Ypsigrock festival, ecco com’è andata

L’inviato dell’autorevole rivista RollingStone – Stefano Cuzzocrea  racconta la quattro giorni di Castelbuono.

È quasi magia, Johnny. L’Ypsigrock numero sedici è un mondo incantato. Be good è l’imperativo. E mentre tutti i festival italiani soffrono, sono in agonia, o tentano di passare a miglior vita, la rassegna siciliana fa vivere a Castelbuono un’ennesima rivincita della provincia. Questo è quanto. Il resto sono nomi di persone, band e città. Non importa quello che sta succedendo fuori da lì: ogni anno c’è gente che rinuncia alle ferie con i suoi perché ha scelto un’altra famiglia. I parenti sono i Primal Scream, tappa di passaggio tra gli Stones e i Soulwax, tra i 70 e gli anni zero, ed anche Shabazz Palaces, ovvero il punto di contatto tra l’eversione del grunge e le ulteriori frontiere dell’hip hop, secondo il verbo Sub Pop. Il pistacchio di Fiasconaro condisce un amalgama che si alimenta in piccoli club, lifestyle, credo irreversibili e presenzialismi. L’importante però non è esserci, ma dare un senso a un’avventura karmica che ha trovato tra le colline de Le Madonie un alleato valido e sciamanico, da più di tre lustri.

 

Nulla è perfetto. Tant’è che l’atmosfera si scalda piano. Ci vorrà la metà della seconda serata per respirarne a pieno l’energia. Il venerdì, difatti, parte in sordina. Sono gli italiani, selezionati dal contestuale concorso Avanti il prossimo, gli sfigati ai quali tocca suonare di fronte a quattro gatti. Nonostante tutto, però, gli Altre di B riescono a catturare più consenso dei loro predecessori, segno che anche la parte emergente dell’Ypsig continua a migliorare. Bene così, visto che l’anno scorso si trattava della pecca più vistosa.

Di vistoso, al contrario, manca tutto il circo di pupazzi degli Of Montreal. Finalmente l’attenzione va sul loro sound ed è addirittura sopra di qualche spanna. C’è chi si lamenta che non facciano molti pezzi vecchi, ma si tratta dei soliti detrattori: gli stessi che si pongono come esperti di fonia e avranno da ridire, nei giorni successivi, anche sull’impianto.

 

E godetevi i concerti, cazzo, in genere andate a sentire live in posti fatiscenti che hanno casse da due lire, è inutile negarlo. Se la musica in Italia è messa male, del resto, questo festival è un’anomalia: funziona, eccome, grazie a volontari che hanno deciso di impegnarsi per un obbiettivo superiore al lucro.

 

Se ne accorge anche Kevin Barnes, il quale sul palco non lesina sudore e cerca di non farsi mancare neppure tutta quella festa di peluche che ha lasciato a casa. Lo show convince proprio per questo. E, complice il taglio di capelli, la duttilità vocale del leader lo fa sembrare un Roger Nelson del glam. Raggiunto in camerino, confessiamo che sembra la versione femminile di Prince, lui ne è entusiasta: “È uno dei complimenti migliori che abbia mai ricevuto”. Dopo di loro il nulla. O meglio, Stephen Malkmus and the Jicks sono un’ottima cover band, la migliore in circolazione, ma non basta a far scomparire lo spettro dei Pavements. Lo sanno anche loro. Abbozzano finanche il repertorio dei Doors per cercare di deviare l’attenzione dai rimpianti. Nulla. Sul finale confessano il passato di Malkmus e cedono l’orgoglio in cambio del plauso. Scontatezza a gogò, sebbene l’epilogo sia stato sofferto.

Di giorno si soffre il caldo invece. Il pomeriggio è troppo azzurro? La parola d’ordine è bar. Nelle ore che precedono l’apertura dello stage in piazza Castello, la gente se ne va al mare, il resto è un festival-bar. Ogni anno, però, spuntano showcase per le vie del centro. Questa volta, oltre al solito Nirta, c’è Colapesce a dirigere la scanzonata appendice della rassegna. Si aggira con Meg, sono freschi di hit.

 

Ci sarebbe un bel sandwich imbottito di gossip da servire in tavola, ma passa in secondo piano rispetto alla loro esibizione: continuano a prometterla e a farla slittare alla sera, piuttosto che al giorno dopo, probabilmente su consigli manageriali. Insomma, un ragazzetto che è cresciuto nei sedici anni dell’Ypsig è diventato una star hollywoodiana dello zipangulo rock. Cos’è? Lo zipangulo è il termine dialettale col quale si intende il melone; lo zipangulo rock è quel genere che veniva suonato nei falò, pagando i musicisti, appunto, con birra nazionalpopolare e fette d’anguria.

