Ypsigrock, alta sensibilità e contaminazioni new wave

Non ce la facciamo neanche stavolta. Il traffico pre-ferragostano cefaludese è qualcosa di apocalittico. A una pompa di benzina la gente è lì lì per prendere a calci la colonnina del self service: ha mangiato i soldi a qualcuno. Passiamo. A un’altra, l’ingorgo di macchine è un groviglio impenetrabile. Non ci proviamo neppure. Decidiamo di fare benzina direttamente a Castelbuono e visto il ritardo prendiamo l’autostrada pensando di essere molto furbi. Epic fail. Al casello mezz’ora di coda. Alla fine, per velocizzare le cose e decongestionare il passaggio, gli uomini Anas sono costretti a fare passare tutto un lungo serpentone di auto – noi compresi, per fortuna – senza riscuotere il pedaggio.

 

Arriviamo in paese che sono le nove e mezza passate. I VeneziA che tanto ci incuriosivano ce li siamo persi, hanno suonato prestissimo, alle otto e mezza, e per poco più di venti minuti, ci dicono. Su di loro restano giudizi contrastanti. Quando arriviamo in piazza Castello sul palco ci sono i Did (di loro avevamo apprezzato il primo album “Kumar Solarium”, 2009), che stanno finendo. Stanno finendo la batteria.

 

Cambio strumentazione e tocca agli Shabazz Palaces, ovvero Palaceer Lazaro (vero nome Ishmael Butler, negli anni Novanta nello storico trio jazz hip hop Digable Planets con il moniker Butterfly) e Tendai Maraire. Il loro esordio “Black Up” (lo streaming integrale del disco sul canale Youtube dell’etichetta Sub Pop http://youtu.be/67cx9M2c51M) è stato uno dei dischi rivelazione del 2011. Ma stasera prevale la sensazione che siano – semplicemente – un po’ troppo fuori contesto. Armati di laptop, pad, paddini, bonghi e un miniset di batteria e percussioni, ci provano a pompare, tra spoken e rapping vero e proprio, con il loro dub hip hop – che diventa afro hop, che diventa uno scuro e oscuro doom hop – ma, complice un’amplificazione che spara i bassi troppo alti, finendo col sacrificarli, ovattandoli, e una formula che di base su disco affascina perché mista e indefinita, mentre forse live non prende proprio per lo stesso motivo, non accendono la piazza, coinvolgendo solo le primissime – ondeggianti – file di una Piazza Castello mezza piena, quindi anche mezza vuota. Non male, sia chiaro, ma neanche bene. Peccato.

 

Gli scozzesi We Were Promised Jetpacks risultano provvidenziali per riprendere il pubblico (e prepararlo alle “vexations” dei Fuck Buttons). La loro “new new wave” fortemente connotata in senso post-punk, ma allo stesso tempo molto melodica, vicina al mondo – ovviamente – dei conterranei Franz Ferdinand, o degli Editors, mostrerà pure la corda su disco per lesa originalità e manifesta ripetitività, ma su palco, qui e ora, risulta efficacissima. Ritmi squadrati e serrati, chitarre iper-energetiche (e stacchi e incisi belli tosti, dal sapore addirittura hard; e nel finale, in un esaltato massimalismo noisy) e una sensibilità pop carica di un pathos in più momenti scopertamente emo (un pezzo in particolare ricorda davvero da vicino il piglio dei Wu Lyf, ma molto meno strapazzati, molto meno Pop Group e decisamente più anni Duemila). Va detto anche che il loro suono, basato su chitarre scintillanti, esalta al meglio la potenza dell’amplificazione, perché pieno, saturo addirittura, ma senza troppo impegno per i bassi (e sarà lo stesso con i Fuck Buttons, che tutto fanno tranne che bass music). Piazza piena per gli scozzesi.

 

A un certo punto ci giriamo e proprio dietro di noi vediamo Meg, l’ex 99 Posse: suonerà oggi, ultimo giorno di Ypsig (12 agosto) come guest di Colapesce (progetto parallelo degli ottimi Albanopower), in uno degli showcase pomeridiani del festival (il 13 sarà, sempre assieme ai Colapesce, al Not.Fest di Noto). Dalla faccia diremmo che a Meg i Wwpjp non siano piaciuti più di tanto. Tra il pubblico intravediamo anche un più coinvolto Nicolò Carnesi (palermitano, uno dei più quotati nuovi – giovani – cantautori, dalla scuderia Malintenti Dischi), che invece ha già suonato nel pomeriggio, abbondando di cover tra Battiato e Radiohead.

 

Fuck Buttons. Il set del power duo di Bristol (Andrew Hung e Benjamin John Power) è un’unica lunga tirata di 50 minuti abbondanti. Come da nome, “fanculo i bottoni”: ovvero niente laptop, niente digitale (o quasi), ma elettronica analogica a base di synth, Casiotone, un microfono effettato e un timpano di batteria. I ragazzi presentano un vero concentrato del loro suono, ma smussando il lato – per così dire – più sperimentale, abstract, divagatorio. Partono con iterazioni e stratificazioni che spiegano meglio di tante parole come il massimalismo sia figlio del minimalismo, si inoltrano in una electro che scopriamo sorprendentemente vicina a una versione cattiva – cattivissima – della mitica “E2-E4” di Manuel Göttsching e, sul finale, proprio negli ultimi tre – lunghi – pezzi (ma sarebbe meglio dire movimenti), virano più decisamente da un noise che mutatis mutandis potrebbe essere tranquillamente chitarristico (ricordiamo le loro liaison con i Mogwai) a una electro solarizzata e supersatura che guarda alla house. In un paio di momenti, Power suona il timpano, aprendo al lato più brut, nel senso di tribale, dei Fuck Buttons, ma sempre e comunque destinato a generare un corposo irraggiamento trancey via infiniti droni (dei My Bloody Valentine dell’electro?).

 

L’impatto dei pezzi è stordente, e per gli strati di suono, e per il volume esagerato (come lo scorso anno, appunto, fu per i Mogwai). Non ci prendono fino in fondo Andrew e Benjamin, ma hanno fatto il loro sporco lavoro.

 

Stasera (12 agosto), si chiude con gli attesissimi – unica data italiana per il 2012 – Primal Scream, guidati da Bobby Gillespie, tra i primissimi a mischiare nel rock sonorità e modi della dance e della acid house. Il loro terzo album “Screamadelica” (1991) è uno dischi più importanti degli anni Novanta.

(Gabriele Marino – lavoceweb.com)
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