurava una lunghissima stagione di infuocati flirt con la lingua italiana.

Ma i terreni di coltura ideali degli strafalcioni, la loro culla naturale, sono senza dubbio i comizi. Un oratore dalla voce suadente e pastosa, oserei dire erotica, quasi un Frank Sinatra de noantri, trasportato dall’enfasi per la profondità del concetto che stava esprimendo, lì, ai quattro venti, â Chiazzannintra, disse testualmente: «Io ho colto in quel suo dire ciò che ho colto tante altre volte all’inizio di una rivoluzione sociale. Io vi ricordo che Vycpalek s’è dato fuoco a Praga». Ora Cestmir Vycpalek diede fuoco sì, ma ai cuori dei tifosi della Juventus, infiammandoli, allorché vinse due scudetti consecutivi, nel ’72 e nel ’73, mentre il giovane studente che si diede fuoco in piazza San Venceslao a Praga nel gennaio 1969, in verità, si chiamava Jan Palach. La differenza è minima ma sostanziale. Financo un fine dicitore, sia pure a suo dire, un dottor sottile, anche se il suo cognome non è Sottile, insomma un maître à penser, uno dei decani dei comizi, una sera, fu indotto in errore dal diletto microfono. Presa la parola, si accorse che il dannato gracchiava maledettamente per cui, rivolto al pubblico, si sentì in dovere di giustificarsi: «scusate ma qui c’è cacofonia».

Certo, cu un ci passa un ci cridi, ma salire sul palco e misurarsi con un microfono che sembra dirti: avà, parra! e migliaia di sguardi puntati addosso deve essere un’esperienza che sega le gambe. E qualcosa del genere deve essere accaduto a un oratore, definiamolo pure così, che, abbrancato con foga il microfono, a tutta prima riuscì a profferire una mezza dozzina di parole più o meno alla rinfusa ma già alla settima, finalmente, se ne era liberato dicendo: «Passo la parola perché non riesco a connettere il mio pensiero». La piazza dei comizi, poi, è una brutta bestia, sia quando è vuota, sia – soprattutto – quando è stracolma. Così una sfolgorante oratrice, chiudendo la campagna elettorale, al cospetto di una folla traboccante si sentì in dovere di esternare tutta la propria smisurata letizia per il fatto di parlare a quella piazza «così grèmita di gente». Ovvio, quella parola è piana, lei la rese sdrucciola e scivolò. Ma senza spalmarsi troppo sul lubrico suolo. Invece, qualche mese dopo, sempre â Chiazzannintra ma non in un comizio, un suo insigne collega, forse perché convinto che l’accento, in definitiva, è meglio posporlo che anteporlo, a proposito dell’arredo natalizio appena approntato, ebbe a dire, soddisfatto della realizzazione: «Abbiamo dato un colore aùreo, perché il cielo stellato è di colore aùreo». Effettivamente Kant rimase affascinato dal cielo stellato sopra di proprio per il suo colore aùreo. Complimenti e aùrii.

Ma non è solo â Chiazzannintra, da sempre crogiuolo di accese tenzoni politiche, che si ha il grande privilegio di sentire il Padre Dante che con il suo paterno dire rassicurante garantisce che «con la nostra azione politica non dobbiamo dare alito ad insinuazioni», soprattutto se non ci siamo lavati i denti. Ma anche l’informatissimo politologo della piazza, con tutta l’autorità del caso, sui possibili candidati del centro destra, che sentenzia: «il nostro Collegio elettorale è frainteso fra la Vicari e Miccichè». In effetti non è difficile fraintendere né l’una né, soprattutto, l’altro, specie quando, com’è suo solito, è sceso in pista.

La prosa aulica e la voce calda, suadente, quasi erotica abbiamo detto, di Frank Sinatra, dopo avere ammaliato i suoi concittadini, ha valicato gli angusti confini del paese, trasvolato l’Atlantico, giungendo a inebriare anche i nostri compaesani di Little Italy: «Cari castelbuonesi d’America noi siamo ai settimi cieli per essere qui con voi, stasera». E così, di perla in perla, fino ai brillanti: «il Centro Civico è il nostro punto di diamante». Certo, punta di diamante se ‘centro’ fosse stato di genere femminile. Ma forse no.

Attingendo allo sterminato repertorio di un illustre consigliere del recente passato, autentico mago della citazione, riconosciuto purista della lingua, mai un termine ibrido utilizzato, un Umberto Eco, insomma, si può dire, «a posteriori e non ad anteriori», che quella fu veramente una stagione irripetibile. Per fortuna di molti.

