Come dovette essere il Municipio Vecchio di Castelbuono

Come dovette essere il Municipio Vecchio di Castelbuono | Prima parte
Visita ideale all’interno del Municipio Vecchio di Castelbuono | Seconda parte
(Di Massimo Genchi) – Il Municipio Vecchio, al pari del Teatro Comunale e di quei decorosi edifici che amministratori illuminati di ogni epoca hanno raso al suolo, esercitano un certo fascino e stimolano la curiosità di chi non li ha conosciuti, specialmente se di essi non ci sono giunte sufficienti documentazioni. Quanti di noi, almeno una volta, non si sono chiesti come dovette essere il Municipio Vecchio?
Intanto bisogna precisare che per Municipio Vecchio non si dovrebbe intendere quello con la facciata in stile neoclassico, così come uscì da un restyling della fine degli anni Venti del Novecento, architettonicamente ridondante di retorica fascista, bensì quello che il Comune prese in affitto, aggiudicandoselo all’asta, nel novembre 1870, grazie alla migliore offerta, depositata dal suo assessore tuttofare di allora, il notaio Paolo Gambaro.

Giova anche ricordare che in quell’epoca la sede del Municipio era priva di unità fisica, essendo i suoi uffici dislocati fra il Carcere (La Banca di Corte è soltanto una delle tante invenzioni dovute alla grandeur della castelbuonesità) e una catapecchia, a quanto pare ubicata ô Sarvaturi.
Per Municipio Vecchio, allora, bisogna intendere la grande «casa magnatizia» di 35 vani, vale a dire il palazzo della vedova di don Domenico Marguglio, come si legge nella famosa mappa del Catasto Borbonico, dove, fra la fine del 1870 e gli inizi del 1871, furono trasferiti gli uffici comunali ma anche, come puntualizza il prof. Cancila in Pulcherrima, «la pretura, la ricevitoria del registro e, forse già sin dall’inizio, anche alcune classi elementari». Ritornando all’asta, è bene ribadire che non si trattò di una compravendita ma di un affitto perpetuo. La cosa più curiosa e, al contempo, interessante è però che, per quel che risulta, il Comune non acquistò mai quell’immobile e, a rigore, ancora oggi pare non ne possa vantare la proprietà se non a seguito dell’acquisizione per usucapione.
Dubbia proprietà per il Municipio, dunque, così come per Le Fontanelle. Infatti anche per il Teatro la proprietà sarebbe poco chiara, almeno stando a quanto sostiene un erede dei soci dell’ARPA, la società che usufruì del Cine Teatro Le Fontanelle dal 1955 al 1984: «l’immobile destinato al cinema teatro Le Fontanelle non è nella disponibilità del Comune sin dalla sua costruzione sulle ceneri dell’abbattuto Teatro Regio».
Per ritornare al Municipio, di quel palazzo più volte restaurato, migliorato, infine demolito nel 1965 per l’ebbrezza di un malinteso modernismo, oggi non rimangono che poche tracce, labili segni, alcuni iconografici, altri impigliati fra i fili di una memoria orale, ormai sempre più prossima alla dissoluzione. Prima che divenga impossibile, allora, cerchiamo di fissare su carta quanto è stato salvato nel tentativo di ridare, al netto di inevitabili lacune e imprecisioni, forma, confini e motivi a un edificio che i castelbuonesi di una certa età continuano a custodire fra i ricordi più cari.
Da una osservazione, anche superficiale, delle rare foto scattate da edifici più elevati (quella che vedete sotto è una foto aerea), risulta evidente come il palazzone di 35 vani altro non fosse che un agglomerato di tanti corpi di fabbrica compenetrati e aggruppati nel tempo, a partire da un nucleo che, a metà Cinquecento, viene descritto alla stregua di «un complesso di case con baglio, cisterna, casalini e altre case non ancora ultimate, come dimostra anche il fatto che nei pressi si trovava una certa quantità di petra di maragma et di intaglio, che doveva servire al completamento».

