Ypsigrock 2015, abbracci folli, albe in musica, gioielli sparsi e “cose”

[ponteradiounical.it – di Danilo Russo].

Foto di Laura Tota

Amicizie nuove, baci sconosciuti, sorrisi che splendono da lontano. L’Ypsigrock è un esserci tutti, un riconoscersi in musica; è un ritrovarsi in un unico folle abbraccio. Perché, diciamolo pure, questo festival è folle.
Per i nomi che riesce a portare, per il posto in cui si svolge, per l’esplosione d’amore che sprigiona inconsapevolmente.
Bastano pochi giorni e l’anima si fa più grande e la memoria si riempie di suoni, colori e storie da raccontare.
Ti può capitare di vedere l’alba dopo aver respirato tutta la notte un cielo stellato; piangere per un pezzo suonato dall’artista che stavi aspettando e che non immaginavi potesse darti tanto. L’Ypsigrock è pieno di sorprese ed è uno di quei festival che ce la fa sempre, nonostante le polemiche per la scelta di qualche gruppo o il calo di presenze registrato nella prima giornata. E poi c’è Castelbuono e i suoi “giovani” abitanti.
Appena arrivi trovi un paese accogliente, pieno di scorci antichi e anche di fontane, tende da sole, vecchie che danno le spalle alle tende da sole, vecchie affacciate alle finestre o nell’atrio delle loro abitazioni e vecchi che giocano a tressette. Tra le vie e le salite, alcune talmente irte che per percorrerle ci vorrebbe una guida sherpa, si aggirano tanti soggettoni ed è bello il contrasto che ne esce con gli abitanti del posto.
Il festival è anche questo. Ma è soprattutto musica.
Giorno 1

 

Kush (foto ufficiali di Roberto Panucci)

Chiostro San Francesco, è lì che è stato allestito il palco secondario del pomeriggio. Ad aprire le danze Kush, giovane musicista siciliano che dichiara, con il suo sound elettronico, il mood principale di questa edizione. Un sound che esce fuori da una placenta interstellare e che sembra raccontare un parto in musica immateriale.
Non hai il tempo nemmeno di gioire per la nascita di questo piccolo essere galattico, che sei già precipitato in una foresta tropicale, con un cielo nuvoloso e un vento in cui si perdono chitarre cupe, mentre aspetti di innamorarti per sentire l’orologio della tua anima girare a vuoto, senza lancette: sono i Be forest. E tu hai la percezione di stare nel posto giusto, in una dimensione felice.

Be Forest

Temples

Ore 21:30, i suoni lontani di un castello in festa, i giri armonici e le linee melodiche psichedeliche dei Temples, sono colori sussurrati che ti cascano addosso come pezzi di vetro, come raggi di sole di un passato che si riflette ancora.
L’esibizione degli inglesi finisce e il fermento è alto. La storia del rock sta per arrivare.

The Sonics (si ringrazia Alessia Naccarato e L’indipendente)

I The Sonics, band nata negli anni 60, scioltasi e poi ritornata insieme per pubblicare un disco dopo 35 anni, sono dei ragazzacci. Pazzi precursori all’epoca del garage rock, punk e hard rock.
Con le loro camicie discutibili, parlano tra una canzone e l’altra parecchio con il pubblico, ma questo è l’inconveniente dell’avere una certa età. L’altro inconveniente è che loro una certa età non se la sentono affatto e così suonano, facendo scatenare tutti. C’è stato il vero rock end roll old school, e non aggiungiamo di più perché chi c’era sa ed ha anche pogato.
Qualcuno rimasto senza fiato, che pensava di recuperarlo con i Battles, si sbagliava di grosso. Virtuosismi folli, accordi dissonanti, batterie insolite e difficilmente comprensibili.

Battles

Post punk, math rock, progressive, è un suono che ti entra dentro solo per destabilizzarti e allora puoi schifarlo o innamorartene per sempre e non riuscire ad ascoltare altro per un po’. E poi c’è stato lui John Stanier, batterista che come l’Atlante della mitologia greca ha sorretto il peso di un esibizione grandiosa. Condottiero di un plotone di combattimento che spara bombe atomiche. Quando si dice chiudere col botto.

Giorno 2
È un post rock sperimentale che strizza l’occhio a gruppi come gli Explosion in the sky. Giovani e bravi, il quartetto milanese Younger and better ha un suono che picchia duro ma che è perfettamente equilibrato.

Younger and Better

L’anomalia del chiostro comunque non sono loro ma l’anticipazione del concerto di Bepolar Sunshine costretto, per un inconveniente, ad esibirsi senza band. I suoi brani sono un’onda fluida che ti trasportano in mezzo al mare estivo facendoti pensare che la vita possa sistemarsi e i problemi quotidiani andare via.

Bepolar Sunshine

Nella serata invece i The Kbv si guadagnano il palco principale, lo reggono ma non totalmente. Intimisti e trasognanti sono loro che si astraggono per portare su un piatto scarno, emozioni e segnali interrotti da distorsioni perpetue e continue.