Infatti, come si può leggere in una relazione vergata dalla ispirata penna di Padre Dante, massimo artefice di quel formidabile ventennio, una sorta di Rinascimento tutto nostro: «Noi non siamo stati mano nella mano» – evidentemente non erano ancora fidanzati – «Ci siamo mossi, abbiamo attenzionato la pratica con grande parsimonia», significa a picca a picca, «Abbiamo presentato un cospiquo parco progetti», qui deve essere successo un «qui quo qua», ma «abbiamo nominato un commissario ad hacta» e «sul lavoro nero faremo una brusciù». A parte hacta, con «l’acqua» aspirata, non risulta che sia mai stata fatta alcuna «brusciù» ma il lavoro nero c’era e c’è, anche più di prima. è fra le nostre eccellenze, anzi fra le buone pratiche.

Nel corso della discussione in Consiglio sulla medesima relazione, il consigliere, conclamato mago delle citazioni, Umberto Eco, così argomentò: «Ci sono aspetti legati al carattere caratteriale di ciascuno di noi, ma in queste cose ci vado a lume di candela». Era un romanticone, Humbert Humbert, se è per questo anche un tombeur de femmes, in gioventù. Ma lui, senza alcuna ombra di peccaminosità, diceva trombeur de femmes. E quando imboccava la discesa era come le cascate del Niagara: «E questi fatti, detti a verb volant mi sembrano un inciucio di impulsività. Perché, come ha detto il collega praticamente Città, per parlare bisogna avere presente il collettivo cartaceo [l’insieme delle carte n.d.r.]. Mi scusi, consigliere, ma era scevro da me di volere fare polemica». Volendo sintetizzare: più strafalcioni in tre righe che granelli di sabbia sulle spiagge di Honolulu.

Parlare in pubblico costituisce pur sempre un rischio, anche per chi ha alle spalle robusti studi. Così in occasione della ricorrenza del 550° anniversario dell’arrivo della reliquia di sant’Anna a Castelbuono, fermo restando che, durante la preparazione dell’evento, si sentì un intellettuale parlare dottamente di «raicula», un amministratore ebbe a dire: «Ci siamo mossi per intercettare la casa madre». Per carità, niente di divino. Ma qualcuno lo pensò davvero, avendo quell’amministrazione le carte in regola per arrivare in cielo e dare del tu anche al Padreterno. Invece, ci si riferiva ai contatti che avevano cercato di instaurare con l’Ordine delle Figlie di Sant’Anna. Quando, subito dopo, Padre Dante aggiunse che il clou della manifestazione sarebbe stato nella «Cappella Paladina» tutti capirono a che cosa si stesse riferendo, a parte qualcuno che in cuor suo sinceramente pensò all’Opera dei pupi.

è noto che, tempo fa, in Consiglio comunale, tenne banco, a lungo, la drammatica questione della discarica e dello smaltimento dei rifiuti, che sarebbe stata risolta tempestivamente e con precisione chirurgica come trionfalmente comunicò Padre Dante: «Castelbuono in tal senso si sta operando con delle iniziative». Forse un tentativo di medicina omeopatica. A scoppio ritardato fu interrotto da John Locke, padre del neoliberalismo, un consigliere, diciamo, sempre un po’ fra le nuvole, per non dire altro: «Ma le iniziative che lei parlava quali sono?». «Consigliere» – rispose Padre Dante – «La Provincia l’avevo invitato ad essere super partel, ma non è stato così. Noi, comunque, dai rifiuti faremo la concime e la devoliamo a chi ne farà richiesta». Concime che ha cambiato sesso è certamente commovente ma il verbo devolare fece risuscitare Modugno: Devolare, oh, oh! Decantare oh, oh, oh, oh!

Il problema vero, però, era e rimaneva quello della discarica. Un consigliere di opposizione, per rimarcare tutta la gravità e l’urgenza della questione concluse il suo intervento dicendo: «Il problema deve essere risolto, non si può indurre più». Effettivamente bisognava che ci si liberasse dal male e così sia. E siccome in quel consiglio si era alquanto cooperativi, un collega di parte avversa, un socialista rivoluzionario, una specie di Proudhon, propose costruttivamente: «Sediamoci su un tavolo», proprio sopra il tavolo, «e discutiamo sulle soluzioni possibili» e un compagno di schieramento, rivoluzionario almeno quanto lui, rinforzò la dose, temendo che i lavori consiliari si inceppassero, fu lapidario: «Sì, dobbiamo uscire da questo inceppo». Ma un furibondo Umberto Eco esplose contrariato: «Colleghi!, in questo Consiglio si lavora sempre a runfare. Qui ci stiamo cervellando su questo discorso. La verità è che l’Amministrazione in questa vicenda sta andando molto a tampone». L’Amministrazione, che a dire il vero non runfava mai, sempre in anticipo su ogni tempo della storia, stavolta aveva addirittura anticipato il Covid di quasi venti anni. Questo perché, chi di competenza, ci vedeva bene già allora, pur senza visiera.