La foto virata azzurra è la più antica immagine del Municipio che si conosca, risalendo al 1898/1900, ed è uno scatto del fotografo Giovanni Marinese. Le condizioni complessive in cui l’edificio si mostra sono quelle di un vetusto palazzo non proprio ben messo, come dicono i vetri rotti, il fanale mancante all’ingresso e l’aggetto del balcone centrale pericolosamente inclinato verso l’esterno. Quest’ultima circostanza appare confermata dal fatto che, di lì a qualche anno, i due balconi centrali verranno ristrutturati e i sostegni a squadra degli aggetti sostituiti con i più moderni travetti orizzontali, come mostra la seconda foto, posteriore alla prima di un decennio.


Come si può notare dalla foto sopra, il prospetto del Municipio Vecchio, decisamente asimmetrico, si sviluppa attorno all’asse costituito dal portone con il suo bel portale in pietra intagliata, i due fanali assai sporgenti, posti lateralmente ad esso e il balcone sormontato da un artistico elemento architettonico di cui non sembra esistere una inquadratura più nitida per meglio apprezzarlo e decifrarlo. La parte destra del prospetto, fortemente decentrata, presenta tre balconi “a petto” al piano terra e, in corrispondenza, tre al primo piano con le tradizionali e artistiche ringhiere in ferro battuto “a petto d’oca” popolarmente dette finisciuna ccu a panza. Nella parte sinistra del prospetto le aperture si ripetono allo stesso modo, sviluppandosi però su due colonne. Altro elemento curioso è che il secondo balcone da destra e da sinistra presenta una sporgenza più ridotta degli altri.

Le immagini dei primi del Novecento scattate dal Castello, restituiscono un dato che sarebbe andato perduto e che invece costituisce un elemento prezioso, consentendo di ricostruire una parte del fianco nord del Municipio, quello che corre lungo la Discesa delle Scuole.

Questa foto degli anni Venti, infatti, attesta che una parte del prospetto Nord era occupata da tre archi, un piccolo loggiato, inferiormente chiusi da una ringhiera, che si aprivano in corrispondenza della scala di accesso al primo piano del Municipio. Tale elemento architettonico non doveva essere insolito nelle case di Castelbuono, come mostrano, nella stessa immagine, i due archi del tutto simili, benché con la luce più ampia, del palazzo Torregrossa, adiacente al campanile della Matrice Vecchia. Un altro esempio, purtroppo non più visibile, è dato dalla serie di tre archi, chiusi da muretti a davanzale che, fino agli anni Cinquanta, ornava il fianco del Palazzo Guerrieri a Sant’Agostino. E chissà quanti altri sono andati distrutti.

Assai interessante è poi la pianta dell’edificio, estratta dalla mappa catastale urbana, analizzando la quale si conferma, e non solo per via delle forme irregolari del fabbricato, che il palazzone di 35 vani, che lungo il prospetto si sviluppa per 32 metri e poco più, appare come la risultante dell’accumulazione di più corpi di fabbrica. Il baglio, citato nel documento del Cinquecento, in origine, dovette avere ben altra forma e dimensione rispetto a quella assai costipata che ci mostra la mappa, sicuramente per l’avanzamento verso l’interno in tempi recenti degli edifici insistenti su quello slargo.

Il palazzo municipale, dicono i documenti dell’epoca, “sulla via Sant’Anna confina con la casa di don Salvatore Petagna” (verso la piazza) “e con quella del sacerdote don Giovanni Prisinzano” (verso il Castello). Benché il Municipio fosse separato dalla prima dalla Discesa delle Poste e dalla seconda da Discesa delle Scuole, gli edifici erano tuttavia connessi, da ambo i lati, da un arco coperto che si estendeva lungo ciascuna traversa per una dozzina di metri. La copertura ricorda quella di vicolo Madonna, alla Rua Fera, ma diversamente da questa, i nostri archi superiormente non erano edificati.