 

Di questi artisti filo-sanremesi è pieno l’indie (che del resto un filone a sé non è). Ed ovviamente ne è pieno anche il pomeriggio castelbuonese, tanto che diventa troppo azzurro e, soprattutto, lungo, almeno, per me. L’unico vincitore è Enrico Lanza, talmente dissacrante e poco mieloso da fare scuola. Peccato che nessuno voglia più studiare. Sarà colpa di uomini e gruopie o dell’ X factor?

Chi ha, evidentemente, il fattore X sono i Did. Sono rimasti in tre e la carenza di basso si fa sentire. Ma la mezza manciata di inediti che presentano, assieme ai brani del loro ultimo ep, lascia ben sperare. Il palco è un cantiere aperto, in sostanza, gonfio di dissonanze chitarrose. Non manca neppure la loro Time for shopping, una hit che ha fatto storia. Peccato per il finale: Andrea Prato lancia le bacchette con violenza verso le ultime file, un gesto superfluo quanto energico che banalizza il rock’n’roll a pura vestiblità.

 

Si divertono, questo è tutto.

 

E il meglio deve ancora venire. Shabazz Palaces mandano in estasi l’hip hop. Fondono le cavernose ambientazioni inglesi di trip hop e derivati garage futuribili con nenie e tamburi kumina africani. Innesti. Suol cupo per pochi. Originalità allo stato brado. Eccetto che per il singolone stipato sul finale, come da copione, e finito fuori dalla scaletta per questioni di tempo a disposizione. Capita. Ad ognuno le conseguenze delle proprie scelte. Sta di fatto che il rap nelle corde del duo esce dalla tara e si toglie di dosso le bollicine. Chi si chiedeva cosa succede in città adesso lo sa. Ed ecco, finalmente, l’aria scaldarsi e liberare energia.

 

Il merito è di We Were Promised Jetpacks. Si tratta di una band forse troppo cristallina ma che, proprio per questo, riesce a coagulare tutte le luci e le ombre della rassegna in uno specchio. Il rock come contenitore onnivoro. Dunque ci sta bene qualcosa di classico. Se poi il fonico diventa un mago, oltre che un membro della band, ci si scorda pure di quanto possa essere spigoloso un sound e si accetta pure questa levigata accezione che fa molto new retrò. La fibrillazione del pubblico è piena e la gente tanta. Ai Fuck Buttons non resta, quindi, che cavalcare l’onda. Dopotutto è sabato. E cosa c’è di più tamarro di una febbre discotecara? L’invito a nozze è colto in pieno e il duo sposa l’alternarsi di buona scrittura a rumorismi elettronici. Il volume è una bomba. Le orecchie, infatti, ronzeranno fino al giorno dopo.

La domenica è delle occhiaie. Sono giorni che, dopo gli show, Shirt vs. T-shirt, coadiuvati da side-project e ballamenti sfrenati, spengono l’impianto su al camping molto dopo l’alba. Però c’è pure chi è appena arrivato. La piazza assume un’altra forma quando è stracolma. Amore, amore, amore. Ai giovani Alt-J non sarebbe potuta andare meglio per presentare live il disco d’esordio. E dal vivo meritano. Si fanno una grossa risata quando gli si racconta che il tono del leader somiglia a quello di B-Real dei Cypress Hill.

 

Ma che il loro repertorio sia ingioiellato di hip hop non possono negarlo: “Il folk e il rap sono l’ideale per raccontare le storie, non potevamo fare a meno di inglobarli”, ci spiegano, lasciandoci un sorriso ancora più ampio. Trentadue denti non bastano. Già, perché quando è il turno dei Django Django ciascuno di noi vorrebbe anche due dentiere da usare come nacchere. Potenti. Solari. Simpatici. “Impazziamo per le colonne sonore italiane”, confessano, a luci ormai spente. E verrebbe da ironizzare come avrebbe fatto la Gialappas: ma va, non ce ne eravamo accorti. Si scialano a rendere poliritmico il vecchio west e a illuminare il tutto con melodie californiane. Qualcuno diceva che il loro live sarebbe stato deludente e che non ci si può presentare in pantaloncini sul palco; dopo la performance sono corso a comprare un po’ di bermuda anche per la band di questo malfidato rocker.

Tutte storie vere. Come i pettegolezzi che si potrebbero spifferare sull’entourage che accompagna i Primal Scream. Ma perché rivelarli? Che senso avrebbe? Nulla può scalfire un concerto come quello che Bobby e i suoi hanno spalancato ai piedi del castello. Stupore. Audacia. Meraviglia. Epica. Passionalità.

 

La stessa passionalità con la quale Movin On Up è dedicata a Pasolini, in un percorso karmico che mi riporta nella corrispondenza inedita, ed appena pubblicata, tra lo storico scrittore-regista e mio nonno.

Nulla succede per caso. Siamo in quel Sud pieno d’amore, durante una rivoluzione della provincia che dura da sedici anni. Forse è quasi magia. Oppure qualcosa che gli somiglia davvero troppo.

(rollingstonemagazine.it)

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