Chiaramente il problema della discarica era legato all’impatto ambientale perché, rimarcò John Locke, «Se si fa un grosso impatto il rischio che si corre è che la struttura vada in collasso e se la struttura vada in collasso…». Aveva il congiuntivo facile, quello lì. Anzi la congiuntivite. Ma Proudhon, amico di sempre, intervenne prontamente in suo sostegno: «Quello che dice il collega è vero, perché sono stati pavimentati seri rischi in tal senso». Ed in effetti mentre lo diceva si trovava fra soffitto e pavimento, non c’è dubbio.

Quando è capitato di dovere fare riferimento ad aspetti della fisica, ciò è accaduto fortunatamente solo rare volte, nell’aula consiliare è stato buio pesto. Una volta si sentì il dottor Balanzone affermare, come se fosse il nipote di Rudolf Hertz, che «l’antenna trasmette con la potenza di 6 ohm al metro» mentre è noto a tutti che qualsiasi potenza si misura in Watt. Frank Sinatra, subito dopo, facendogli quasi il controcanto, pratica canora nella quale era insuperabile, avvertì che «per attivare quel defibrillatore c’è un voltaggio di tantissimi Ampère», la qual cosa dimostrò ampiamente che fra amperaggio e voltaggio in quel «Concesso», come lo aveva felicemente definito «il Tristo» non ci si trovava per niente a proprio agio.

Ma, a parte le insidie tese dalla fisica, è sempre la lingua italiana a mietere il maggior numero di vittime. Una sera, a presiedere l’assemblea consiliare, fu chiamato un consigliere assai prossimo nelle sembianze al neurofarmacologo Vittorino Andreoli, che diresse i lavori ben bene, fin quando non si rese necessaria una sospensione tecnica della seduta, che così venne annunciata: «Prima di andare in pausa vorrei dire una cosa». La disse e stranamente la sintassi non sussultò. Poi, alla ripresa della seduta, dal momento che molti indugiavano «sulla sogliola» della porta d’ingresso, il dottore Andreoli li richiamò: «Si invitano i signori consiglieri a prendere posizione». Presero posizione, nel senso che ognuno sedette al proprio posto, ma dal momento che le varie posizioni sul punto da votare erano distanti, in aula continuarono a parlare a gruppetti e il mormorio produceva un fastidioso rumore di fondo che disturbava il parlare di Andreoli il quale, a un certo punto, sbottò: «Signori consiglieri, silenzio! Qui state facendo troppo cacileccio!», interpretabile solo e soltanto come metatesi di cicaleccio.

Nel corso della stessa seduta, prese la parola il dottor Balanzone che solitamente parlava unplugged, cioè senza microfono. Andreoli tirando fuori tutto il repertorio di ossequi che di solito gli riservava, per non farlo tramazzare, gli disse dolcemente: «Prego, consigliere, si avvalga del microfono perché non si sente» e quello al primo come persona accorta: «No, grazie presidente, non c’è bisogno, sa, io ho la voce ridondante». Per quanto si cercò di interpretare e poi di interpellare Padre Dante, Umberto Eco e altri periti di madre lingua, nessuno riuscì mai a capire cosa diavolo si dovesse intendere con questa voce ridondante.

Sull’efficienza delle commissioni consiliari, intervenne a più riprese «il Tristo» che, a dispetto del nome, era un baldanzoso consigliere il quale assicurò che la commissione di cui faceva parte aveva «esautorato il suo compito», una frase che avrebbe fatto la felicità di ogni filosofo del linguaggio mentre un suo collega, che pur non avendo preso parte ad alcuna intifada, solo per non essere da meno, si impegnò seriamente a «scagliare una pietra in favore delle commissioni». Lo fece, e finì bene perché dopo il lancio non si registrarono feriti.