A conferma della completa asimmetria del Municipio Vecchio, le foto dell’epoca ci mostrano che l’arco posto a copertura di Discesa delle Poste era a sesto ribassato diversamente dall’altro, che era, invece, a tutto sesto.
Il baglio ricordava quello dell’Ospedale Vecchio di Cefalù, non soltanto perché al centro vegetava una bella palma ma anche perché al suo interno si affacciavano le aperture del corridoio che cingeva il primo piano. A quest’ultimo si accedeva dal muro di Nord, dove si apriva la scala a due rampe separate da un ballatoio sulla parete del quale troneggiava un grande quadro con le fotografie dei caduti della Grande guerra, del tutto simile a quello qui riprodotto.

Quella che vedete sotto è una delle ultime immagini che si conoscano del Municipio Vecchio, scattata il 13 aprile 1924, domenica delle Palme, esattamente una settimana dopo le tristemente note elezioni politiche, in occasione delle onorificenze riservate a Cucco per il trionfo elettorale che lo portò al Parlamento nazionale.

Di lì a poco, infatti, il Municipio subì il primo restauro. Un restyling, più che altro. Il vecchio prospetto, sbrecciato, sporco, forse sotto l’impulso delle nascenti concezioni fasciste in fatto di estetica, venne tirato a lucido: via la decorazione che sormontava il balcone centrale, via le sbrindellate e incurvate file di tegole aggettanti, via i lampioni adiacenti al portone d’ingresso, via il vecchio portale in pietra, il municipio uscì dal restauro completamente rimesso a nuovo.




Prospetto segnato pesantemente da finte colonne, finti capitelli, timpani e fregi ai balconi, marcapiani, zoccolatura, un portale che mostra tutta la sua vacua maestosità, una cimasa che sembra solo funzionale a coprire falde di vecchi tetti e l’immancabile pataccone con il fascio in bella mostra al centro del prospetto. Di un qualche interesse solo l’apertura di un secondo portone affiancato al primo per ristabilire un minimo di simmetria e l’apposizione fra essi di due lapidi coi nomi dei caduti. Ma anche un’altra lapide, posta all’estrema sinistra del prospetto, accanto all’arco, capolavoro della propaganda e del vittimismo fascista.