The Kbv

 

East Indian Youth

L’asso però è East indian youth. Uno in giacca e cravatta che sul palco si quadruplica e ti lascia a bocca aperta per l’energia del suo synth-pop romantico e di quell’elettronica sentimentale ma non smielata. Sono visioni celestiali e vortici di corse spaziali prodotti dalle dieci dita di un uomo che sostituiscono un’intera band.
Subito dopo a travolgere il pubblico del castello arriva un misto di folk, synth pop, rhythm and blues. Quella dei Metronomy è una dimensione persa che si innesta in un presente di suoni che sono soltanto loro. Una marcia trionfale di un passato d’avanguardia che si proietta nel nostro presente e che li vede stranamente attuali nel loro anacronismo. Hanno fatto divertire concedendo il primo bis dell’edizione.

Metronomy

Giorno 3
La delicatezza di Rhò e il suo elettrofolk elegante, fa sentire la nostalgia di ciò che sarà, preludio della fine di una viaggio in musica riuscito anche quest’anno. Acustica pulita e curata volta a valorizzare gli archi, riusciva a rimandare ad atmosfere nordiche tanto che per vedere l’aurora ti bastava chiudere gli occhi.

Rhò

 

Hinds

Il momento successivo è stato delle spagnole Hinds. Musica Lo-fi e garage band con un animo adolescente. “Credevano di essere delle teenager” e musicalmente forse lo sono ancora. Nella serata Colapesce presenta La distanza, graphic novel disegnata da Alessandro Baronciani e scritta a quattro mani che parla di musica e di amore, di insicurezza e di felicità precarie.

Colapesce

Nell’atrio del castello poi il cantautore ha improvvisato un mini concerto acustico.

The fat white family

The fat white family sono blues e psichedelici, sono rock e squinternati. Suoni precari messi insieme senza preoccuparsi del risultato. Il loro stile musicale è un lasciarsi andare senza un’identità definita. Hanno spinto parecchio. Durante il concerto, sarà stato per il caldo, sarà stato per la droga, sarà stato il fatto che Iggy Pop ha fatto scuola ma non ha avuto buoni allievi, Lias Saudi, front-man del gruppo, si è tolto il pacco di fuori e l’ha mostrato a tutti. L’argomento in qualunque modo lo si tratti suscita polemiche quindi riportiamo soltanto le diverse scuole di pensiero nate nel pubblico e riassunte in poche parole.
Tra queste:
1) “ Il cazzo è rock”
2) “Pensate ai bambini, qualcuno pensi ai bambini”
3) “Saranno una grande famiglia ma l’arnese non lo è tanto”
4) “Se lo poteva risparmiare”
5) “Chissà che starà facendo Paolo Brosio in questo momento”

Levatoci il pensiero, parliamo di chi forse quest’edizione l’ha cambiata.

The Notwist

I The Notwist hanno confermato che su quel palco possono avvenire cose che riescono a farti commuovere. Una melodia cosmica, un’elettronica ipnotica, minimale. In altre parole è la musica giusta per guardarsi dentro, per farti ballare con qualcuno che ha un’anima simile alla tua.
Sono incontri di emozioni che passano per malinconici sguardi e suoni sussurrati. Così diventi il colore, la rotazione, il movimento di quest’esistenza precaria e ti ricordi di sconfiggere i dolori con un sorriso.
Difficile venire dopo un live bello come una piccola pietra preziosa, un punto luce da portarsi dentro per sempre. E invece sono arrivati loro: i Future Islands.

Future Islands (Foto Alessia Naccarato testata L’Indipendente)

Con l’energia che non ti aspetti, con una valanga di suoni corposi, ferrosi e leggeri come nuvole. A parlare di sogni, di amori lontani, di solitudini da allontanare e cambiamenti ciclici che ti fanno perdere e rinnovare… e saltare.
Insieme ad un folla urlante, Samuel T. Herring si batteva il petto per portarsi un po’ di quella piazza nel cuore. Ed i brividi a scrivere di queste cose e a ricordarle sono tanti, che sembra essere passata una vita ed invece è trascorso appena qualche giorno.

Ypsicamping

 

Foto di Peppe Rocca

C’è chi ha scritto parole e chi ha danzato con esse. C’è chi se n’è andato pur rimanendo ovunque. Con i suoi articoli, con la bellezza e l’umanità della sua persona. C’erano due grandi baffi che sorridevano al Ypsicamping quest’anno e Stefano Cuzzocrea non si è perso nemmeno questa edizione. C’è stato e ci sarà ancora per sempre con il suo palco che è stato il primo e l’ultimo a suonare. Che ha ospitato i DYD, Clap clap e la musica fino all’alba di Fabio Nirta e Robert Eno, due che la consolle non la lasciano nemmeno con le cannonate.

Foto di Peppe Rocca

Perché ogni notte dopo i concerti, in quel Parco delle Madonie, ritmiche tribali e pezzi che hanno fatto la storia della musica si intrecciavano per far ballare tutti. Ci si rivedeva per scherzare e per perdersi.

Foto di Laura Tota

Era l’abbraccio dei pugili dopo l’incontro, insieme ad un milione di altre “cose” che non si possono raccontare.

Fonte: ponteradiounical.it – di Danilo Russo

Foto di copertina: Laura Tota

Iscriviti per seguire i commenti
Notificami

0 Commenti
Inline Feedbacks
View all comments
0
Cosa ne pensi? Commenta!x