Sul tracollo dell’agricoltura e della pastorizia rimase memorabile il laconico de profundis pronunciato da Proudhon: «Il mondo silvio pastorale comincia a scemare». Su ciò venne immediatamente chiesto l’autorevole parere tecnico di un collega dell’altro schieramento il quale, essendo stato preso alla sprovvista, annaspò: «adesso non so che dire perché non ho preso appunti ma se mi chiedete, sono disposto a rispondere a seduta stante». In questo clima da Parnaso italiano anche i meno avvezzi allo strafalcione finirono col farsi contaminare al punto che un consigliere che non sbagliava quasi mai finì col dire «Questo è un acronisticismo». Evidentemente anacronismo gli sembrò un termine un po’ rozzo in quell’esclusivo salotto letterario. Ma riuscì anche a fare peggio quando citò il ghibellino Farinata facendolo, però, discendere dagli Umberti. Probabilmente perché, essendo un po’ incline al duce e al re, gli piaceva pensare che anche Farinata appartenesse a casa Savoia.

Le tante sedute consiliari dedicate allo spinoso problema del Piano Regolatore si svolsero tutte in un clima particolarmente arroventato nel quale proliferarono strafalcioni di ogni sorta. Partì John Locke che avvertì: «Guardate che questo Piano Regolatore è come una donna incinta, poi nasce il nascituro e nasce deformato». In effetti il nascituro che nasce può esser considerato una mirabile esplicazione del concetto di ‘potenza e atto’ senza dire che tutte le donne gravide, statisticamente, danno alla luce figli deformati.

Al che Frank Sinatra dai banchi governativi si sentì di rintuzzare in la bemolle: «Lei può dire quello che vuole, ma io condivido prettamente la politica che questa amministrazione sta facendo sul P.R.G.». Fra gli innumerevoli avverbi utilizzati da Cetto La Qualunque, quello vero impersonato da Albanese, ‘prettamente’ non deve essergli mai passato per la mente. Al che John Locke ribatté: «Io penso di essere stato calpestato nei confronti dei progettisti che hanno disatteso le aspettative del consiglio e dei cittadini. Noi ora possiamo fare molto di meglio». Ed effettivamente molto di meglio fece il presidente del consiglio il quale, giustamente, invitò i consiglieri ad essere concisi negli interventi. Ma non disse «siate circoncisi», come chiunque, a questo punto, starà pensando, bensì «siate coincisi», che è una bella variazione sul tema.

L’argomento P.R.G. richiese, naturalmente, anche un lungo e appassionato lavoro in commissione. Qui, si parlò di «Quartieri ad alta intensità abitativa» e di piano particolareggiato che «Quando lo andremo a determinare, lo determineremo con tutti i carismi», sentenziò Umberto Eco, che carismatico lo era davvero. Vi fu qualche elogio, segnatamente di Frank Sinatra nei confronti di un componente la commissione: «L’architetto è sinergico nel ragionamento» e di Padre Dante verso un consigliere che «ha dovuto intermediare» fra le parti. Per il resto furono soprattutto scontri, senza sconti per nessuno. «Il Tristo», presentò una proposta che l’opposizione respinse e per questo Frank Sinatra accusò: «Sul piano regolatore voi state facendo il gioco del nascondiglio». Al che, il solito Umberto Eco, dotto semiologo, ribatté: «Lei non sa neanche quanto è lunga la O col bicchiere» che in effetti era un complicato problema di rettificazione della circonferenza. A quel punto, «il Tristo» si sentì in dovere di precisare: «Il consiglio non è un Concesso (lo disse di nuovo) dove poter fare questi discorsi», a cui fece eco Umberto Eco dicendo: «se lei mi reguardisce, quando sarà il mio turno farò le mie contradeduzioni». Allora «il Tristo», capendo di essere stato in qualche modo responsabile del pandemonio che si stava accendendo, cercò di sedare gli animi dicendo: «Scusate, io avevo una proposta e l’ho eternalizzata, cioè esternalizzata». Poiché non si trattava esattamente del primo errore in assoluto, qualcuno sghignazzò in maniera irriguardosa, con gli stessi titoli del bue che dà del cornuto all’asino, mentre Proudhon, pur senza essere un socialista scientifico, ma un pragmatico sì, propose: «collega, non me l’avere a male, vediamo cosa dice il Zanichelli».

E a quel punto fu chiarissimo che era notte fonda e non c’era altro da aggiungere. Rassettarono baracca e burattini, spensero la luce e avvertirono casa di buttare la pasta in pentola, ma essendo ancora completamente presi dal prolungato e impegnativo esercizio linguistico, naturalmente comunicarono: «Cala la pasta». Purtroppo non sapremo mai se quella sera, a cena, solo per mettere in atto i ripetuti appelli del compagno socialista rivoluzionario, con i rispettivi familiari, quella pasta la mangiarono «seduti su un tavolo».

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