Ricorda, infatti, le inique sanzioni adottate dalla Società della Nazioni contro l’Italia per l’invasione dell’Etiopia. Due giorni prima, il Gran Consiglio del Fascismo decise che in tutti i municipi del paese doveva essere murata una lapide a ricordo dell’assedio economico, che di fatto mai venne applicato.
Al di là della nuova discutibile livrea, il Municipio mantenne intatto quel suo antico portamento austero, quel suo fascino di edificio aristocratico d’altri tempi, quella sua atmosfera calorosa e accogliente che promanava dal baglio con i suoi miscellanei uffici, una sorta di casbah del terziario primigenio. Il baglio sembrava avvolgere in un materno abbraccio tutti i castelbuonesi che per una qualche ragione vi entrassero. La stessa sensazione di trasporto e di affetto invisibile e ancestrale che si prova allorché ci si trova nel baglio del castello.
Il Municipio Vecchio durò ancora poco meno di quarant’anni quindi il modernismo, progettisti e costruttori rampanti, politici di grido e politici miopi, un succulento finanziamento regionale che certo non si poteva rifiutare fecero il resto e in un niente la vecchia casa magnatizia di 35 vani venne buttata giù. Si potrebbe dire: La notte che misero in ginocchio il Vecchio Municipio, parafrasando il titolo di una canzone di rara bellezza, The night they drove old dixie down. Sarà forse esagerato parlare di sacco di Castelbuono ma certamente l’elenco di meraviglie cancellate dal territorio comunale è esageratamente lungo. Occorre che tutti sappiano e ricordino affinché non si compiano altri scempi.
CONTINUA
Ringrazio il prof. Orazio Cancila, l’avv. Mario Lupo e l’arch. Rosario Polisi per la collaborazione che mi hanno gentilmente offerto.
Capisco la sua vena politica e la sua atavica avversità verso un’epoca che ha segnato nel bene e nel male un periodo della nostra Italia (nostra di tutti noi, non necessariamente sua sembra di capire) ma da questo a criticare l’opera di restauro della facciata da una cosa informe, vetustà e cadente, con qualcosa di nuovo e mi permetta di bello ne passa. Che poi le caratteristiche architettoniche si conformino ad un’epoca culturale e prassi.
Condivido in pieno. Purtroppo si legge una rancorosa avversione verso i recenti tempi, con quasi un rimpianto per quella che evidentemente è stata elaborata come una presunta età dell’oro. Io personalmente ritengo che il voler conservare a tutti i costi tutti gli edifici vetusti perchè testimonianza di qualcosa sia uno dei problemi Italiani, rafforzato dall’incaponimento ideologico di chi nel 1985 fece diventare quasi tutto il patrimonio immobiliare pubblico vincolato. A me il municipio rifatto negli anni 60 così schifo non faceva, era anche lui figlio di un’epoca.
Grazie a Te, Professore.
Ottimo, interessante e dettagliato…Grazie…e in attesa della seconda puntata.
Caro Massimo, in una lettera del marzo 2014 all’avvocato Mario Lupo, che non ricordo più se sia stata pubblicata su “Le Madonie”, esprimevo la convinzione «che le amministrazioni comunali che si sono succedute nel tempo non abbiano mai proceduto all’affrancazione del canone» del legato Marguglio, perché non conveniente. Il comune avrebbe infatti dovuto sborsare L. 6.942,13, una somma per la quale avrebbe dovuto pagare annualmente un interesse dell’8-10 per cento, ossia da L. 555,41 a L. 694,21, circa il doppio del canone enfiteutico di L. 347,13. Ricerche successive documentano invece che il 23 marzo 1922 il Consiglio comunale, sindaco Antonio Gugliuzza, deliberò l’affrancazione del canone annuo di lire 347,13 che gravava sulla Casa comunale a favore del legato di maritaggio Marguglio, dando quindi «piena facoltà al signor sindaco per l’espletamento dei relativi atti». A lei l’onere di verificare presso l’Archivio Storico del Comune l’avvenuta affrancazione del canone. Orazio Cancila
Archivio storico del comune? Quale archivio? Importanti carteggi spostati con il camion e scaricati con il ribaltabile come fosse sabbia o ghiaia, se non addirittura finiti al macero. Questa è stata l’attenzione alla storia di Castelbuono dedicata dagli inquilini pro tempore di via Sant’Anna negli ultimi decenni.
A me risulta che l’archivio storico del comune, con atti che risalivano al sedicesimo secolo, negli anni cinquanta sia stato ceduto per carta straccia (qualcuno mi disse che ero studente alla croce rossa). Tuttavia non ho conferma del fatto, né mi sono occupato in prima persona di ricerche storiografiche.
Vanni Mitra, ex impiegato comunale di Castelbuono, mezzo secolo fa a me personalmente ha riferito che, nella prima metà degli anni Cinquanta del Novecento, la parte più antica dell’archivio comunale era stata ceduta alla Croce Rossa. Il locale dove era depositato serviva per creare un ufficio al nuovo impiegato comunale Giovanni Neglia, ex esponente dell’allora Partito comunista di Petralia Sottana. Neglia con moglie e figli abitò in piazza Margherita e pochi anni dopo fu assunto dalla Regione Siciliana, presidente Silvio Milazzo. Per correttezza, aggiungo che, negli anni successivi, a Palermo ho chiesto allo stesso Neglia informazioni in merito. Mi ha risposto che non gli risultava. La documentazione più antica conservata nell’Archivio storico del comune non proviene quindi dall’antica Università di Castelbuono, ma dalla Pretura. In occasione della ricostruzione del Municipio negli Sessanta, la documentazione archivistica di Comune e Pretura, che utilizzava locali comunali, confluì in un locale del castello, da dove poi fu prelevata e, sindaco Angelo Ciolino, inventariata dal prof. Schirò, che in precedenza aveva curato, su mia indicazione, l’inventariazione delle carte dell’Archivio della Matrice. Sindaco Peppinello Mazzola, fu acquisito all’ Archivio Storico del Comune anche la parte restante dell’archivio della Pretura.
Quindi gran parte dell’archivio comunale è stato distrutto? Trasportato da Via San Anna in discarica? Ancora complimenti a chi salva la memoria con le foto
a me fu detto così, però non voglio accendere nessuna polemica. A me l’hanno raccontato, penso la fonte fosse credibile, e i fatti risalirebbero agli anni cinquanta, forse i primi anni cinquanta. Ovviamente bisogna valutare la cosa con la mentalità di quegli anni
La matematica ha sempre litigato con l’ architettura, accolta, però, com’ è stata, dall’ afflato della filosofia: Aristotele nell Etica Nicomachea; I. Kant, nella sua Dottrina trascententale del metodo con riferimento alla Architettonica della ragion pura; Friedrich Nietzsche nella metafora architettonica dei e dove mette in evidenza “la torre che la scienza va costruendo” senza dimentare la commovente elegia del 1888 alla città di Torino (che fu); Manfredo Tafuri (Teorie e storia dell’ architettura); Aurelio Agostino in quel suo , qualcosa sta per qualcosa, mentre per Arthur Schopenhauer <L' Architettura è pietra diventata Musica e Musica congelata. E si potrebbe andare ancora avanti con Le Corbusier e al marxista Henri Lefebvre . . . . ma temo di annoiare il matematico Massimo Genchi senza, tuttavia, esimermi di ricordargli quale sarebbe stata la fine dell' Architettura e dell' Urbanistica italiane, se . . . . se . . . . la Rivoluzione d' Ottobre, tanto necessaria, quanto salutare per la Russia zarista, avesse messo piede in Italia dove trovò l' osso duro del Fascismo. Quando nel 1965 la ditta Minà e Raimondi procedette alla demolizione dell' opus gravida di retorica fascista, avevo appena preso possesso del loro ufficietto impiantandovi il mio studio prefessionale, alloché il mio caro e compianto amico, capo-maestro Vito Minà, mi chiamò per farmi constatare la fatica nel demolire i muri esterni tenuti solidamente al loro posto da un intonaco esterno paragonabile per durezza ad una lastra di acciaio e da una malta che tanto avrebbe apprezato il suo venerato padre, capo-maestro Rosario Minà, che io, da adoloscente, avevo avuto modo di apprezzare allorché con uno squadrone di operai (spaccapietre, scalpellini e muratori con una esemplare e lucida organizzazione nell' estate del 1947 costrui uno grande stallone e le case per quattro famiglie nel feudo dei Fratelli Piro in contrada Gurgo (ad un tiro di schioppo, si fa per scrivere, da Gibilmanna. Che ci si sia stata anche retorica nell' architettura fascista non l' ho mai messo in dubbio, caro Massimo Genchi. Ma che parimenti siano state costruite opere pubbliche, pianificate e costruite città, in buona parte sulla base di pubblici concorsi, valorizzati giovani architetti (per il concorso di progettazione e realizzazione della Stazione di Firenze, a sfidare la Chiesa di Santa Maria Novella dell' Alberti, il Duce "impose" a Piacentini la convocazione di giovani architetti e, vedi caso, a conquistare il 1° Premio fu proprio il team del giovane toscano Giovanni Michelucci, poi diventato un "grande" del movimento dell' Architettura organica in Italia. Le architetture ele città del Fascismo, sorte dove per duemila anni l' acquitrino aveva seminato morte e miseria (v.: Antonio Pennacchi, Canale Mussolin*i, 2010, C.E. Arnoldo Mondadori/Romanzo vincitore del Premio Strega 2010), sono ancora oggi meta di pellegrinaggio di giovani studenti e architetti di tutto il mondo. Pertanto, caro Massimo, andiamoci piano, molto piano, col Fascismo, in ispecie in tempi di magra come quelli che continuano a viversi dal 25 Aprile 1945.
*Della grande opera viene ancora ricordato quanto il Duce disse nel corso dell' inaugurazione rivolgendosi alle maestranze: "Voi avete sconfitto il nemico:la malaria". Per tutta la durata dei lavori non venne registrata morte alcuna di operai. Questo, tanto per non assolvere il Fascismo, bensì invitare alla moderazione e attendere con pazienza l' epilogo del PNRR.